18 giu 2016

ARRIVANO GLI ARABI... MAUMETTUMILIA



Abbiamo già parlato della Trapani cartaginese, di quella romana e non vale la pena soffermarsi troppo su quella bizantina. Basti sapere che verso l’inizio dell’800 la Sicilia era governata in nome dell’imperatore Michele II dallo stratego Fotino, una sorta di prefetto tuttofare. Lotte, intrighi, favoritismi e corruzione erano all’ordine del giorno.

Nell’anno 827, la tradizione dice il 17 giugno, una flotta di settanta navi e diecimila uomini comandati da Asad ibn al Furat lasciò il porto di Sūsa in Tunisia, che allora si chiamava Ifrīqiya, per sbarcare presso Mazara, probabilmente a Capo Granitola, il giorno seguente. In realtà Asad non era un militare e alla vita in caserma aveva sempre preferito lo studio e la preghiera. Era infatti un teologo molto noto, che dalla Mesopotamia si era trasferito a Qayrawan, capitale dell’Ifrīqiya, dove divenne cadì, cioè giudice. Qui era entrato in conflitto col potentissimo emiro aghlabita Ziyādat Allāh il cui stile di vita, lussuoso ed empio, non piaceva ad Asad.

Fu a questo punto che dalla Sicilia arrivò Eufemio, chiedendo aiuto. In realtà non ebbe bisogno di insistere molto perchè Ziyādat organizzò subito una spedizione, pomposamente ribattezzata jihad marittima, che affidò perfidamente proprio al quasi settantenne Asad con la segreta speranza di non rivederlo mai più. Con questa mossa il furbo Ziyādat sperava di liberarsi per sempre da quel topo di biblioteca che lo metteva in cattiva luce coi sudditi, ma anche delle rivalità tra berberi e arabi che brigavano per il comando della spedizione. I classici due piccioni con una fava, anzi se ci mettiamo pure il prevedibile bottino di guerra in arrivo i piccioni diventano tre, se non di più…

Tra sciiti e sunniti
La scorsa volta abbiamo lasciato il settantenne Asad a Capo Granitola con diecimila uomini e settanta navi. Vediamo come si comportò.

Il Leone dell’Eufrate, questo significa Asad ibn al-Furat, tenne fede al suo nome e sul campo di battaglia dimostrò grande capacità. I cronisti arabi raccontano che presso Mazara sconfisse forze dieci volte superiori, ma sono le solite esagerazioni dei vincitori. Le guarnigioni bizantine erano in realtà molto deboli e riuscirono a opporre una tenace resistenza solo se aiutate da solide mura. Fu anche questo che spinse Asad, che all’inizio non aveva probabilmente altri obiettivi se non quelli di razzia e saccheggio, a trasformare la sua guerra di bottino in una guerra di vera e propria conquista.

A quanto pare il problema dell’acqua esisteva già allora dato che l’anno successivo allo sbarco, mentre era impegnato a espugnare Siracusa, il povero Asad morì di dissenteria. Forse Ziyadat Allahsi rallegrò, ma neanche lui ebbe a gioire per molto perchè i comandanti che subentrarono, completarono la conquista del territorio insulare circa un secolo dopo, quando non solo Ziyadat Allah era morto da un pezzo, ma anche la sua dinastia, gli aghlabiti, si era estinta. Non ripercorreremo qui la storia della conquista musulmana, diciamo soltanto che nella seconda parte del IX secolo gli arabi controllavano tutta la Sicilia, tranne alcune enclavi.

A questo punto è necessaria una doverosa precisazione. Gli invasori, che noi chiamiamo arabi per semplicità, annoveravano tra le loro fila berberi, siciliani, musulmani spagnoli e probabilmente anche bizantini dissidenti. Inizialmente si abbandonarono a ogni sorta di barbarie, ma quando le crudeltà cessarono si aprì per la Sicilia un periodo di prosperità e di progresso. I costumi delle popolazioni sottomesse si fusero con quelli dei nuovi conquistatori creando una nuova civiltà. Si può davvero dire che “Graecia capta ferum victorem coepit“!

