19 dic 2016

Il percorso storico della comunità ericino-trapanese



La storia di Trapani ed Erice si intreccia continuamente nei secoli con un'alternarsi di unioni e di allontanamenti. A partire dalle origini della città falcata (Drepanon), che nasce proprio come approdo per la vetta consacrata a Venere (Eryx), ad opera degli stessi abitanti della città ericina, passando, come ci racconta lo storico Diodoro Siculo, per la successiva distruzione di Eryx - ad eccezione del tempio - da parte del generale cartaginese Amilcare e il conseguente trasferimento, in vista dello scontro con i romani, di tutti gli ericini all'interno della città fatta fortificare sul promontorio che si distende a forma di falce sul mare (Drepanon), ed ivi fece costruire la fortezza della Colombaia e il Castello di Terra.

Inizialmente, nei secoli successivi non vi fu un netto distacco tra le due città, ma le vicissitudini dovettero essere abbastanza comuni e complementari e i legami tra le due comunità abbastanza stretti, come si potrebbe evincere anche dal culto comune di San Giuliano Martire cartaginese e Sant'Alberto degli Abbate.

Come scrive Salvatore Corso , si trattava si di compagine economica, certamente complementare nelle sue parti, sebbene diversificata ma non fino al punto da distanziare le due città come avvenne gradatamente a partire dal viceregno spagnolo.

Invece un radicale mutamento del rapporto tra le due città si verificò quando l’ampliamento del territorio ericino, attribuito a Federico II, si consolidò al punto da raggiungere l’autonomia dalla città marinara, autonomia supportata con l’estensione dei privilegi di Trapani e perseguita sin dai primordi del viceregno spagnolo: si accentuò la vocazione agro-pastorale della città del Monte, che la configurò come “città dei burgisi ricchi”.

Da quel periodo le vicende delle due città seguirono destini diversi e a volte contrapposti, essendo Trapani proiettata verso il mare ed aperta alle nazioni ed ai traffici marittimi, mentre Erice rivolse ad est il suo sguardo all'interno dell'immenso territorio del suo entroterra agricolo, esprimendo a pieno la sua vocazione agricolo-pastorale.

A partire dalla fine del XVIII secolo, la storia di Trapani ed Erice comincia a riavvicinarsi con un graduale processo di compenetrazione delle due comunità.

Nel 1786 in Sicilia fu nominato vicerè Carlo d'Aquino, principe di Caramanico.
Il Caramanico avvio una politica economica e sociale mirata alla costituzione della piccola proprietà contadina con quotizzazione dei demani comunali. Così diede il compito di censire gli immensi possedimenti terrieri facenti capo alla manomorta demaniale ed ecclesiastica, affinché fossero poi divise in lotti da concedere in enfiteusi a borghesi e contadini.

Con la censuazione del patrimonio demaniale di Monte S. Giuliano (1790/91), si era proceduto ad assegnare a 306 famiglie di coloni, proprietari e allevatori di bestiame quasi cinque mila salme di terra misurate secondo la corda locale. Questo determinò l’emigrazione a valle delle famiglie contadine che, prima quasi tutte raccolte nel centro urbano sulla vetta, ora s’insediano nei nuovi borghi rurali, che poi daranno vita ai comuni di Valderice, Custonaci, San vito lo Capo e Buseto Palizzolo.
Il territorio della città di Monte San Giuliano comprendeva, infatti, fino alla prima metà del 1900, il vasto territorio che da monte Erice giunge a Castellammare del Golfo. Appartenevano al territorio ericino anche i feudi baronali di Scopello, Inici, Balata di Baida e Fraginesi che in seguito l'amministrazione borbonica aggregherà al territorio di Castellammare del golfo.

Come scrive il prof. Costanza, l’ insediamento dei coloni ericini a valle segna l’inizio della disaffezione degli emigrati riguardo ai miti della devozione municipale e determina la rivendicazione di una propria identità. Nello stesso tempo si attua il processo di una graduale compenetrazione fra la vicina Trapani e la campagna subericina, la quale manifesterà in seguito nelle sue classi rurali un atteggiamento di crescente contrapposizione etico sociale nei confronti del capoluogo amministrativo sulla vetta.

La nuova borghesia agraria, formatasi sull’acquisto delle terre demaniali e sulla rovina dei patrimoni baronali e della nobiltà minore, non può sottrarsi, per la sua stessa natura di classe aperta, agl’influssi del mercato fondiario e ai contatti esterni. È dunque nel generarsi del nuovo ordinamento fondiario, e nel dispiegarsi dei nuovi rapporti città/campagna, che si afferma una diversa articolazione delle forze sociali e degl’interessi municipali, mentre s’incrina il «valore» della reciproca estraneità che aveva caratterizzato nel corso dei secoli la vita delle comunità di Monte S. Giuliano e di Trapani.

Allo stesso modo, a Trapani, si manifesta sempre più (e ancor prima del 1860) la tendenza a uscire dalle mura segnate a levante della città dal bastione dell’Impossibile e dal Castello di terra, per raggiungere lungo la via consolare il santuario dell’Annunziata e insediarvi tutt’intorno un nuovo borgo, una colonia industre di attività manifatturiere e mercantili. 

Questa zona urbanizzata, posta alle falde del monte Erice, costituirà il punto di raccordo tra città e campagna, assumendo, dopo l’Unità, una funzione economica ben precisa coi suoi opifici e col suo moderno ceto d’imprenditori, mediatori e operai. 

Trapani, quindi, avrà una modificazione strutturale dell'economia, affiancando alla sua tradizionale vocazione marinara una proiezione rurale verso il suo entroterra agricolo, determinato da spinte di rinnovamento e crisi congiunturali e, infine, dal tracollo dell’impianto industriale e la perdita dei mercati marittimi.

Ai giorni nostri la situazione è sotto gli occhi di tutti: Trapani ed Erice sono due realtà che s’intersecano tra loro. Un unico territorio che, seguendo gli sviluppi storici, vide il Comune di Erice accogliere l'espansione urbanistica della città di Trapani. Poche città al mondo si trovano nelle stesse condizioni di Trapani ed Erice, dove ad un certo punto una linea immaginaria segna il passaggio da una "città" all'altra, con un marciapiedi che appartiene ad una e quello opposto all'altra città. Trapani nel secolo scorso, vista la conformazione del suo territorio, si è dovuta necessariamente estendere proprio verso le pendici del monte Erice. Così si cominciarono a costruire, il nuovo ospedale, lo stadio, la cittadella della salute (ex ospedale psichiatrico), il quartiere San Giuliano e via via tutti gli edifici residenziali. 

In tal modo, Erice che, come scrive Fabrizio Fonte nel suo saggio "La Grande Erice", dopo l'emancipazione delle frazioni dell'agro ericino negli anni 48-55, era rimasta con una popolazione di poche migliaia di abitanti, oggi paradossalmente conta, come agli inizi del ‘900, circa 29.000 abitanti, ma stavolta quasi tutti residenti (circa il 90 %) sul versante trapanese (e di fatto trapanesi), mentre allora, invece, si distribuivano tra la vetta e le borgate dell’agro.

L’esplosione demografica, avvenuta negli anni ’60-’70 del Novecento, della città di Trapani ha prodotto, anche a seguito dello spopolamento del centro storico, uno sviluppo urbano, pressoché obbligato, verso le pendici dell’antico Monte San Giuliano creando la popolosa zona di Casa Santa.

Questo se da un lato ha portato ad una battuta d'arresto della crescita demografica del comune capoluogo, ha determinato per converso la formazione di una nuova comunità, quella ericino-trapanese. Che a ben vedere, in un attenta e completa lettura della storia, altro non è che un ritorno alle antiche origini comuni.

Privilegi e consuetudini di Trapani


Con diploma del 1314 Federico D'Aragona concede a Trapani i privilegi già goduti da Messina e Siracusa e nel 1331 l’uso delle consuetudini di Messina.

Come scrive Annamaria Precopi Lombardo:

L’evento del Vespro e i successivi regni di Pietro, Giacomo e Federico sono fondamentali per la storia di Trapani e dei suoi abitanti. Infatti, come afferma C. Trasselli, la crisi di Messina determina lo spostamento dell’asse economico. Il porto di Trapani, già potenziato da Carlo d’Angiò per la necessità della sua politica mediterranea, assume un ruolo fondamentale nel quadro della politica economica catalano-aragonese e incrementa i propri contatti con l’Africa settentrionale. La popolazione aumenta, anche grazie alle immigrazioni di siciliani e mercanti stranieri, e la terra di Trapani pulsa di nuova vita. La riforma urbanistica di Giacomo, con la creazione del quartiere Palazzo, ha dilatato gli spazi e consentito lo sviluppo delle arti e dei mestieri. 

Questo risveglio della vita economica e sociale e l’importanza strategica del porto, nella guerra del Vespro, vengono consacrati e altresi potenziati dalle concessioni di Federico III del 1314, con il godimento dei privilegi della città di Messina e Siracusa, e del 1331 con l’uso delle consuetudini di Messina.

