17 set 2016

LE STRANE TOMBE DI PANTELLERIA




L'isola di Pantelleria si trova tra la costa sud-orientale siciliana e la Tunisia, ed è più vicina a quest'ultima che all'Italia. E' di origine vulcanica e fu colonizzata da Fenici, Cartaginesi, Romani e Arabi. Nonostante l'isola si confermi una miniera di reperti archeologici di epoca romana, la vera attrazione è costituita da misteriose strutture, rinvenute nell'area di Mursia, che hanno incuriosito gli studiosi. Ma facciamo un passo indietro nel tempo. Prima che dai Fenici, Pantelleria fu abitata dai Sesi, un apopolazione neolitica che forse si stanziò qui per l'estrazione della preziosa ossidiana, la pietra nera e lucida adatta per le armi. Di questa stirpe, di cui si sa ben poco, restano invece particolari costruzioni chiamate "sesi", che hanno dato il nome al popolo stesso: un termine inventato dai panteschi, i quali con il nome "sesi" indicano tutte le collinette formate da cumuli di sassi. 
Si tratta di monumenti megalitici a forme di cupola, modellati a spirale con macigni lavici. Il più interessante è il sese del Re o sese Grande, alto 6 metri. Presenta 11 ingressi, con 12 corridoi che conducono ad altrettante celle funerarie disposte tutte intorno al muro perimetrale. I defunti venivano sepolti in posizione fetale, con la testa rivolta a ponente, verso l'interno, e i piedi in direzione dell'uscita della galleria. Si tratta di una forma di sepoltura unica al mondo. 

Perchè questa singolare disposizione? Lo scopo sembrerebbe quello di creare un legame che unisse i defunti oltre la morte. Gli studiosi ipotizzano che i corpi, sistemati in posizione fetale, fossero suddivisi per segno astrologico o che in qualche modo i 12 cunicoli fossero i relazione con le costellazioni. Per quale ragione? E' possibile, come dicono alcuni, che questa pratica avesse lo scopo di proteggere la comunità e i loro discendenti o di metterli in contatti con il cielo? Sono tanti gli interrogativi che ancora non hanno trovato risposta. 
Per diversi decenni la funzione del sese è rimasta incerta: non si riusciva a capire se si trattasse di un'abitazione o di un monumento funebre. Poi, in seguito a diversi scavi, si è scoperto che molti contenevano resti umani con il corrispettivo corredo funerario. C'è però anche un'altra ipotesi che mette in dubbio che si tratti solo di tombe. Si pensa infatti che alcune di queste costruzioni fossero in qualche modo legate alla preghiera e avessero una funzione divinatoria. Un fatto è certo: si tratta di monumenti unici al mondo, anche se si nota una certa somiglianza con i nuraghi sardi costruiti nel II millennio a.C. 
Pare che queste costruzioni siano opera del popolo che probabilmente si stanziò per la prima volta sull'isola circa 5 mila anni fa, quando il vulcano Gelficamar era ancora attivo. Di questo popolo non si conosce l'origine. Anche qui gli studiosi sono divisi: secondo alcuni provenivano dalla Libia, per altri erano di origine iberica o addirittura, secondo una tesi più recente, era sceso dal Nord Europa. Indubbiamente, oltre a sapere lavorare l'ossidiana, questi uomini divennero esperti di opere in muratura. La costruzione che cattura maggiormente l'attenzione degli studiosi è il sese del Re. Si suppone che fosse la tomba della famiglia dominante del villaggio. 

Secondo gli studi dell'archeologo Paolo Orsi, nei primi del 900 sull'isola di Pantelleria dovevano essere presenti una sessantina di sesi, ma in origine avrebbero superato la centinaia. Poi, gradualmente, sarebbero stati demoliti per recuperare e riutilizzare il materiale. Le strutture più piccole (che non superano il metro di altezza) vengono chiamate dagli abitanti di Pantelleria sesi minori, mentre quelle più grandi (il sese più alto raggiunge i 6 metri) sesi maggiori. Tutti presentano delle aperture attraverso un corridoio. Queste differenze indicano che probabilmente la popolazione era divisa secondo la stirpe e il rango. 
(da "Misteri, crimini e segreti della Sicilia" di Enzo Di Pasquale) 