La Sicilia apparteneva inizialmente all’emirato aghlabida dell’Ifrīqiya, sul quale esercitava una sovranità platonica il califfo abbaside, quindi sunnita, di Bagdad, ma di fatto era uno stato indipendente, e lo divenne ancora di più in seguito quando agli aghlabiti subentrarono i fatimidi, sciiti ismailiti. Questi rivendicavano la guida della comunità islamica in quanto seguaci di Alì, genero di Maometto avendone sposato la figlia Fatima, da cui presero il nome. Il primato però era contestato dai sunniti, che, forti del loro potere militare, erano riusciti a sottomettere gli sciiti almeno fino al X secolo, quando questi ultimi prima occuparono l’Ifrīqiya, cui apparteneva la Sicilia, e poi, sotto la guida dell’imam Al-Mu’izz, erano impegnati nella conquista dell’Egitto, passaggio necessario per arrivare all’abbattimento dell’odiato califfato di Bagdad. Per realizzare il suo piano Al-Mu’izz affidò la guida dell’esercito a Jawhar Al-Siqilli.

Giafar il Siciliano, questo il significato del suo nome (Ṣiqilliyya era il nome arabo della Sicilia), era figlio di genitori cristiani deportati in Ifrīqiya, dove, dopo la conversione all’islam, si guadagnò la fiducia di Al-Mu’izz al punto da diventarne il vizir. Tanto per capirci, Al-Siqilli non era uno qualunque, fu una volpe del desertoante litteram che dal Marocco arrivò in Egitto, e, non contento di conquistare solo le città nemiche, trovò il tempo per fondarne una lui stesso, la città del Cairo, prima di proseguire verso il Medio Oriente. Ma prima di arrivare in Egitto, i fatimidi si trovarono ad affrontare proprio in Ifrīqiya la cosidetta rivolta dell’asino, capeggiata da un certo Abu Yazid, musulmano nè sciita nè sunnita, ma appartenente alla piccola setta dei kharigiti. I fatimidi insomma avevano altro a cui pensare e non potevano più occuparsi della Sicilia. Nel 948 la affidarono quindi alla dinastia di origine yemenita dei kalbiti, sciiti come loro, sotto i quali la Sicilia visse la sua età dell’oro. Se vi siete persi tra califfi, imam, sceicchi e vizir non preoccupatevi, siete in buona compagnia. Tutto il mondo, anche quello musulmano, non ci si raccapezza nemmeno al giorno d’oggi.

L’importante comunque è sapere che nel 970, oltre che de facto, la Sicilia divenne un emirato indipendente anche de jure, sotto il kalbita Abū l-Qāsim ʿAlī.

Alla corte dell’emiro
Gli arabi divisero il territorio in tre parti, chiamate valli (da wālī, ‘governatorati’): il Val Demone a nord-est, corrispondente pressappoco all’attuale provincia di Messina e parte della provincia di Catania, il Val di Noto a sud-est, che comprendeva la rimanente parte della provincia di Catania e quelle di Siracusa, Ragusa, Enna e Caltanissetta, e il Vallo di Mazara, a ovest, il cui territorio si estendeva dalla Sicilia centrale fino a Trapani, e dove si trovava la capitale Balarm, cioé Palermo.

La residenza del governatore, e successivamente dell’emiro, era l’attuale Palazzo dei Normanni, fatto costruire all’interno della cittadella fortificata, al Qasr, da cui deriva il nomeCassero. Da lì comandava l’esercito, batteva moneta, e faceva tutte le cose che normalmente fa un capo di stato, oltre che presiedere le preghiere pubbliche e altre incombenze legate alla religione.

I valli erano governati dagli alcaldi. I distretti più piccoli, chiamati iklim, erano amministrati dai giund, corpi militari formati da soldati che una volta finita la guerra diventavano agricoltori.

I cadì amministravano la giustizia nelle città maggiori, gli hakīm in quelle più piccole. L’emiro poteva convocare un tribunalestraordinario, il maẓālim, presieduto da se stesso e composto da cadì, hakīm, giuristi, segretari, testimoni e guardie.

I mohtaseb erano incaricati del governo urbano, che comprendeva l’edilizia e ordine pubblico. La dīwān era l’ufficio che si occupava delle entrate fiscali e mai il fisco, anche se liberale, fu così efficiente!