Il Regesto Poligrafo, custodito presso la Biblioteca Fardelliana, il Rollo dei privilegi e delle consuetudini presso il Museo Pepoli, insieme alle raccolte dei privilegi dei pescatori, sono i testi fondamentali da cui si rileva la benevola attenzione dei sovrani nei riguardi di Messina prima e dei trapanesi poi, per quanto attiene all’economia e alla vita associativa.

La concessione dei privilegi e delle consuetudini dei messinesi pone Trapani nella posizione di erede dei provvedimenti che i sovrani precedenti avevano concesso ai messinesi in una situazione storica diversa; la terra di Trapani si trova, con il provvedimento di Federico III, ad utilizzare strumenti legislativi che la pongono in una posizione di grande vantaggio rispetto ad altre città dell’Isola, primo fra tutti il controverso privilegio del re Ruggero che nel 1129 avrebbe istituito il Consolato del Mare.

Il Consolato del mare era stato concesso ai messinesi, come ha dimostrato C. Trasselli, anteriormente al 1315 e veniva concessa la facoltà di eleggere un proprio console nelle terre in cui si trovano in numero superiore a tre, ai trapanesi viene consentita, anche l’autorità di inviare un proprio rappresentante a Tunisi. I Consoli del mare di Trapani sono gli antenati eletti dei consoli dei secoli successi che saranno gli amministratori eletti delle categorie artigiane.

I mercanti e i marinai trapanesi, dopo il provvedimento di Federico III, ebbero cosi la possibilità di eleggere i propri consoli che li rappresentavano e li difendevano, che curavano i loro interessi in caso di naufragio, insolvenza, vendita di naviglio, riscossione delle paghe. I consoli devono sorvegliare il corretto svolgimento delle attività e dirimere ogni questione civile inerente alla categoria. Essi provvedono alla processione del cero nel giorno dell’Assunta.

Nel trecento sono solo i marinai e i mercanti e le categorie che ad essi si riferiscono, pescatori, sarti, panneri, bottegai che possono, avvalersi di una magistratura elettiva, ma ormai è aperta la strada alle rappresentanze consolari e sarà proprio la religione, con i santi patroni e la processione del cero, che darà individualità alle varie categorie.

Il Parlamento siciliano per ragioni politiche tenta di bloccare il proliferarsi dei consolati e proibisce la nomina dei Consoli. Nel 1457 viene nuovamente riconosciuta alle maestranze la facoltà di eleggere Consoli; nel 1499 Ferdinando il Cattolico ristabilisce e autorizza a Trapani la processione dei ceri; nel 1523 Giovanna e Carlo stabiliscono che si conservi la tradizione della processione del cero; le arti che vi devono partecipare sono i mercanti, i marinai, i pescatori, gli speziali, gli argentieri, i sarti, i muratori, i barbieri, i carpentieri, i pianellari, i bottai, i ferrari, i tavernieri,gli ortolani e i bottegai.

Nel XVI secolo dopo i provvedimenti di ripristino dei consolati i popolani entrarono a far parte insieme ai burgesi e ai nobili dei pubblici Consigli Cittadini, anche se non accedevano al reale governo della città, detenuto saldamente dai giurati di origine nobiliare, tuttavia svolgevano una forma di consulenza e di controllo sulle pubbliche necessità.

Questo il testo del diploma di Federico (1314) con il quale si concede a Trapani l'uso dei privilegi già concessi a Messina e Siracusa, contenuto nel Regesto Poligrafo della Biblioteca Fardelliana di Trapani. : 

Fridericius Dei gratia Rex Sicilie. Regalibus actendit titulis ad augumentum et principalis honoris decus et gloria rutilat cum fidelium suorum merita, quos grata fidelitatis obsequia condignos approbat et ostendit, beneficiis, libertatibus et gratiis liberaliter recompensat. Per presens itaque privilegium notum fieri volumus universis tam presentibus quam futuris quod nos diligentius actendentes labores innumeros, vigilias multas et sollicitudines euriosas, quas Trapanenses fideles nostri, dum hostes nostri terram nostrana Trapani tenerent obsessam, in custodiendo, defendendo et conservando cum fidelitate nostri domimi, promptis voluntatibus subiecerunt, fidei nostre observantiam quibuslibet dannis et duris accidentibus preponentes , ut fidei virtus et devotionis zelus, que in eisdem viguisse noscuntur, non essent a premio sequestrate. Universis burgensibus habitatoribus in dieta terra Trapani et eorum heredibus in perpetuum de liberalitate mera, et speciali gratia et ex certa nostra scientia concessimus et concedimus, quod ipsi Ubertatibus, immunitatibus et gratiis, quibus Messanenses cives Messane et Syracusani cives Syracusie utuntur et gaudent, uti valeant et gaudere , ac perpetuo gaudeant et utantur, fìdelitate nostra necnon Constitucionibus serenissimi domini lacobi Aragonum et olim Sicilie regis illustris et reverendi et chiarissimi fratris nostri, dum regno Sicilie prefuit editis, atque nostre Curie et cuiuslibet alterius juribus semper salvis. Universis officialibus curie nostre et personis aliis fidelibus nostris presentis privilegii tenore mandantes, ut nullus cuiuscumque gradus seu conditionis existat, Trapanenses predictos vel aliquos seu aliquem eorum super predictìs immunitatibus, libertatibus et gratiis contra huiusmodi privilegii formam inquietare vel molestare presumat. In cuius rei testimonium, certitudinem et cautelam presens privilegium sibi exinde fieri et sigillo nostro pendenti jussimus communiri. Datum in urbe felici Panormi per nobilem Fridericum de Incisa militem regni Sicilie cancellarium, anno Dominice Incamationia M°CCC°XIIUJ° mense februarii, XXJ° eiusdem, XIIJ° Indictionis.

Alcuni privilegi e capitoli di Consuetudini di Trapani furono estesi pure ai cittadini di Monte San Giuliano.

Vito La Mantia (Cerda, 6 novembre 1822 – Palermo, 16 giugno 1904) , giurista e storico italiano, nel suo scritto del 1897 "Consuetudini di Trapani nelle quali è contenuto il testo antico delle consuetudini di Messina" scrive:

Il Regesto Poligrafo, è una delle migliori raccolte di leggi patrie e documenti di vario genere, che in quell'età si fossero formate nei Bolli e Regesti delle principali città di Sicilia. E notevole che per buona ventura nel Regesto Poligrafo si sono conservate le copie più antiche del testo delle Consuetudini ed Osservanze, e di molti importanti privilegi e documenti inediti , mentre nella città di Messina si perdettero gli originali e le copie di molti capitoli e documenti, che la città di Trapani ebbe cura in quei tempi di raccogliere in copie esatte e conservarle nei Rolli e Regesti, importanti per la storia e la giurisprudenza.

Tra i tanti privilegi della città Trapani l'autore menziona: 
Il capitolo del re Martino del 1392 sul diritto dei Trapanesi di esercitare la promitisi (prelazione) nel territorio di Monte S.Giuliano:
De jure recuperationis super territorio Montis
Il capitolo del 1400 su la eguaglianza reciproca di diritti dei cittadini di Trapani e Cagliari.
Il privilegio di Federico (1331), che annuisce alla petizione di Trapani si per la conferma dei privilegi già concessi (1314), e si per l'uso delle Consuetudini di Messina.
Il re Ludovico (1342) faceva la conferma generale d' immunità , privilegi e onsuetudini concesse anco dai re Federico e Pietro 
A fol. 325 è un privilegio di re Pietro per diritti concessi agli esteri 
che con famiglia venivano ad abitare in Trapani e vi dimoravano oltre V anno. 
Simile concessione speciale era fatta a quei del Monte S. Giuliano dopo la dimora di un anno in Trapani. 

Altro importante documento è il Libro Rosso dei privilegi e delle consuetudini presso il Museo Pepoli (1601). É un volume in foglio rilegato in pelle rossa con lo stemma borbonico impresso ai lati. Nel dorso ha titolo: Rollus Privilegiorum civitatis Drepani.

Nel primo foglio è il titolo: Rollus Consuetudinum, observantiarum, privilegiorum, litterarum regiarum, viceregiarum, ordinationum omniumque stabilementorum Invictissimae Civitatis Drepani .

In tale foglio è la figura della Madonna di Trapani e ai suoi lati sono S. Alberto e S. Ivone, e sotto è scritto «S. Albertus», e «S. Ivus V. I. D.», e sotto la figura della Madonna: « Sub tuum presidium ». Nella parte inferiore sono tre stemmi, due della città, ed uno reale. 

In esso è contenuto anche il privilegio concesso a Trapani da Carlo V nel 1535.

É premessa al testo dei capìtoli questa notizia: 

Nota come nel mese di settembre anno 1535 la Maestà di Carlo Quinto imperatore e re di Spagna venne in questa città di Trapani con una potente armata e grosso esercito per passare nelle parti di Barbarla, et vi stette continui quattro giorni, e nello intrare che fece li Jurati di quel tempo fecero che nella Chiesa di Santo Agostino di questa città, giurasse di osservare non solamente li privilegi che tiene detta città, ma tutto il regno, et di questo ne nasce che nel sigillo di detta città si legge : Ubi Caesar primum iuravit.