A LEVANZO UN MESSAGGIO CHE RISALE A 10 MILA ANNI FA
























Nel 949 venne casualmente scoperta la Grotta del Genovese a Levanzo, così chiamata dal nome della contrada dove si trova. Al suo interno fu rinvenuto un documento straordinario per la storia della nostra civiltà: tracce di messaggi primitivi in cui religione e cultura si fondono misteriosamente. Fu una turista, la pittrice Francesca Minellono, a capire per prima l'importanza dei graffiti tracciati sulle pareti. La donna si imbracò a una corda e si inoltrò nel'antro. Quello che si presentò ai suoi occhi la lasciò sbalordita, e così abbozzò degli schizzi che mostrò a un suo amico, il paleontologo Paolo Graziosi. 
L'anno successivo i due ritornarono a Levanzo. Graziosi, dopo approfonditi studi, pubblicò un libro sulle misteriose pitture e incisioni tracciate con tinture ocra e nere, ottenute con il carbone e il grasso di animale. Il segno, preciso e sicuro, è rimasto immortalato nella roccia da oltre 10 mila anni. Quel luogo non era dunque un semplice riparo: qualcuno aveva voluto lasciare una traccia. All'interno della grotta si svolgevano riti magico-religiosi? O si trattava piuttosto di una libera interpretazione della realtà da parte dell'artista? 

Nella parte più bassa si trovano graffiti paleolitici che rappresentano uomini stilizzati impegnati in una sorta di danza. Sono incisi anche cavalli, bovini, suini, cervidi e animali domestici, probabilmente cani. Nella parte più alta vi sono pitture di età neolitica. Rappresentano figure umane e la fauna del luogo, ma la cosa più straordinaria è la sagoma di un tonno, che fa supporre che anche a quei tempi si praticasse la pesca, in un tratto di mare che nei secoli futuri sarebbe stato teatro di movimentale mattanze. I disegni degli animali sono piuttosto elaborati, mentre quelli umani sono molto semplici, composti da linee verticali e orizzontali. 

Alcuni hanno voluto vedere in queste immagini la rappresentazione di un momento di raccolta spirituale, un intimo dialogare tra l'uomo e la natura. Gruppi di uomini sembrano galleggiare sulla parete rossiccia e sono proiettati verso l'alto, come se fossero in un'estasi mistica. Le incisioni e i disegni, anche se sono molto semplici, sono di grande fascino poichè evocano riti magici  a cui i primitivi erano soliti ricorrere per propiziarsi una buona battuta di caccia. Uno dei piu' suggestivi graffiti è certamente quello raffigurante il cervo con lo sguardo rivolto all'indietro. La figura dell'animale restituisce l'immagine di un movimento elastico. Particolare anche la scena del toro che insegue una mucca. 

Il ritrovamento è ancora più straordinario, se si considera che è la prima volta che vengono scoperte in Italia tracce di pittura a parete di epoca preistorica. La datazione, eseguita con la tecnica del carbonio 14, fa risalire le incisioni al 9680 a.C. Durante successivi scavi archeologici, eseguiti negli anni '70, è stato anche rinvenuto lo scheletro di un elefantino nano. No si tratta tuttavia di una scoperta singolare, in quanto questa specie era molto diffusa nell'area del Mediterraneo. Proprio gli elefanti nani sarebbero all'origine del mito di Polifemo, ambientato in quest'isola. I loro teschi avrebbero tratto in inganno gli antichi, spingendoli a ipotizzare l'esistenza di giganti con un solo occhio, come era appunto 'omerico Polifemo. In realtà il foro al centro dell'enorme testa non era altro che la cavità della proboscide. La Sicilia conserva quindi in una santuario preistorico un enigmatico messaggio, risalente a oltre 10 mila anni fa.
(da "Misteri, crimini e segreti della Sicilia" - Enzo Di Pasquale)

8 set 2016

Ricetta e storia del pesto alla trapanese

Un’antica prelibatezza siciliana


Il pesto alla trapanese, in dialetto “agghiata”, è un’antica ricetta siciliana che nasce proprio nei porti di Trapani, dove i marinai approdavano con le loro navi quando transitavano da e verso l’Oriente.
I genovesi durante le loro soste in Sicilia fecero conoscere agli isolani la famosa “agliata ligure”, una salsa cruda a base di noci e aglio, che i siciliani rielaborarono utilizzando i prodotti della loro terra come le mandorle e i pomodori.