Gli arabi regolarono il corso dei fiumi, costruirono serbatoi, abolirono la tassa sugli animali addetti a lavorare la terra e introdussero nuove colture come gli agrumi, il fico d’india e la palma da datteri. L’agricoltura, che fino ad allora conosceva praticamente solo il grano, ne ebbe un immediato beneficio, in ossequio alla massima del Profeta: “Chi coltiva un albero sarà ricompensato”.

Ma non solo l’agricoltura. Anche commercio, edilizia, attività scientifiche e letterarie furono incoraggiate e protette.

La Sicilia conobbe un periodo di tolleranza religiosa, come forse non ebbe mai più nella sua storia. Certo, i musulmani erano favoriti rispetto alle altre confessioni, perchè i dhimmi, così si chiamavano i sudditi non musulmani, dovevano pagare la jizya, una tassa per esercitare il culto, che era più onerosa della zakat, riservata ai musulmani. Ma certamente le condizioni dei dhimmi in Sicilia erano di gran lunga migliori di quelle dei non cristiani o dei cristiani eretici nel resto d’Europa. E infatti infatti la parte orientale dell’isola mantenne perlopiù la fede cristiana, mentre in quella occidentale le due comunità erano numericamente equivalenti.

I nomi di alcune località della nostra provincia, pardon, del nostro vallo, durante il periodo arabo furono:
Alcamo, Alqama cioé terra fertile
Calatafimi, Qal’at Fimi, da qal’at, ‘castello’, quindi Castello di Eufemio
Castellammare del Golfo, Al-Madarig cioé la scalinata
Erice, Gebel Al-Hamid, da gebel, ‘monte’, quindi monte di Allah
Favignana, Gazirat al Rahib cioé Isola del monaco
Levanzo, Gazirat al Yabisah cioé Isola arida
Marsala, Marsa Allāh, da marsa, ‘porto’, quindi Porto di Allah
Salemi, Salem, da salam, ‘pace’
E Trapani?

Quelle mura bianche come colombe
Trapani fu chiamata Itrabinis o Tarabanis, talvolta Trapanesch. Venne strappata ai bizantini verso la metà del IX secolo probabilmente in maniera pacifica. I cronisti ci raccontano anche lo scontro fratricida dell’agosto del 900 tra le truppe chiamiamole “unioniste” di Abū Abbās ʿAbd Allāh, figlio dell’emiro Ibrahim II, e quelle “indipendentiste”, fedeli ai musulmani palermitani, che qualche anno prima avevano espulso dall’isola il legittimo governatore. Lo scontro presso Trapani fu cruentissimo, alla fine gli “indipendentisti” furono sconfitti e la sovranità della dinastia aglabita ristabilita.

Ma torniamo a noi. A quei tempi l’agglomerato urbano era limitato a quello che è adesso il rione San Pietro. I confini della città, utilizzando riferimenti attuali, erano la via dei Biscottai a sud, il convento dei dominicani a nord, la via Torrearsa a ovest e la via XXX gennaio a est. Qui un canale navigabile metteva in comunicazione Mar Tirreno e Mar Mediterraneo e un ponte permetteva l’accesso alla città.

Tutto l’abitato era circondato da mura, “bianche come colombe”, le descrive il viaggiatore Ibn Jubayr, e al suo interno si trovava il ricchissimo mercato agricolo. Sembra che l’abitudine di dipingere le case di bianco risalga a questo periodo. La calce liquida infatti, oltre a disinfettare ed evitare la penetrazione dell’acqua, serviva a riflettere i raggi solari per godere di maggior fresco in estate. Il visitatore che arrivava dal mare doveva restare abbagliato da quello spettacolo!

I porti erano due, uno a tramontana e uno a mezzogiorno. Quest’ultimo, più riparato, era usato per i traffici commerciali ed era molto attivo essendo un punto di passaggio quasi obbligato tra Italia e Africa. Il mare era ricco di coralli e straboccante di pesci di ogni tipo.

Al di là del ponte stavano le saline e il retroterra con terreni, orti e giardini.

La presenza ebraica in città aumentò e accanto alla sinagoga della Giudecca, alla chiesa latina di San Pietro e a quelle greche dell’Ascensione, di Santa Sofia e di Santa Caterina, si potevano ammirare i minareti delle moschee arabe. E tutte le confessioni convissero pacificamente secondo il passaggio coranico: “Non vi sia costrizione nella fede”.