Segue il testo...
Capitula immunitates et gratiae civitatis Drepani sibi concessa per Maiestatem Caesaream Caroli Quinti imperatoris in hoc regno et in civitate praedicta advenientis. 

Capitoli, Privilegi, gratii et immunitati, li quali humiliter et gratiose 
a vostra Maestà Cesarea ce adimanda la fidele vestra città di Trapani. 

In primis che vestra Cesarea Maestà se degni confirmare, aceptare et de novo concedere tutte quelle gratie, privilegi, immunitati, capituli, instituti, Consuetudini et observantie concessi, ordinate et confirmate per li recolende memorie delli retro Principi di vostra Catholica Cesarea Maestà, sicut continentur in Rollo Universitatis, si como promisi et jurao vestra Catholica Cesarea Maestà confirmare con tutta l'autorità che teni, in la felici et prospera venuta di vestra Catholica Cesarea Maestà in detta città in la ecclesia di Santo Agostino, non obstante fossero in alcuna parte interrotte — Plaze a Su Magestad comò stan en possession. 

Per il testo completo continua: 

Questo privilegio è dato da Palermo a 6 ottobre 1535. L' Imperatore avea giurato in Trapani nella Chiesa di S. Agostino di confermare i privilegi e Consuetudini della città, e si trova in quella chiesa nel lato sinistro entrando dalla porta maggiore questa iscrizione, che è giusto riferire. 

a Deo Optimo Maximo 

« Divoque Augustine sacra illustrissimi Senatus Drepanitani pervetusta Domus, ubi Concilia Malora Cogit. Disputationis examine medicos approbat, auditque Senatus idem Quadragesimae Conciones, ac ubi Tunete expugnata Siciliam adveniens, maximus Caesarum, Carolus Quintus anathema victoriae Purpuram appendi t, primumque iuravit Verbi Hominis Anno MDXXXV».

Carlo V si riserbò di sottoscrivere il privilegio in Palermo, come appare dal testo sopra inserito.

Il Conte Agostino Sieri Pepoli e la Torretta Pepoli ad Erice


Agostino Pepoli nacque a Trapani 5 agosto 1848 da una nobile famiglia trapanese di lontane origini bolognesi. Conte, barone di Culcasi, fu storico, archeologo, musicista, scultore, architetto, restauratore ed anche compositore, ma soprattutto un appassionato ed inquieto collezionista e mecenate. Si deve a lui, alla sua volontà, alle sue capacità organizzative e al suo mecenatismo, la nascita del Museo “ Conte A. Pepoli” a Trapani.

A tal fine, il conte propose in dono al Comune, della sua città natia, le collezioni in suo possesso, con la condizione di poterle collocare in un museo prestigioso che potesse essere al servizio dei cittadini trapanesi. Ottenne che con Regio Decreto del 1° ottobre 1909 si istituisse, quale Ente Morale, il Museo Civico “Pepoli” in Trapani. Morì il 23 marzo 1910 dopo aver realizzato il tanto desiderato museo con sede nei locali dell’ex convento dei Padri Carmelitani.

Come scrive Valeria Patrizia Li Vigni Tusa, «Agostino Pepoli sin da bambino mostrò uno spirito libero e, pur avendo deciso di intraprendere gli studi di economia politica, non arrivò a laurearsi, e poté quindi dedicarsi con maggior tenacia alla sua passione per i viaggi durante i quali acquistava oggetti di pregio. Nel 1871 chiese al sindaco di Erice, in affidamento, le torri del castello, che si impegnò a restaurare preoccupandosi della costruzione della strada a servizio delle stesse. Acquistò dai privati i terreni sottostanti il Balio, dove fece costruire la Torretta Pepoli, oggi di proprietà comunale e oggetto di restauro da parte della Soprintendenza di Trapani.

Nella sua Torretta Pepoli si rifugiava in estate, ricevendo i suoi amici letterati ed artisti - tra cui il letterato Ugo Antonio Amico, l'artista Alberto Favara, l'archeologo Antonio Salinas , il ministro Nunzio Nasi - e lavorando al progetto del suo museo, che rappresentò l’obiettivo primario della sua vita, e per il quale raccoglieva le testimonianze più significative del territorio trapanese, regionale, nazionale ed europeo. Era un uomo di gran cuore, sempre pronto ad alleviare i problemi del prossimo. Ricercò con passione le origini della sua famiglia e amava riprodurre il blasone del suo casato sia nelle pareti della Torretta che nel chiostro e nelle sale del museo. Amava profondamente la musica, tanto da aiutare il giovane musicista Antonio Scontrino, e da scrivere e musicare l’opera lirica Mercedes».

La torretta, articolata su 4 livelli, è realizzata in stile liberty. Al suo interno verrà allestito un museo multimediale, dove sarà possibile rivivere attraverso la voce del Conte Pepoli la storia, il mito, la cultura e la tradizione dei personaggi che hanno lasciato un impronta significativa nella città di Erice.

Invictissimae atque Fidelissimae urbis Drepani


Stemma della città di Trapani del 1818

Non essendo mai stata espugnata, nel 1478, Ferdinando il Cattolico concesse alla città il titolo di INVITTISSIMA per via « delle gloriose resistenze fatte sempre ai nemici del regno», e da allora non vi fu nessun atto ufficiale del Senato cittadino, lapide o atto notarile che non riportasse questo regio apprezzamento. Le lettere D.U.I.( Drepanum Urbs Invictissima), insieme alla falce e alle cinque torri sormontate da una corona, formerà anche il marchio degli argentieri trapanesi dal 1612 ai primi decenni del XIX secolo.

Il Titolo fu riconfermato dall'imperatore Carlo V, uno dei più grandi sovrani della storia moderna. Il suo impero era così vasto che si racconta si dicesse che su di esso non tramontasse mai il sole. Benigno da Santa Caterina così testualmente riferisce : 

Carlo V Imperadore nell’anno 1535, essendo sbarcato in Trapani, si conferì nel Tempio di S. Agostino, ed ivi giurò prima di tutte le città del Regno, di osservare i Privileggi di anzidetta Città, accordatigli da’ suoi Predecessori Sovrani. Quindi il Senato nel suo Sigillo intorno alle Armi di Trapani aggiunse le seguenti parole: Drepanum Civitas Invictissima, in qua Caesar primum iuravit”. 

Il 20 agosto 1535 l’imperatore Carlo V d’Asburgo, dopo aver espugnato Tunisi, che era stata conquistata dagli ottomani, sbarcò a Trapani, con i 20.000 schiavi cristiani liberati in Tunisia e qui si trattenne fino al 25 agosto risolvendo problemi cruciali per le finanze locali , con provvedimenti che andavano dal risarcimento dei danni subiti durante l’impresa alla riconferma della concessione delle franchigie relative ai diritti di dogana per mare e terra. 

Nella Chiesa di Sant’ Agostino, che ricordiamo essere stata dei cavalieri templari sin dal 1140, e che nel frattempo era diventata sempre piú importante, grazie anche alla vicinanza del palazzo del Senato cittadino, in pratica era diventata il Duomo nella cittá, l'Imperatore appese il suo drappo rosso, come ex-voto, e giuró: “Drepanum civitas invictissima in qua Caesar primum juravit” di confermare i privilegi giá concessi a Trapani da Alfonso il Magnanimo e Ferdinando il Cattolico "sicut et quemadmodum nunc gaudet civitas Messinae".  In questa occasione egli definí la cittá Chiave del Regno, e sul suo regno, ricordiamolo, non tramonava mai il sole.

Successivamente, nel 1640, venne invece attribuito da Filippo IV il titolo di Fedelissima.

30 nov 2016

ERICE: LA STORIA E I LUOGHI



Nel 1154, il geografo arabo Al-Idrisi nel suo trattato di geografia, il cosiddetto Libro di Ruggero, così descrive Erice, chiamata in arabo Gabal Hamid: « ... è montagna enorme, di superba cima ed alto pinnacolo, difendevole per l'erta salita; ma stendesi al sommo un terreno piano da seminare. Abbonda d'acque. Avvi una fortezza che non si custodisce né alcun vi bada».

Scrive Ferdinando Maurici, in ERICE: PROBLEMI STORICI E TOPOGRAFICO-ARCHEOLOGICI FRA L'ETA' BIZANTINA ED IL VESPRO: Le considerazioni sulle caratteristiche morfologiche del monte e sulla presenza di sorgenti sono estremamente precise. Non è invece del tutto chiaro se ldrisi descrivesse come «fortezza che non si custodisce» l'area dell'abitato antico con le sue mura o solo la più circoscritta zona del tempio di Afrodite, dove di lì a poco si impianterà il castello normanno. Comunque sia, l'abbandono del sito sembrerebbe in quel momento totale ed ipoteticamente perdurante da lungo tempo. 