Il pesto alla trapanese è un ottimo condimento per primi piatti sia caldi che freddi. A Trapani viene spesso preparato con le busiate, un tipo di pasta realizzato con semola di grano duro ed acqua, la cui forma viene realizzata con un ramo di buso, il fusto di una pianta della famiglia delle graminacee.
Si tratta di un piatto povero, fatto con alimenti molto semplici e facilmente reperibili. Secondo la ricetta tradizionale, tutti gli ingredienti dovrebbero essere tritati in un mortaio, ma se non disponete di questo strumento potete anche usare un semplice mixer da cucina.

Ecco di seguito la ricetta per preparare questo tipico condimento della cucina siciliana.

INGREDIENTI:
6 pomodori maturi
50 g di mandorle pelate
15 foglie di basilico fresco
2 spicchi d’aglio
1 cucchiaio di pecorino
olio extravergine d’oliva q.b.
sale q.b.
pepe q.b.

PROCEDIMENTO:
Lavate e asciugate delicatamente le foglie di basilico, sbollentate i pomodori per 2-3 minuti e, aiutandovi con un mestolo forato, scolateli e lasciateli raffreddare. Dopo averli privati della buccia e dei semi, metteteli nel mortaio o nel mixer da cucina. Aggiungete anche il basilico, l’aglio, le mandorle e l’olio a filo. Tritate il tutto fino ad ottenere un composto abbastanza omogeneo. Condite con pecorino, sale e pepe.
Il pesto si mantiene in frigo per un paio di giorni, ben coperto da uno strato di olio, altrimenti è possibile congelarlo.

MONTE COFANO E LA LEGGENDA DEL SUO CUSTODE


Una curiosa leggenda popolare su Monte Cofano, soprannominata la “montagna incantata” per l’austera bellezza con la quale si erge ai piedi della località balneare di Cornino, narra che avesse attirato e spinto i trapanesi nello scellerato proposito di volere solo per sé e proprio in città la stessa montagna.

Due “compari trapanesi”, attori improbabili dell’inverosimile impresa pensarono così di legare Cofano con una fune, nel disperato tentativo di trascinarla fino a Trapani.

L’espressione dialettale trapanese «tira cumpari chi Cofano veni» entrata umoristicamente in uso come metafora di un’impresa impossibile, sembra rifarsi proprio ai fatti riportati in questa leggenda.

Come volevasi dimostrare, l’unico effetto prodotto dallo sforzo dei compari fu la rottura della corda, con la conseguente caduta in mare dei due. Gli abitanti della cittadina ai piedi del monte, l’odierna Custonaci, fieri di vivere all’ombra della maestosa montagna, venuti a sapere del maldestro tentativo di furto e mossi da un sentimento di offesa, decisero di comune accordo di mettere a guardia di Cofano un “camperi”: un custode della montagna, per scongiurare ogni altro malsano gesto dei trapanesi.

Ma a Trapani, tanta era la delusione per il vergognoso epilogo dell’impresa e tanto implacabile era l’invidia per l’amenità di quei luoghi così vicini e nello stesso tempo così lontani, che i due compari, non potendone più sopportare nemmeno la vista, inviarono un demone malvagio che avrebbe dovuto lanciare su Monte Cofano, sul camperi e sulla stessa Custonaci tante saette infuocate da distruggerne persino la memoria.

L’assalto portato dal demone ai custonacesi venne ostacolato dall’intervento divino con una freccia che miracolosamente salvò Cofano e Custonaci deviando le saette, ma una di queste colpì il camperi che all’istante si pietrificò. Un’altra saetta colpì con violenza una vicina località conosciuta come Bufara, dove ancora oggi è visibile un’enorme voragine scavata nel terreno (quasi sicuramente dovuta all’impatto di un meteorite).

Quando tutto finì, gli abitanti di Custonaci esultarono per la vittoria in difesa della loro terra, ma il camperi: l’uomo pietrificato, identificabile in una sporgenza calcareo-sedimentaria di Monte Cofano, rimarrà per sempre il custode della montagna incantata.4


(da www.eventitrapani.it - si M. Di Marco)