La città si risvegliò dal torpore di secoli di dominazione romana, botteghe artigiane cominciarono a spuntare un po’ dappertutto e s’intrecciarono rapporti commerciali con moltre città, Pisa, Siviglia, Amalfi, Marsiglia solo per citarne alcune.

Anche la cultura progredì. E’ giunto fino ai giorni nostri il nome di Sulayman ibn Muhammad, erudito e poeta, che si recò in Spagna a scrivere poesie per i re musulmani di quel paese. Ma forse il più grande poeta arabo-trapanese fu Abd ar-Rahman al-Itrabanishi, che cantò la bellezza della villa regale della Favara (al-fawwāra, ‘la sorgente’) a Palermo con sublimi versi.

Le cronache, e qui siamo tornati a parlare della Sicilia in generale, ci tramandano che la tranquillità degli abitanti era turbata solo da calamità naturali, mai da sommosse e tantomeno da guerre di religione. Purtroppo tutto questo finì troppo presto a causa delle discordie e dopo l’anno mille l’emirato di Sicilia si divise negli emirati di Siracusa, Enna e Mazara, più altri autoproclamati, in continua guerra tra loro.

Nessuna comunità può anticipare il suo termine né ritardarlo. Corano XV,9

Gli arabi ormai avevano esaurito la loro funzione storica, adesso toccava ai normanni e, a dimostrazione di come la storia si ripeta, fu proprio l’emiro di Siracusa, Ibn Timnah, novello Eufemio, a chiamare in suo aiuto il conte Ruggero contro il rivale e cognato Ibn-Hauasci. Ovviamente Ruggero non se lo fece ripetere due volte come abbiamo già raccontato

L'eredità
Non possiamo certo passare ad un altro argomento senza ricordare cosa è rimasto al giorno d’oggi di quel periodo.

L’architettura innanzitutto. Gli elementi arabi e i preesistenti caratteri bizantini diedero vita ad una originale fusione che raggiungerà il massimo del suo splendore coi nuovi conquistatori, i normanni. E mentre gli edifici arabi sono stati tutti distrutti, dello stile arabo-bizantino-normanno ci restano diverse testimonianze, soprattutto chiese che sembrano moschee.

Agricoltura. Le rivoluzionarie tecniche di coltivazione, di irrigazione e le colture introdotte a quei tempi sono in uso ancora oggi: possiamo immaginare le nostre campagne senza agrumi e fichi d’India?

La tecnologia. Innumerevoli le innovazioni tecnologiche: la bussola, i mulini sia a vento che ad acqua, le prime tonnare, e sapete quanto su questo blog siamo sensibili all’argomento.

Ma non solo lavoro. I guerrieri, gli ingegneri, i navigatori arabi nel tempo libero si riposavano con un gioco da tavola mai visto prima in Europa, gli scacchi, che si diffusero presto nel resto del continente. Dalla radice verbale mata, ‘morire’, deriva proprio lo scacco matto. Lo sapevate? E poi la sera tutti a letto, su comodi materassi (dall’arabo al-matrah, ‘luogo dove si getta qualcosa’).

Ma non è finita. Si può dire che buona parte dello scibile conosciuto all’epoca passò dalle biblioteche del Vicino Oriente all’Europa transitando per la Sicilia. Lamatematica ad esempio: fino ad allora nessuno in Europa, ad eccezione dei soliti andalusi, aveva mai visto una x per indicare l’incognita di una equazione algebrica, anche perchè non nessuno aveva idea nemmeno di cosa fosse l’algebra (da al-jabr,‘ripristinare, completare’). E infatti non c’era nemmeno una parola per esprimere lo zero (da sifr, ‘vuoto’ così come la parola ‘cifra’). Pensate ai poveri studenti siciliani, avrebbero potuto dilettarsi con le piacevolezze della matematica ben prima dei loro coetanei nel resto d’Europa, ma per loro sfortuna le scuole ancora non esistevano…

E non solo matematica, anche chimica, che deriva da al-kīmiyā come ‘alchimia’, geografia, Cristoforo Colombo imparò a navigare sulle mappe del grande cartografo al-Idrisi, astronomia, azimut, zenit, nadir, etc. sono tutti termini arabi, medicina, e su questo è in arrivo una sorpresa, e molto altro. La diffusione della conoscenza era del resto favorita dal fatto che i trattati erano scritti su carta, ancora sconosciuta nel resto d’Europa.