Una trentina di anni dopo la situazione appare completamente diversa.
Jbn Jubayr, che fu in Sicilia fra 1184 e 1185, così descrive Monte Erice: «gran monte, altissimo, vasto, sormontato da una rupe che spiccasi dal resto. Su la rupe è un fortilizio dei Rum, al quale si passa dalla montagna per un ponte: contiguo poi al fortalizio dalla parte della montagna giace un grosso paese [abitato anche] dai Rum. Si dice che qui le donne sian le più belle dell'isola tutta: che Dio le renda cattive dei Musulmani. In questo monte son delle vigne e dei seminati: ci fu detto poi che vi scaturiscono da quattrocento sorgenti d 'acqua. Chiamasi Gabal Hamid . La salita è agevole da un lato soltanto: e però pensano [i Cristiani] che da questo monte dipenda, se Dio voglia, il conquisto dell'isola: e non c'è modo che vi lascian salire un Musulmano. Per lo stesso motivo hanno munito benissimo questo formidabile fortalizio. Al primo romor di pericoli, vi metterebbero in salvo le donne: taglierebbero il ponte, ed un gran fosso il separerebbe da chi si trovasse nella contigua sommità del monte».

La descrizione è interessantissima e fornisce molti dati. In primo luogo, rispetto al testo di Idrisi, vi è la grande novità dell'esistenza di un centro abitato. Evidentemente questo dovette sorgere fra gli ultimi anni del regno di Ruggero II e l'età di Guglielmo il Buono. Ibn Jubayr mette in evidenza la grande rilevanza strategica e militare del monte, anche se certamente era esagerato ritenere che dal controllo di Erice dipendesse la conquista di tutta l' isola. Comunque, l'importanza di questa posizione è ribadita chiaramente dal divieto di residenza o anche di semplice accesso ai musulmani.
La rifondazione normanna di Erice sembra quindi potersi inquadrare anche in un programma di fortificazione e difesa (da nemici interni ed ester i) varato dalla corona. 
[...]

Secondo Ibn Jubayr le zone coltivabili del monte Erice erano occupate da vigneti e seminati: il paesaggio agricolo del monte sembrerebbe quindi essere stato simile alla fine del XII secolo a quello descritto più di cento anni dopo dai documenti del notaio Maiorana.
Molto interessanti sono in particolare le notizie che lbn Jubayr fornisce sul castello di Erice: esse sono tanto più preziose quanto più i lavori di riadattamento e di restauro hanno mutato nel corso dei secoli l'aspetto del monumento e la stessa conformazione dell'area su cui esso sorge. Afferma quindi Ibn Jubayr che il "fortalizio dei Rum" occupava una rupe isolata dal pianoro sommitale del monte. Il cosiddetto castello di Venere sorge in effetti su rupi elevatissime che lo isolano totalmente su tre lati. Attualmente l 'accesso è possibile dal lato della città, ma fino al XVII secolo anche su questo versante il fortilizio rimaneva isolato dal resto della montagna da un profonda fenditura, colmata per iniziativa del castellano A. Palma. L'attuale cordonata a gradini sostituì allora il ponticelio in muratura documentato da una rara immagine ed erede a sua volta del ponte levatoio, o comunque della passerella volante, attestata da Ibn Jubayr.
Anche il castello, quindi, trent'anni dopo l' attestazione di Idrisi che lo voleva deserto e privo di presidio (il che non esclude che all'occorrenza potesse costituire un possibile rifugio per i cristiani di Trapani), appare svolgere pienamente le sue funzioni.
[....]

In via di ipotesi è verosimile ritenere, sulla base delle due testimonianze di Idrisi ed Ibn Jubayr, che sull'area del santuario venissero realizzati, fra 1150 circa e 1185, interventi tali da riadattare a fini difensivi le rovine esistenti, sovrapponendovi anche nuovi corpi di fabbrica. Ritengo probabile, inoltre, che venisse realizzata in età normanna anche la cinta esterna del castello, che oggi, isolata da interventi di restauro ottocenteschi dal nucleo del fortilizio, sembra costituire un insieme edilizio a sé stante, tradizionalmente quanto impropriamente definito 'torri del Balio'.
In realtà, la cortina turrita detta 'torri del Balio', fino al secolo scorso manteneva inalterato l'organico collegamento originario con il nucleo del castello, con l'area cioè dell'antico santuario. Due rare immagini tratte dal manoscritto inedito dell 'erudito ericino Carvini (tav. LII, l) mostrano senza alcun dubbio come le ' torri del Balio' fossero in realtà la prima cinta del castello, delimitando un vasto cortile antistante il nucleo fortificato.

A questo proposito occorre notare che la spiegazione corrente del toponimo 'torri del Balio' come ricordo dell'antica residenza del Baiulus o Baiulo, non è per nulla convincente.
Vista la originaria situazione topografica, ben evidente dalle immagini nel manoscritto del Carvini, mi pare molto più probabile che il toponimo ' Balio' derivi dal ballium o bailey, dalla basse court, cioè, del castello normanno. La parola, e quindi lo schema castrale a baglio, è documentata in Sicilia nel1194 per il castello di Vicari, dove risulta chiaro che il ballium è un cortile chiuso, in parte composto anche da case, che precede e difende il nucleo principale del castello.
La spiegazione è tanto semplice da doversi dare per scontata.

Tanto più che, non essendo il castello di Erice residenza di una famiglia feudale e di un piccolo numero di accoliti, ma dovendo in origine servire ad ospitare tutta la popolazione in caso di necessità, era obbligatorio prevedere ampi spazi per dar ricetto ad alcune centinaia di persone e probabilmente anche a numerosi capi di bestiame. A ciò potevano egregiamente servire tanto il baglio esterno che il cortile interno, erede del temenos del tempio di Afrodite.
L'originale organicità del complesso era, ripeto, evidente fino al secolo scorso. A partire dal 1872 il conte A. Pepoli realizzò a sue spese una serie di lavori di ' restauro ' che modificarono sensibilmente la situazione originaria. 

L'intervento più rilevante riguardò la cortina muraria che raccordava sul versante SO le ' torri del Balio' al nucleo del castello. Il tratto di muro venne smontato e ricostruito arretrandolo quanto bastava a lasciare all'esterno del cortile la rampa d'accesso al 'castello di Venere'. Contemporaneamente si provvide a spianare l'area antistante le 'torri del Balio', destinata a divenire giardino pubblico. 
Vennero inoltre consolidate e risarcite le muraglie, per decenni utilizzate come cava di pietre, e le torri: fu anche realizzata la sopraelevazione pentagonale della torre mediana del 'Bali o' di cui esisteva solo un tronco ne. Sull'ala di levante, infine, vennero costruiti di bel nuovo, in stile medievaleggiante, alcuni ambienti destinati ad alloggio di custodi ed ospiti. Anche l' interno dell'antico baglio venne in parte regolarizzato e trasformato in pineta. Lavori oggi piuttosto discutibili, dunque, quelli realizzati dal singolare mecenate. Essi ebbero comunque il merito di frenare un degrado oramai secolare e che è ripreso negli ultimi decenni, facendo scomparire il tratto di muro ricostruito ad est fra le 'torri del Balio' ed il 'castello d i Venere'.

IL PORTO DI TRAPANI: DALL'APICE AL TRAMONTO


Il porto di Trapani ha costituito, da sempre, l’epicentro dell’attività economica della città e del territorio. Come scrive lo storico prof. Salvatore Costanza, tra la fine del ‘800 e i primi del ‘900, lo scalo trapanese aveva guadagnato il sesto posto tra i porti d’Italia. 

«Nel periodo della centralità mediterranea di Trapani (almeno fino alla prima guerra mondiale) i flussi commerciali, periodici e intensi, s’indirizzavano entro i circuiti marittimi tra la Sicilia e la costa maghrebina e, dopo l’apertura del Canale di Suez (1869), si dirigevano anche sulle vie dell’Africa orientale e delle Indie. Il commercio del sale ampliava poi la direzione dei traffici fino ai paesi scandinavi e all’America del Nord, affidando ad una marineria assai qualificata le sorti della navigazione atlantica».

Continua lo studioso, poco dopo, parlando dell'economia del mare:

«Le merci che uscivano sulle navi del traffico internazionale e di cabotaggio erano per lo più il sale, il tonno e il tufo. Queste merci segnavano i 4/5 del movimento commerciale marittimo, con variazioni, in ascesa o in diminuzione, a seconda dei periodi storici più o meno favorevoli. [...]

La maggior parte della produzione derivante dalle mattanze dei tonni, così come quella del sale, passava attraverso il porto di Trapani, alimentando un movimento commerciale che, nel periodo considerato (fine ’800-primo decennio del ’900), aveva collocato lo scalo trapanese al sesto posto tra i porti d’Italia. Una schiera numerosa di marittimi (9000 circa erano gli iscritti nel compartimento di Trapani, oltre ai 1600 pescatori) assicurava il tragitto sulle navi da cabotaggio, o su navigli da traffico internazionale.

Nel 1907 il senatore Giuseppe D’Alì costituì la società di navigazione transoceanica La Sicania (per collegamenti anche con gli Stati Uniti), in un momento in cui la marineria trapanese, forte del prestigio ottenuto in passato con la navigazione a vela, raggiungeva ormai gli approdi dei cinque Continenti.

L’incremento dei traffici marinari, che doveva però esaurirsi all’indomani del primo conflitto mondiale, aveva fatto pensare, nel 1865, alla possibilità di collocare nel porto di Trapani un bacino di carenaggio, a servizio delle numerose navi che transitavano nel Canale di Sicilia. 
Del resto, era vanto della marineria trapanese l’attività dell’antico Arsenale, nel quale si erano formate le maestranze dei calafati e carpentieri che avevano costruito i navigli di piccola velatura e i famosi liutelli, alla cui fabbricazione aveva dedicato, nel ’500, le sue eccezionali doti inventive e di mastro artigiano (era anche un mirabile cesellatore di coralli) quell’Antonio Ciminello ricordato con ammirazione dallo storico Pugnatore.

Alla fine dell’800, un centinaio di operai erano occupati nei sei arsenali che costruivano, in Trapani, barche da pesca (2/5 tonnellate) e da piccolo cabotaggio (14/55 tonnellate), adoperando rovere e pino. Non era però raro il caso che in questi cantieri, di proprietà di piccoli costruttori (Luca e Alberto Bascone, Francesco Paolo De Vincenzi, Giuseppe Greco, Gaspare Frusteri e Pietro Cavasino) si costruissero navigli di maggiore tonnellaggio.

L’iniziativa della costruzione di un bacino di carenaggio nel porto di Trapani era partita dal Comune e dalla Provincia, ed era stata sostenuta dalla Carnera di Commercio ed Arti, tutti enti consapevoli che i problemi dello sviluppo economico della città e del suo territorio dovevano affrontarsi, nel nuovo contesto politico unitario, con una precisa individuazione della funzione mediterranea che la Sicilia estremo occidentale era chiamata ad assolvere.

“Questa parte del Mediterraneo - scriveva infatti Giuseppe Mondini – è destinata storicamente a ridivenire il teatro delle rivalità commerciali e politiche delle nazioni marittime; ed e impossibile che l’Italia si faccia da parte, anche per poco, a costo del suo decoro, del suo interesse, della sua esistenza. Se in questo travolgersi di eventi, più o meno prossimi, ma inevitabili, noi non sapremo preparare tutte le nostre risorse, subiremo le conseguenze della nostra irnprevidenza [....]
Il bacino di carenaggio in Trapani, dove tutte le condizioni di opportunità, di spesa, di risparmio sono favorevoli, non potrà che ritornare a beneficio degl’interessi nazionali”.

Sostenne allora questa proposta, nella discussione che si tenne al Senato, l’ingegnere Pietro Paleocapa, che era anche tra i progettisti della via d’acqua che passava per Suez. Pur avendo ritenuto l’ufficio tecnico della Marina italiana che il porto di Trapani presentava condizioni quanto mai favorevoli per la costruzione all’asciutto del bacino di carenaggio, tuttavia alla proposta sostenuta dal Paleocapa non corrispose il parere favorevole del Senato, che preferì approvare un disegno di legge presentato dal generale Luigi Menabrea per la costruzione di un bacino di
carenaggio nel porto di Palermo.

Nel 1879 l’iniziativa venne ripresa dalla Camera di Commercio di Trapani, che prevedeva il concorso dei soli enti locali nella spesa dell’impianto; ma il tentativo era destinato a fallire di fronte alle difficoltà finanziarie che gli si opponevano, e in pendenza della pratica più urgente relativa alla continuazione della scogliera di Ronciglio ».

A proposito delle dinamiche politico-economiche degli ultimi secoli, il prof. Costanza fa le seguenti considerazioni:

«La Liegi del Sud - come aveva chiamato Trapani uno scrittore che
l’aveva visitata alla fine dell’800 - viveva allora la sua stagione più felice; ma fu stagione presto interrotta dalle angustie della crisi, con cui lo spirito imprenditoriale dei Trapanesi dovette fare i conti a causa delle scelte della politica economica nazionale.
Nel corso della lunga recessione e delle crisi post-belliche non sono soltanto mutate le condizioni, diciamo geopolitiche, che avevano determinato le fortune marinare di Trapani, ma e pure cambiata la fisionomia della classe dirigente locale.
Gli ultimi cinquant’anni, durante i quali abbiamo assistito al tracollo del dominio dei proprietari latifondisti (sostituitisi, tra le due guerre, all’attivismo del ceto imprenditoriale), non potevano ridarci la dimensione economica e sociale della borghesia di una volta. Quella più danarosa e ambiziosa si era sostanzialmente alienata in un aristocraticismo d’accatto, sordido e compiaciuto; e il ceto artigiano e della piccola impresa si era ormai disperso o debilitato nel suo assetto produttivo.
Trapani ha pure perduto la sua leadership politica, insieme con la forza economica che le aveva consentito di pilotare finanziariamente non solo le attività del capoluogo, ma anche quelle del suo entroterra agricolo; il quale si è a poco a poco dissociato dal centro amministrativo della provincia, formando interessi propri. Chiamare “trapanese” questo entroterra, che si spinge dalle coste tirreniche alle colline di Alcamo, dalle sciare del Marsalese alla valle del Belìce, è oggi un luogo comune, un semplice riferimento burocratico.
Il terremoto del 1968 ha contribuito a distaccare ancora di più i paesi belicini da Trapani. Un tempo la borghesia latifondistica di quelle zone aveva frequenti rapporti con Palermo, perché vi teneva i propri conti in banca, gli sbocchi del commercio frumentario, gli aviti palazzi. Ed era sempre più facile comunicare con Palermo piuttosto che con Trapani. (Le strade da Gibellina o da Alcamo portavano nell’ex capitale dell’Isola.) Eppure attraverso la posizione dominante del capoluogo in sede politica era possibile mantenere un certo collegamento tra città e campagna. Oggi i legami con Trapani sono quasi del tutto spezzati, perché gli affari, o le pratiche della ricostruzione, si discutono quasi tutti negli uffici della Regione; e la stessa Mazara, con l’autostrada che la collega direttamente a Palermo, ha fondato il suo impianto produttivo legato alle attività della pesca su una “ipotesi” di sviluppo che taglia fuori Trapani e il suo hinterland».

Noi ci auguriamo che come ad ogni tramonto segue la notte per poi vedere rinascere il sole, anche il porto di Trapani possa tornare agli antichi splendori !

Libro completo :
Fra mare e terra metafore del lavoro e microeconomie di ieri e di oggi a trapani e nella sua provincia, di Salvatore Costanza

LA "TRAPANI PROFANA" DEL 1810



Padre Benigno da Santa Caterina, nel suo manoscritto "Trapani Profana" del 1810, ci racconta delle fortificazioni di Trapani.

La città, già fortificata dai tempi della prima guerra punica, fu dichiarata Piazza D'arme nel 1707.
Al suo governo veniva eletto dal Sovrano un Governatore Militare che, come riferisce lo stesso autore, assumeva l'incarico del Governo Militare non solo della Città di Trapani, ma anche di quello del Monte di S.Giuliano, delle Isole adiacenti di Favignana, Levanzo, e Marettimo. E sovraintendeva alla difesa del tratto di costa che da San Vito lo Capo giungeva fino a Licata.

Lo storico, dopo aver raccontato delle evoluzioni avvenute nel tempo sulle fortificazioni, rese necessarie per adeguarle all'introduzione delle nuove armi, quali cannoni e bombarde, dopo l'invenzione dell'uso della polvere da sparo nell'Arte della guerra, descrive dettagliatamente delle varie Fortezze, Castelli , Bastioni e relative dotazioni di uomini e armi.

Inoltre ci rende noto che dalla parte della costa settentrionale era difesa dai valorosi ericini: 

«Serve alla Piazza di Trapani una Compagnia a cavallo di Milizia urbana della città del Monte di S. Giuliano. Questa col suo Alfiere Comandante si deve ogni anno immancabilmente presentare dinnanzi al Governatore della Città di Trapani, il giorno quattordici Agosto, ed alla sua presenza deve eseguirsi la rivista dell'armi. Quindi l' Alfiere colla sua Cavalleria viene destinato a custodire la Compagnia e la Spiaggia di S. Giuliano. Tutto ciò all'oggetto d'impedire le Scorrerie, che possano accadere per causa della quantità dei Forestieri e de Vagabondi che accorono da vari Paesi. Dura questa incombenza per lo spazio di tre giorni, ne quali dalla Città la Festa si celebra di nostra Signora la Vergine SS.ma Maria di Trapani».

Così inizia l'agostiniano scalzo:

Quanto più una Città si trova fortificata e ben munita, altrettarito si rende difficile al Nemico di espugnarla. Un Sito tutto arenoso che appena bucato abbonda d'acqua. Un Terreno tutto pieno di sotterranei Scogli che non permette al nemico di esercitare le sue strategie di guerra colle mine e contramine. Un Castello ben forte e guardato da numeroso Presidio, le Torri, le Mura e le Bastie. Il Rivellini, le Trincee, le Palizzate, le Piazze d'armi. I Ponti Levatoi, le Fosse e Contrafosse, il Mare che la circonda e cinge. I Cannoni , le Bombe, le Granate, la Fucileria. Le Barche Cannoniere e quantità di Soldatesca che la difendono, non sono tutti altrettanti impedimenti al Nemico di potersi accostare a batterla da vicino o pure di conquistarla per assalto?