E la lingua ovviamente ne ha risentito perchè molti termini di allora sono ancora in uso nel dialetto oppure sono entrati nell’italiano.

Solo alcuni esempi: tabbuto, balata, burnia, cafiso,tummino, rais, saia, gebbia, zucco, dammusu, jarrusu,mischino, zabbara, giuggiulena, zammù. E ancora zafferano (safar ‘giallo’), zagara (zahr, ‘fiore’), zibibbo (zabib, ‘uva passita’), fondaco (da funduq), magazzino (makhazin, ‘depositi’), dogana (dīwān, ‘ufficio’) ragazzo (raqqāṣ, ‘fattorino’), sensale (simsār, ‘mediatore’),caraffa (da garrāfa), albicocco (al-barqūq, ‘frutto precoce’), algoritmo (dal nome del già menzionato al-Khwārizmī) , almanacco (da al-manākh, tipo di tavole astronomiche spagnole),alambicco (da al-anbīq), elisir (al-iksīr, ‘pietra filosofale’), etc. etc. etc.

l giorno d’oggi ci sono ancora cognomi di chiara origine araba:
Zappalà, ‘forte in Allah’, e Fragalà, gioia di Allah, diffusi a Catania
Vadalà o Badalà, ‘servo di Allah’, molto presenti anche in Calabria
Cassarà, ‘castello di Allah’, soprattutto a Palermo

Ce n’è già abbastanza per definire a buon diritto la dominazione araba la più bella tra tutte quelle che la Sicilia, e Trapani, hanno avuto nella storia. Ma non è finita. Della più importante eredità che ci ha lasciato questo periodo, più di ponti, palazzi, canali di irrigazione, bussole e carta per scrivere, non abbiamo ancora parlato…

Dalla A(rancina) allo Z(ammù)
Gli arabi hanno portato in Sicilia tante coltivazioni: canna da zucchero, zucche, cetrioli, melenzane, cocomeri, meloni, palme da datteri, cedri, aranci, limoni, gelsi, melograni, noci, mandorle, pistacchi, olivi, carrubi e molte altre. Impossibile pensare che questo non abbia influito sulle abitudini alimentari. E infatti in quegli anni si verificò la più buona di tutte le rivoluzioni, quella culinaria.

Quello che dal cristianesimo era considerato un peccato di gola, diviene un dono di dio, e la cucina si adegua subito alla nuova filosofia.

Cominciamo da sua maestà il cuscus, piatto tipico del Maghreb e di Trapani, causa di tanti mancati matrimoni. Gli arabi lo preparavano con carne e verdure, ma a Trapani c’era più pesce che carne, e da allora il cuscus di pesce è diventato l’emblema della cucina trapanese.

Ma del cuscus diremo un’altra volta perché merita un trattato a parte, e noi dobbiamo andare avanti e parlare di un impasto di farina e acqua a cui veniva data la forma di fili allungati. Gli arabi li chiamavano itrya, che è rimasto nel dialetto di diverse regioni italianizzato in tria, termine che indica gli spaghetti. In Sicilia tra l’altro abbondavano i pesci e il finocchietto selvatico, e allora tutti si rallegrarono perchè era nata la pasta con le sarde.

E che dire delle piccole palline di riso ripiene di carne macinata, simili a delle piccole arance, che poi venivano fritte? E dei timballi (da at-tabal)? E delle panelle? La gente ne rimase folgorata e non ha più smesso di mangiarle fino ai giorni nostri…

La neve non mancava certo sull’Etna o nelle Madonie. Veniva raccolta nel periodo invernale e conservata in apposite ghiacciaie per il periodo estivo. Qualcuno ebbe l’idea di mischiarla con lo zucchero, erbe e spezie. Non sappiamo il nome di questo antenato di Francesco Procopio dei Coltelli, ma costui è stato realmente il primo gelataio della storia, specializzato nella preparazione di sorbetti (da sherbet) e granite al gelsomino. Da lì i gelati si diffusero nel resto del mondo. Risale a quei tempi l’usanza ancora diffusa a Trapani di consumare la granita nelle ore antimeridiane.