Tale è la Città di Trapani nello stato presente. Ella sin dall'anno I707 fu dichiarata Piazza d'arme, ma assai prima fu fortificata per Ordine di Carlo V Imperatore nell'anno 1502. Così ce l'attestano Fazzello, Salmon, Leanti. 
Quindi è che il Senatore nel suo giornale Storico alla pag. 361 par. 2, disse: «Trapani famosa Città, e fortissima Piazza d'arme».
Il canonico di Giovanni nell' Ebraismo della Sicilia parlando di Trapani dice: «I Molti Legni da navigare, e la sua irrespugnabile fortezza la rendono anche alle nazioni straniere, cognita insieme, e rinomata. E perciò giustamente gli venne accordato da" Sovrani il Titolo d'Invittissima, appunto, perché mai è stata a forza d'arme espugnata». 

Nel 1862 il governo italiano, con Regio Decreto, privò la città della qualifica di Piazza d’Armi, che la obbligava a mantenere le fortificazioni. 
Così dopo l’unità d'Italia vennero abbattuti bastioni e mura per favorire l’espansione edilizia di Trapani verso levante. 
A tal fine il Comune si dotò di un piano di urbanizzazione redatto, tra il 1865 e il 1869, prima dall’ingegnere Giuseppe Adragna Vairo, poi dal nuovo capo dell’Ufficio tecnico Giovan Battista Talotti.

Così il periodo postunitario a Trapani, oltre che dall'espansione ad est della città, è caratterizzato da pesanti interventi demolitori in vista di un malinteso risanamento. Cosi furono atterrati, oltre agli aboliti fortilizi, il bastione di San Francesco, l’arco e il campanile di Santa Elisabetta, la porta Eustachia e il monastero di Santa Chiara.

Testo completo del Capitolo IV " Della Fortezza di Trapani" :

SULLE TRACCE DEI TEMPLARI A TRAPANI ED ERICE


Alcuni anni dopo la loro fondazione, i Templari approdarono anche nel Regno di Sicilia. 

Questa scelta fu dettata dalla posizione geografica, dal momento che esso è stato da sempre crocevia tra Occidente ed Oriente e i suoi porti rappresentavano dei capisaldi per il traffico marittimo, militare e mercantile da e per la Terra Santa.

Al momento l’unico dato certo è che la Militia Christi s’insediò in Sicilia prima del 9 gennaio 1144, data in cui papa Celestino II sollecitò i prelati a proteggere e sostenere gli stanziamenti templari presenti sul territorio. L'espansione dell'Ordine avvenne secondo una logica ben precisa incline a privilegiare in primo luogo le località costiere, per poi procedere verso l'entroterra.
[...]



Dal manoscritto del Pirri Sicilia Sacra disquisitionibus et notitiis illustrata, apprendiamo l’esistenza a Trapani della chiesa di San Giovanni Battista del Tempio, accanto ad essa sorgeva l’ospizio templare; dopo la sospensione dei Templari, nel 1312 la chiesa passò agli Ospitalieri e due anni dopo Federico III donò l’edificio agli agostiniani che dedicarono la chiesa a Sant’Agostino.

Particolarmente interessante risulta il rosone della chiesa ricco di simbolismo. Esso è scandito da dodici colonnine che si irradiano dall’anello centrale, dove vi è scolpito un Agnus Dei, simbolo presente anche sui sigilli templari.

Osservandolo meglio, non si può far a meno di notare che vi sono solo quattro trafori con fiori a otto petali; unendo questi fiori con una linea immaginaria otteniamo una croce e, non è un caso che il numero dei petali sia otto, in quanto la croce templare ha otto punte; tra i trafori troviamo anche tre sigilli di Salomone (Stella o Scudo di Davide, Esagramma) simbolo spesso presente sulle loro costruzioni, sotto uno di essi vi è scolpito Hermes, dio greco della conoscenza, chiaramente riconoscibile dall’elmo alato. 
[....]


Esigui, purtroppo, sono i documenti giunti fino ai giorni nostri, pertanto essi devono essere intergrati con i “documenti di pietra” presenti su tutta l’Isola, testimoni muti del passaggio dei cavalieri rossocrociati.

Ne è un esempio la chiesa Matrice di Erice, dedicata alla Vergine Assunta, dove sul muro meridionale troviamo inserite nove croci. Questo esemplare di croce templare, secondo lo studioso Tim Wallace-Murphy, ha un profondo significato gnostico; ma ancor più importante, a nostro avviso, è il sigillo di Salomone sulla torre campanaria, presente, come detto precedentemente, su alcuni edifici appartenuti ai Templari.

(da www.siciliafan.it - Anima Templi in Sicilia di Angela Militi)

22 nov 2016

"LO SCIUPATO DISEGNO" DI TRAPANI



Al Museo Regionale “A. Pepoli”, sino al prossimo 8 gennaio 2017, sarà possibile visitare la mostra: ''Lo sciupato disegno'' L'immagine di Trapani dal Settecento alle vedute di Gustavo Bertolini.
Nell'immagine, un particolare del '' Disegno a inchiostro di china colorato e acquerellato''.
Gustavo Bertolini - 1983 Collezione Gaspare Bertolini 

Rifacimento integrale della Veduta di Trapani eseguita dai Fratelli Tummarello nel 1900.
A differenza dell'originale, l'autore ha circoscritto la rappresentazione alla città murata e fortificata, escludendo l'ampia area ad est delle mura dove erano presenti le distese delle saline, le aree coltivate e quelle adibite a pascolo.

Un'ulteriore variante è costituita dall'adozione del colore a inchiostro acquerellato, tecnica che consente al disegnatore di rendere le ombreggiature e i chiaroscuri e di conferire vivacità e naturalezza alla scena

L’arte del presepe in Sicilia



Nato per rappresentare il racconto evangelico, originariamente intriso di pura spiritualità ed esclusivamente presente nelle chiese, il presepe si trasforma e si evolve con il passare degli anni in una simbolica allegoria di una realtà nella quale si fonde il sacro con il profano, dove l’impianto scenografico trova sempre al centro la grotta o la mangiatoia dove riposa il Bambino e verso cui convergono pastori e Re Magi, oltre ad innumerevoli personaggi con animali e oggetti d’uso quotidiano in un caleidoscopio di motivi, credenze e forme dell’ immaginario popolare.

In Sicilia furono quattro i centri principali di diffusione dell’arte presepiale: Palermo, Siracusa, Caltagirone e Trapani. Sia a Palermo che a Siracusa era fiorente l’apicultura e fin dal Seicento veniva utilizzata la cera per plasmare non solo il Bambinello ma l’intero presepe, erano infatti chiamati “I bambiniddara” gli artisti che tra Sei e Settecento, riuniti in maestranza operavano a Palermo, in botteghe in una strada dietro la Basilica di San Domenico.

Nell’Ottocento sono rinomati i “cerari” siracusani, anch’essi specializzati nell’arte del presepe e del Bambinello. Alcuni esempi di presepi in cera sono tutt’ora presenti presso l’Eremo di San Corrado a Noto e nel museo Bellomo di Siracusa. A Noto, nel palazzo Vescovile è conservato un presepe con 38 figure con lo sfondo del paesaggio dei Monti Iblei. L’abate Gaetano Giulio Zumbo (Siracusa, 1656 - Parigi, 1701) è stato quasi certamente tra i più celebri ceroplasti siciliani.

A Caltagirone intorno all’Ottocentole figure dei pastori vengono realizzate interamente in terracotta. Nella ricca produzione locale si possono individuare un filone colto ed uno popolare. Al primo filone appartengono i maestri ceramisti Giacomo Bongiovanni (1772-1859) Giacomo Azzolina (1854-1926) e soprattutto il celebre padre Benedetto Papale (1837-1913) autore di straordinarie scenografie presepiali. Il secondo filone, destinato alle classi meno abbienti, è caratterizzato dalle figure lavorate e dipinte rozzamente esclusivamente nella faccia anteriore, nonché dai costumi e dalla umiltà dei doni.

A Trapani l’arte di lavorare i coralli raggiunge il suo apice tra Sei e Settecento, periodo nel quale i maestri corallari utilizzano la tecnica della “cucitura” ossia l’uso di piccoli frammenti di corallo che vanno a formare il partito decorativo cuciti sul retro di una lamina e sostenuti da perni. 

La raffinatezza e la maggior nitidezza delle figure è dovuta all’utilizzo del bulino, anziché dello scalpello, tecnica adottata già nel Cinquecento da Antonio Ciminello. I presepi trapanesi si distinguono per l’utilizzo di materiali nobili e quindi non solo il corallo ma anche la madreperla, l’avorio, l’argento, l’alabastro pur senza disdegnare le conchiglie e l’osso. Splendidi esemplari sono custoditi nel Museo Pepoli di Trapani e al museo Antonio Cordici di Erice. Tra i più grandi artefici è da ricordare lo scultore Andrea Tipa (1725 -1766) che, oltre ad eccellere nella scultura monumentale, riusciva in maniera egregia anche nella scultura miniaturizzata di stupende composizioni presepiali per le quali prediligeva l’utilizzo di tutti i materiali nobili in uso a Trapani. 

Per comprendere maggiormente l’uso del corallo è bene soffermarsi sul suo forte significato simbolico, esso infatti già nell’Antico Testamento simboleggia le eccelse virtù dell’uomo, la purezza e la bellezza, per l’antica Grecia è il sangue della Gorgone Medusa, uccisa da Perseo, che scorrendo dalla testa recisa si pietrifica sugli arbusti su cui essa è appoggiata, testimoniando la vittoria della vita sulla morte, per il Cristianesimo il corallo è associato al sangue di Cristo, divenendone simbolo della passione e della resurrezione.

IL GEN. ENRICO FARDELLA: IL TRAPANESE EROE DEI TRE MONDI


Enrico Fardella occupa un posto d' onore fra quei siciliani dimenticati nella loro terra e ricordati altrove: un suo busto in bronzo si trova al Museo civico di New York, donato nel 1952 dalla Associazione italo-americana di Sicilia al popolo d' America, bandiere a lui dedicate sfidano dignitose l' oblio.

Com' è che un siciliano di Trapani, il più giovane di tre fratelli che sono il contrario dello stereotipo gattopardesco dell' aristocratico troppo furbo per credere in qualcosa, sia finito in un museo di New York è una storia che vale la pena raccontare. Enrico Fardella nasce nella nobile famiglia dei Torrearsa nel 1821, fa studi irregolari. Ma quando mai s' è visto un vero eroe romantico che pensa a diventare ingegnere o avvocato prima di lottare per la libertà? Lui legge autori proibiti come Foscolo e Alfieri, si infiamma sugli scritti politici di Mazzini, vuole combattere. Nel 1848 è volontario per la prima volta, il 12 gennaio è a Palermo contro le truppe borboniche. I tre fratelli Torrearsa - a cui nel lontano 1934 ha dedicato uno studio Francesco De Stefano - sono fra i più importanti protagonisti di quella rivoluzione, Enrico fa parte del Comitato di guerra e marina. Decide di marciare sulla sua città ancora titubante, di andare a Trapani. Gli bastano poche ore per organizzare un vittorioso assalto al presidio regio.

Molto più impegnativo è far funzionare un comitato cittadino, reclutare i volontari, tenere a bada quanti vedono nella rivoluzione l' occasione giusta per rapide carriere. Lui è un uomo d' azione, ma non è avventato. Esige correttezza e disciplina, i suoi battaglioni saranno sempre un modello di efficienza. Ed è un idealista, sfortunato quanto basta. Viene catturato nelle acque di Corfù nel luglio di quell' anno, assieme ad altri siciliani sopravvissuti alla sconfitta subita in Calabria, dove su mandato del Parlamento di Palermo si erano recati per aiutare la rivoluzione che si diceva fosse anche lì scoppiata. è subito rinchiuso nel carcere napoletano di Sant' Elmo. Nel dicembre del '49 Ferdinando II gli concede la grazia, a condizione che non viva nel Regno. Arriva a Genova il giorno di Natale, entra a far parte della colonia di circa 1.500 esuli che da ogni parte d' Italia si sono rifugiati in quella città. 

Divide un piccolo appartamento col fratello Vincenzo, frequenta corsi di tattica e artiglieria. Scarta la Toscana che giudica arretrata e reazionaria al pari della Sicilia, si trasferisce a Nizza e poi a Torino. Non ha più fiducia nella rivoluzione, il futuro di quella che chiama la sua "patria" non smette mai di preoccuparlo. Enrico Fardella è un autonomista atipico, non si appella a particolarità e privilegi. Solo, giudicando la Sicilia meno evoluta delle altre regioni, vorrebbe che si andasse cauti. Ma il mondo non si ferma alla Sicilia. La guerra dichiarata da Francia e Inghilterra contro l' espansionismo russo ai danni della Turchia è una guerra contro il dispotismo: anche se non fa parte di alcun esercito, un soldato come Enrico Fardella non può restare a guardare. Con lunghe trattative ottiene il riconoscimento del suo grado di colonnello dal governo inglese, fa debiti per procurarsi il denaro necessario per il viaggio e si imbarca per l' Oriente.

L' 8 giugno del 1855 la polizia borbonica lo segnala a Malta, il 6 luglio lui stesso scrive da Costantinopoli. Gli viene affidato il comando di un reggimento della cavalleria ottomana, in ottobre lo troviamo in Crimea che partecipa alla leggendaria battaglia di Balaclava. Accumula imprese ma non prova mai a ricavarne un qualche vantaggio personale, spesso è alle prese con pressanti problemi economici. La notizia dell' impresa di Garibaldi lo sorprende a Londra, dove ha avviato un' attività commerciale. Ritorna precipitosamente in Italia, si imbarca a Genova coi 60 volontari guidati da un altro siciliano, Carmelo Agnetta, che corrono a dare man forte. Si dirigono a Ustica, dove però non trovano ad attenderli il battello che doveva trasmettere gli ordini del generale. Vanno allora verso Trapani, ma la città è ancora presidiata dalle truppe borboniche. Decidono di sbarcare a Marsala, di rifare il cammino dei Mille verso Palermo. Una volta sbarcati, per la seconda volta nella vita Enrico Fardella marcia su Trapani per liberarla. 

Stavolta la occupa senza incontrare alcuna resistenza, senza combattere: a dissolvere ogni resistenza è bastata la notizia che a Palermo le truppe regie si sono arrese. Lui, invece, i borbonici continua a inseguirli. Lo troviamo sul Volturno, col suo reggimento ordinato e perfettamente armato che tiene una postazione importante come la ferrovia. Respinge numerosi assalti, viene promosso sul campo comandante di brigata. Ma una volta finite le battaglie è ancora più difficile continuare a vincere. è subito deluso dai modi in cui avviene l' annessione, profondamente ferito dalla dissoluzione dell' esercito garibaldino. Torna a Londra da dove s' imbarca per l' America, nell' agosto del 1861 è a New York. La guerra di secessione è scoppiata da un mese, Enrico Fardella è tra i primi volontari di Lincoln. Organizza un corpo di fanteria, in poche settimane il suo "reggimento Fardella" conta 1040 volontari ed è ammesso nei quadri dell' esercito unionista col numero 101, assegnato all' armata del Potomac. Nel marzo del 1862 parte per il fronte. 

Il "reggimento Fardella" fa parte della divisione del discusso generale McClellan, poi destituito da Lincoln. Ed è per protesta contro gli ordini di McClellan, che ha ordinato la ritirata delle forze dell' Unione concentrate ad Harrison' s Landing, che Enrico Fardella si dimette e torna a New York. La guerra sembra perduta e lui trova la città impaurita, si spara per le strade. Non è uomo da restare a guardare. Raccoglie un altro reggimento, l' 85° Volontari di New York, e torna al fronte. Nella primavera del 1864 i 450 "Volontari di New York" sono a Plymouth, a loro è affidata una delle tre zone in cui si divide la linea difensiva. A proteggere Plymouth sono 1.100 uomini, che dal 17 al 20 aprile si ritrovano al centro di un inferno di fuoco che somiglia tanto ad un agguato: reggimenti veterani, cavalleria, batterie campali che in simultanea avanzano da ogni direzione, decisi a distruggere ogni difesa. 

La sproporzione fra i due eserciti è insostenibile, la resistenza è disperata, ma i sudisti hanno perdite 6 volte superiori agli assediati. Enrico Fardella è fra i superstiti internati ad Andersonville, torna libero il 3 agosto in seguito ad uno scambio di prigionieri. Nella primavera del '65 viene promosso generale da Lincoln mentre è di nuovo al fronte, a Portsmouth. La guerra di secessione finisce nel maggio di quello stesso anno, il generale Fardella resta in America sino al maggio 1872. Lavora nel commercio, ha molte difficoltà economiche. Quando torna a Trapani, grazie al prestigio della famiglia e alla sua popolarità viene eletto sindaco. è un amministratore accorto: pensa a portare il bilancio in pareggio, a costruire un nuovo mercato, bonificare i terreni e aumentare il volume dell' acqua potabile. Non aspetta la scadenza del suo mandato, è un moderato e si dimette nel 1876 dopo la caduta della Destra storica. Sino a quando muore nel luglio del 1892, non si trovano più tracce di un suo ruolo pubblico. Ma forse le ultime imprese del generale Fardella sono ancora tutte da scoprire e raccontare.

(Art. Repubblica di AMELIA CRISANTINO)

Per saperne di più:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2006/02/23/fardella-il-siciliano-eroe-dei-tre-mondi.html

I FRATELLI FARDELLA DI TORREARSA


Il Marchese Vincenzo Fardella di Torrearsa: Il primo Presidente del Senato del Regno d’Italia

Vincenzo Fardella , 6° marchese di Torrearsa, era il maggiore dei tre fratelli (Giovan Battista ed Enrico). Nato a Trapani il 16 luglio 1808, rappresentò una figura di primo piano nella Rivoluzione siciliana. Scoppiata l'insurrezione nel 1848, fu chiamato a far parte del governo provvisorio in qualità di presidente del Comitato delle finanze, e nel marzo fu eletto presidente della Camera dei comuni.