E dato che parliamo di zucchero (da sukkar) non possiamo dimenticare che è alla base di quasi tutta la pasticceria moderna: graffe, sfincioni, pesche, cassate (qas’at, ‘formaggio’), cassatelle, cannoli. Tutti a base di ricotta zuccherata…

Michele Amari, il più grande studioso della Sicilia islamica, ci parla pure di alcune paste fermentate e fritte, chiamate sfang probabilmente a causa della forma spugnosa, antenato degli sfinci, ora diventato dolce natalizio per eccellenza.

Strano a dirsi, ma gli arabi prepararono anche i primi distillati della storia. Mettendo del vino negli alambicchi (all-ambiq, ‘distillare’) riuscivano ad ottenere un alcol (al-ġuḥl, ‘spirito’) dalla gradazione molto forte. Lo usavano solo per disinfettare le ferite perchè il Corano proibisce di bere vino, ma la limitazione non valeva per i non musulmani. E così nacquero lo zammù (zammut, ‘anice’) e tutte le altre bevande alcoliche.

Quindi ogni giorno prima di metterci a tavola, oltre a ringraziare Dio, ricordiamoci di ringraziare anche Allah…

De Cuscusu
Questo articolo è il più inutile di tutto il blog, perchè se conoscete il cuscus vi sembrerà di grande banalità; se non lo conoscete, non sarà certo una veloce lettura a descrivere qualcosa di indescrivibile.

Ma proviamoci lo stesso. Non si può certo concludere la storia degli arabi senza un articolo sul cuscus.

Il cuscus è uno dei piatti più diffusi nei paesi del Maghreb. Consiste in una semola di grano duro lavorata con acqua e farina per ottenere granellini finissimi. La semola viene cucinata insieme a carne, pesce o verdure. Solitamente viene servito in un grande piatto e viene condiviso da tutti i commensali, che si siedono intorno ad esso e se ne servono utilizzando la mano destra, riservando le porzioni migliori agli eventuali ospiti. La bevanda più adatta per accompagnare questo piatto è il leben, un tipo di latte cagliato con proprietà rinfrescanti e digestive.

La prima fonte storica che parla del cuscus è il Kitab al-Ṭabīḫ, trattato di cucina del XIII secolo. Gli storici raccontano che in quel periodo era un piatto diffuso nell’area che va dal Marocco alla Tripolitania, che a sua volta forse lo aveva importato dall’area subsahariana. Davvero difficile andare ancora più indietro nel tempo…

Non è molto credibile la bizzarra teoria di Pellegrino Artusi che lo ritiene un piatto della tradizione ebraica.

Sembrerebbe invece fuor di dubbio che dobbiamo la grande diffusione del cuscus in Sicilia alla conquista araba. Da sempre Trapani era un borgo di pescatori e allora il cuscus, una volta portato dagli arabi, non poteva che diventare di pesce. Eppure anche questo è obiettato da qualche trapanese che sostiene che al tempo della conquista araba il cuscus era già conosciuto, perchè c’era stato chi, di ritorno dal Nordafrica, aveva descritto il piatto, che venne quindi preparato dalle massaie locali con gli ingredienti a disposizione.

Quali pesci si usano per il cuscus? A quanto ne sappiamo più o meno tutti: gronchi, scorfani, cernie, ope, luvari, anguille, gamberi, scampi.

Proviamo lo stesso a raccontare come si prepara, con l’avvertenza che il cuscus è uno, ma i modi di prepararlo sono tantissimi e chi scrive non ne ha mai cucinato nessuno, essendo avvezzo solo a mangiarlo.

Innanzitutto nella mafaraddra, grossa ciotola di terracotta, si incoccia a poco a poco la semola con poca acqua salata, con un movimento rotatorio e continuo delpalmo della mano, movimento lento e quasi mistico. Incocciare significare fare delle palline molto piccole, non troppo piccole altrimenti resta semolino, non troppe grosse da sembrare dei ceci. E’ il momento fondamentale. Se si sbaglia qui, potete buttare tutto, tanto che il famoso gastronauta Alberto Denti di Perajno disse che, oltre alla semola, per preparare il cuscus serve una donna “abilissima e sicura dell’arte sua”. La chiama proprio così, arte, perchè non c’è altro modo di definirla.

La semola incocciata viene messa da parte e alla fine si rimette tutto nella mafaraddra assieme a qualche spicchio d’aglio, una cipolla, peperoncino per chi lo desidera.

Ora si mette tutto nella pignata cuscus, o cuscusiera, una specie scolapasta di terracotta, con qualche foglia di alloro sul fondo in modo che la semola noncada nei buchi.

La cuscusiera si mette sopra un’altra pentola riempita con un poco d’acqua. Lo spazio tra le due pentole viene sigillato con le coddura, impasto molle di farina e acqua. Attenzione a non fare cadere il tutto altrimenti “Castello sopra castello, tutto in terra e cicirello!”

Fate cuocere al vapore per un’ora, un’ora e mezza e poi mettete tutto nel lemmu. Mentre il cuscus cuoce, o anche prima se volete, preparate la ghiotta, la zuppa di pesce. La quantità di pesci dipende da voi. Giacomo Pilati e Alba Allotta, nel loro La cucina trapanese consigliano la proporzione 4:1, quattro chili di pesci per un chilo di semola.

La zuppa è una normalissima zuppa di pesce arricchita da un pesto di aglio, mandorle, prezzemolo e poco olio. I pesci più pregiati vengono tirati fuori quando sono cotti e vanno ad arricchire il cuscus, gli altri vanno lasciati fino a disfarsi per insaporire ancora di più il brodo.

Quando la zuppa è pronta si filtra per separare il brodo dai pesci. Parte del brodo serve ad abbeverare abbondantemente il cuscus quando la cottura al vapore è completa. Ricordiamoci che il cuscus beve moltissimo quindi abbeveriamo con generosità. Ultima cosa da aggiungere è il pesce, senza spine ovviamente. A questo punto bisogna fare arripusare il cuscus nellemmu sotto una coperta di lana, di modo che possa gonfiarsi in tutta tranquillità. Quanto? Un’ora, anche due. Più riposa meglio è. E’ risaputo che il cuscus del giorno dopo è ancora più buono.

Se avete resistito alla tentazione di assaggiarlo prima del tempo, siete pronti per sedervi a tavola. Il cuscus si consuma tiepido, si riscalda solo il brodo che rimasto dalla precedente abbeverata, e lo si mette direttamente nel piatto. E chi è arrivato fin qua, può finalmente godere i frutti della lunga preparazione.

Certo si può verificare anche il caso che il risultato non sia all’altezza, e allora sono guai. Sapeste quanti matrimoni sono saltati a causa del cuscus?! Si, perchè dalla futura moglie non si pretendeva solo che sapesse ricamare, cucinare e fare il bucato, ma anche che sapesse districarsi tra cuscusiere, mafaraddre e pentolame vario per ottenere un risultato all’altezza di quello della propria madre, impresa quasi sempre impossibile… E se sfregando la semola bagnata venivano fuori delle palline troppo grosse si ottenevano le temutissime frascatole, anche se oggi sono rivalutate anch’esse, soprattutto nell’area di Mazara.

Oltre a questo si può trovare il cuscus di maiale e cavolfiori, il cuscus con le fave, con le lumache, con il castrato, e tutti ogni anno a settembre, durante il Cous Cous Festa San Vito lo Capo, si danno duramente battaglia, sfidando anche gli altri paesi. Questo umile blog condivide l’opinione del già citato Alberto Denti, che, paragonando il cuscus del Nordafrica, dove ha vissuto, a quello trapanese non ha dubbi: “Quanto là era, ed è, cibo rozzo e triviale, quando il grasso di montone lo imbeve, diventa nel trapanese presentazione che esalta senza involgarire, dà sapore sottile e delicato alla semola senza trasformarla né in crema di semolino né in pastone ammazzafame.”


Scoperto in Vaticano un codice arabo scritto in ebraico nella Trapani del 1200
E’ sempre così. Si parte per fare tre articoli, al massimo quattro, e si finisce per scoprire delle cose che mai si sarebbero immaginate. E allora eccoci qua a decifrare un manoscritto arabo scritto in ebraico nella Trapani del ‘200. A dire la verità tutto il lavoro è stato già fatto dallo storico Giuseppe Mandalà, noi lo riassumiamo solamente.