Fu lui a dichiarare decaduta la dinastia borbonica e ad offrire, con voto del Parlamento, il trono vacante di Sicilia al Duca di Genova, figlio secondogenito di Carlo Alberto.

Dopo lo sbarco dei Mille a Marsala, egli fu chiamato da Cavour al Consiglio di Luogotenenza della Sicilia.Nel 1861 nominato Prefetto di Firenze, fu il protagonista nel delicato ed impegnativo compito di trasferire la Capitale del Regno da Torino a Firenze, in seguito fu nominato ambasciatore del regno d'Italia presso Svezia, Norvegia e Danimarca.

Dopo la presa di Roma nel 1870, venne eletto primo Presidente del Senato nella sede di Palazzo Madama e mantenne tale carica fino al 1874, anno in cui, quasi settantenne, pose fine alla sua carriera politica. Trascorse gli ultimi anni tra Trapani e Palermo, coltivando con impegno studi storici e socio-economici, che si concretizzarono nella stesura dei “Ricordi sulla Rivoluzione Siciliana degli anni 1848 e 1849”.  Completò l’opera poco prima della morte, così scrivendo: “... poso la penna e sento di farlo con la soddisfazione di non aver in nulla volontariamente mentito o nascosto il vero.” A Lui è stato intitolato il Liceo Scientifico di Trapani.

Il fratello Giovan Battista che ne supportò l'impegno politico , nasce a Trapani il 15 agosto 1818.
Studia presso l'Istituto dei Benedettini di Monreale. Frequenta i corsi di lettere e diritto. Studia francese ed inglese. Il 30 gennaio 1848 con i fratelli Vincenzo ed Enrico partecipa alla rivolta antiborbonica. È nominato "Commissario di guerra". Dopo la restaurazione è in esilio. Sarà a Marsiglia, Genova, Pisa e Bologna.

Nel maggio del 1860 alla notizia dello sbarco dei garibaldini a Marsala, insieme ad alcuni compagni parte per la Sicilia. Vengono bloccati da una nave borbonica e condotti a Gaeta. Rientra a Trapani nel luglio del 1860. Fu eccellente sindaco di Trapani dal 1865 al 1869. Ad esso è dedicata la maggiore arteria cittadina, nella città nuova.

Durante la sua sindacatura venne approvato il piano di ampliamento della città di Trapani, redatto dall'ingegnere Giuseppe Adragna Vairo e messo in esecuzione dal 1869 dall'ingegnere Giovanbattista Talotti, appena nominato direttore dei lavori dell'ufficio tecnico comunale.

Nell'ambito delle trasformazioni previste dal piano, la più importante era costituita dall'espansione di Trapani verso Est, lungo la direttrice dell'antica strada dell'Annunziata, secondo un impianto a scacchiera che - a cinta muraria abbattuta - avrebbe prolungato la moderna città borghese fino ai piedi del monte di Erice.

La sua salma, dopo la morte avvenuta il 23 marzo a Palermo, rientra a Trapani il 10 aprile 1881.
Il monumento che si trova nell'esedra della Villa comunale reca la seguente iscrizione:
Al Cavaliere Giov. Battista Fardella di Torre Arsa memori delle sue patriottiche e civili virtù i concittadini XXVI Marzo MDCCCLXXXV Quarto anniversario della sua morte

TRABANUSH (TRAPANI) E I SUOI DINTORNI SECONDO I GEOGRAFI ARABI


Con queste parole Al- Idris, geografo arabo alla corte di re Ruggero, nel XII secolo, racconta Trapani e la sua economia. “Trapani, città delle primitive e antichissimo soggiorno, giace sul mare che la circonda d’ogni lato, entrandosi se non per un ponte dalla parte di levante. Il porto è sul lato meridionale; porto tranquillo, senza movimento: quivi un gran numero di legni sverna sicuro da tutti i venti, rimanendovi cheto il mare mentre fuori imperversano i flutti. In questo porto si prende una quantità strabocchevole di pesce; vi si tende anco di grandi reti al tonno; si trae similmente dal mar di Trapani del corallo di prima qualità. Dinanzi la porta della città giace una salina”.

Nell'epoca che precedeva la prima Crociata Trapani non era il porto della· Sicilia occidentale in° cui approdava il più grande numero delle navi venienti dalla Tunisia e da altri paesi dell'Africa settentrionale. Come lo dimostrano molti documenti della geniza, 'il grande tesoro di documenti letterarii e commerciali arabo­ebraici scoperti nel Cairo, il porto principale della Sicilia occidentale era nell'undicesimo secolo Mazara del Vallo.

Molte delle lettere commerciali ivi trovate, delle quali la più grande parte risale alla seconda metà dell'undicesimo se­colo e all'inizio del dodicesimo secolo, si riferiscono alla esportazione di merci siciliane da Mazara, per esempio all'esportazione di seta e· di prodotti di seta. Secondo queste lettere le navi tunisine prima di veleggiare verso Alessandria sovente visitavano Mazara. 

Però dopo la conquistai della Sicilia dai Normanni Mazara decadeva, mentre Trapani diventava· uno scalo importante . A quell'epoca risale la prima descrizione di Trapani che ha valore di un documento storico importante. È la descrizione della città che troviamo nella famosa opera geografica di al­Idrlsf.

Questo testo ha anzitutto il merito di essere la prima esposizione degli aspetti geografici-­fisici della città nell'epoca medievale. Trabanush ­ così veniva la città chiamata dai Musulmani ­ è circondata dal mare d'ogni lato, ma presso la Porta d'Oriente v'è un ponte che la collega con la terraferma. Il porto si trova sul lato meridionale della città. Ecco una raffigurazione accurata di Trapani, che allora era separata dalla terraferma da un canale di acqua, che correva fuori del muro orientale (ove oggi è la Via del XXX Gennaio), lungo la attuale Via Palmerio Abate. La Porta Orientale è certamente la stessa porta che veniva chiamata nel basso medioevo Porta Vetus e si trovava dal lato meridionale della attuale Prefettura.

Dopo aver dato rilievo ai vantaggi del porto di Trapani, ove le navi trovano un sicuro rifugio durante le tempeste del mare, Al-­Idrisi parla dell'importanza della pesca nel mare vicino a Trapani. Si pescano grandi quantità di pesce e anzitutto di tonno, che viene catturato con grandi reti. Di più si pesca ivi corallo di eccellente qualità. Infine, presso la porta della città giace una salina. Trapani è anche il centro di una estesa e fertilissima regione agricola. Nella città v'è un grande mercato e i mezzi di sussistenza sono abbondanti. 

Questo testo è un prezioso documento per la storia economica di Trapani, perché veniamo a sapere che fin dall'inìzio dell'epoca normanna (e forse prima) la pesca del tonno e del corallo erano settori importanti della vita economica della città. La relazione di Al-Idrisi viene confermata dal viaggiatore ebreo-­spagnolo Benjamino di Tudela, che visitò la Sicilia vent'anni più tardi. Anche lui parla della pesca del corallo nel mare di Trapani.

Un altro testo che parla di Trapani è la relazione di un viaggiatore musulmano che si fermò nella città quattro mesi, dal dicembre 1184 alla fine del marzo 1185. La sua relazione dunque una testimonianza oculare e poiché l'autore, lo spagnolo Abu tl­I:Iu Mnharnmad b. Abmad Ibn Djubair, era un buon osservatore, la sua descizione di Trapani è un altro documento storico di gran valore. 

Il viaggiatore arabo­spagnolo, che tornato dal pellegrinaggio alla Mecca e da un percorso dell'Irak e della Siria, venne a Trapani per imbarcarsi su una nave genovese alla volta della sua patria, a Valencia. Anche lui dà rilievo alla strana configurazione della città che è circondata dal mare da tutti i lati e collegata soltanto da un lato con la terraferma, ove quest'ultima è molto stretta. Però Ibn Djubair descrive anche le mura di Trapani che sono bianche come una colomba.

Come al­Idrisf espone che la città è al centro di una ricchissima regione agricola e dice che per questa· ragione i prezzi (cioè degli alimentari) sono ivi bassi. Ma il viaggiatore spagnolo fa anche spiccare che il traffico nel porto di Trapani è intenso. Le partenze e gli arrivi di navi che vanno in Tunisia e vengono da questo paese sono pressappoco continue e le navi degli Italiani che veleggiano verso la costa africana sono solite di visitare prima Trapani. In altre parole, Ibn Djubair de­" scrive Trapani quando già era diventata uno scalo importante del traffico nel bacino occidentale del Mediterraneo. La nave sulla quale partì da Trapani per la Spagna era accompagnata da un'altra, anche essa genovese, 'e presso Favignana incontrarono una terza nave genovese.

(di Eliyahu Ashtor)

Per saperne di più: 
http://www.trapaninostra.it/libri/Biblioteca_Fardelliana/La_Fardelliana_1982_n_2-3/La_Fardelliana_1982_n_2-3-04.pdf