Andiamo con ordine. Nel medioevo l’arabo era la lingua scientifica dell’umanità, un po’ come lo è l’inglese ai giorni giorni. Era in arabo infatti che scrivevano scienziati persiani, siriani, copti, ebrei, indiani, berberi e chiunque altro volesse far conoscere le proprie idee. Tra i tanti campi in cui gli arabi eccellevano, la medicina non faceva eccezione. Tra i trattati scritti in arabo, tradotti poi in latino o ebraico, ne ricordiamo tre:

• il Kitab al-Mansouri fi al-Tibb, Il libro di medicina dedicato ad Al-Mansur, scritto da al-Razi all’inizio del X secolo;

• il celeberrimo Kitab al-Qanun fi al-Tibb, Il Canone, probabilmente il più famoso testo di medicina della storia, scritto da Avicenna;

Ma di recente, per merito di Mandalà, ne è stato scoperto un altro:

• il Kamil al-sana ‘a al-tibbiya, ovvero Il libro perfetto dell’arte medica, conosciuto anche come libro regale, di Ali ibn Abbas, detto al-Majusi, il mago, perchè discendeva da una antica famiglia zoroastriana. Il libro perfetto risale alla fine del X secolo ed è più sistematico e sintetico del libro di al-Razi e più pratico di quello di Avicenna, essendo diviso in due parti, una teorica e una pratica, di dieci libri ciascuna.

Ma quale è stata la scoperta di Mandalà? Ebbene, Mandalà ha trovato nella Biblioteca Apostolica Vaticana un manoscritto, il numero 358, scritto in semicorsivo sefardita risalente al XIII secolo. La particolarità di questo manoscritto è che si tratta della traduzione dei capitoli VI-X del libro perfetto dell’arte medica di al-Majusi.

Costantino l’Africano e Stefano di Antiochia ne hanno fatto delle traduzioni in latino. Quella di cui stiamo parlando è in ebraico. Ne esistono anche altre sempre in ebraico, ma posteriori al manoscritto 358.

L’inizio, il colophon in termine tecnico, colpisce dritto come un pugno in faccia.

E’ terminato il decimo capitolo de Il libro regale giovedì 26 del mese di adar dell’anno 5053 della creazione in Trapani situata sulla riva del mare, e lo ho traslato dall’arabo all’ebraico, grazie a Dio signore degli universi, ed esso [il codice] è di mano del proprietario della copia, e questa copia appartiene al medico Sabbat, figlio del medico Atiyyā, che Dio abbia misericordia di lui

Abbiamo letto bene! Il codice è stato tradotto a Trapani. Il 26 di adar del 5053 corrisponde al 13 marzo del 1293.

Non siamo esperti di arabo, nè di ebraico, ma Mandalà ci assicura che, nonostante i caratteri sefarditi, il lessico è fortemente islamico, tipico del X secolo. L’opera è proprio quella di al-Majusi!

“Il Vaticano ebr. 358 è uno straordinario testimone della circolazione del sapere medico arabo-islamico tra gli esponenti della comunità ebraica trapanese. Questa circolazione si inserisce nel quadro della più vasta eredità arabofona degli ebrei dell’isola, ma si giustifica anche in virtù della vocazione geopolitica di Trapani, aperta alla vicina costa africana e al mondo arabo-islamico in generale”

Il libro ha contribuito a diffondere la cultura medica nel mondo antico, basti pensare allaScuola Salernitana, e vi lasciamo il piacere di leggerlo. A noi il libro piace perchè, ancor più che di medicina, ci parla della Trapani del ‘200. Era una città dove passeggiando per il centro ci si poteva imbattere con facilità in Alberto degli Abate, il futuro santo, in medici ebrei e arabi, oltre che nei cavalieri templari di cui abbiamo già parlato

Era un centro della cultura dell’epoca e la presenza ebraica in città era considerevole. E fa sorridere Eliyahu Ashtor che nel suo The Jews of Trapani in the later Middle Ageslamenta la scarsa cultura ebraica in città, tanto è vero che egli stesso trova negli scritti di notai dell’epoca molteplici riferimenti a codici ebraici, anche se di tali manoscritti ai giorni suoi, che sono più o meno anche i nostri, non c’è più traccia.

Altri manoscritti invece ci sono pervenuti. Essi furono tramandati dalle antiche famiglie ebraiche e si trovano oggi nella Biblioteca Vaticana, portati probabilmente dopo la cacciata degli ebrei dal Regno nel 1492. Tra questi il Vaticano 358…

(da rumpiteste.wordpress.com)

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