30 nov 2016

ERICE: LA STORIA E I LUOGHI



Nel 1154, il geografo arabo Al-Idrisi nel suo trattato di geografia, il cosiddetto Libro di Ruggero, così descrive Erice, chiamata in arabo Gabal Hamid: « ... è montagna enorme, di superba cima ed alto pinnacolo, difendevole per l'erta salita; ma stendesi al sommo un terreno piano da seminare. Abbonda d'acque. Avvi una fortezza che non si custodisce né alcun vi bada».

Scrive Ferdinando Maurici, in ERICE: PROBLEMI STORICI E TOPOGRAFICO-ARCHEOLOGICI FRA L'ETA' BIZANTINA ED IL VESPRO: Le considerazioni sulle caratteristiche morfologiche del monte e sulla presenza di sorgenti sono estremamente precise. Non è invece del tutto chiaro se ldrisi descrivesse come «fortezza che non si custodisce» l'area dell'abitato antico con le sue mura o solo la più circoscritta zona del tempio di Afrodite, dove di lì a poco si impianterà il castello normanno. Comunque sia, l'abbandono del sito sembrerebbe in quel momento totale ed ipoteticamente perdurante da lungo tempo. 

Una trentina di anni dopo la situazione appare completamente diversa.
Jbn Jubayr, che fu in Sicilia fra 1184 e 1185, così descrive Monte Erice: «gran monte, altissimo, vasto, sormontato da una rupe che spiccasi dal resto. Su la rupe è un fortilizio dei Rum, al quale si passa dalla montagna per un ponte: contiguo poi al fortalizio dalla parte della montagna giace un grosso paese [abitato anche] dai Rum. Si dice che qui le donne sian le più belle dell'isola tutta: che Dio le renda cattive dei Musulmani. In questo monte son delle vigne e dei seminati: ci fu detto poi che vi scaturiscono da quattrocento sorgenti d 'acqua. Chiamasi Gabal Hamid . La salita è agevole da un lato soltanto: e però pensano [i Cristiani] che da questo monte dipenda, se Dio voglia, il conquisto dell'isola: e non c'è modo che vi lascian salire un Musulmano. Per lo stesso motivo hanno munito benissimo questo formidabile fortalizio. Al primo romor di pericoli, vi metterebbero in salvo le donne: taglierebbero il ponte, ed un gran fosso il separerebbe da chi si trovasse nella contigua sommità del monte».

La descrizione è interessantissima e fornisce molti dati. In primo luogo, rispetto al testo di Idrisi, vi è la grande novità dell'esistenza di un centro abitato. Evidentemente questo dovette sorgere fra gli ultimi anni del regno di Ruggero II e l'età di Guglielmo il Buono. Ibn Jubayr mette in evidenza la grande rilevanza strategica e militare del monte, anche se certamente era esagerato ritenere che dal controllo di Erice dipendesse la conquista di tutta l' isola. Comunque, l'importanza di questa posizione è ribadita chiaramente dal divieto di residenza o anche di semplice accesso ai musulmani.
La rifondazione normanna di Erice sembra quindi potersi inquadrare anche in un programma di fortificazione e difesa (da nemici interni ed ester i) varato dalla corona. 
[...]

Secondo Ibn Jubayr le zone coltivabili del monte Erice erano occupate da vigneti e seminati: il paesaggio agricolo del monte sembrerebbe quindi essere stato simile alla fine del XII secolo a quello descritto più di cento anni dopo dai documenti del notaio Maiorana.
Molto interessanti sono in particolare le notizie che lbn Jubayr fornisce sul castello di Erice: esse sono tanto più preziose quanto più i lavori di riadattamento e di restauro hanno mutato nel corso dei secoli l'aspetto del monumento e la stessa conformazione dell'area su cui esso sorge. Afferma quindi Ibn Jubayr che il "fortalizio dei Rum" occupava una rupe isolata dal pianoro sommitale del monte. Il cosiddetto castello di Venere sorge in effetti su rupi elevatissime che lo isolano totalmente su tre lati. Attualmente l 'accesso è possibile dal lato della città, ma fino al XVII secolo anche su questo versante il fortilizio rimaneva isolato dal resto della montagna da un profonda fenditura, colmata per iniziativa del castellano A. Palma. L'attuale cordonata a gradini sostituì allora il ponticelio in muratura documentato da una rara immagine ed erede a sua volta del ponte levatoio, o comunque della passerella volante, attestata da Ibn Jubayr.
Anche il castello, quindi, trent'anni dopo l' attestazione di Idrisi che lo voleva deserto e privo di presidio (il che non esclude che all'occorrenza potesse costituire un possibile rifugio per i cristiani di Trapani), appare svolgere pienamente le sue funzioni.
[....]

In via di ipotesi è verosimile ritenere, sulla base delle due testimonianze di Idrisi ed Ibn Jubayr, che sull'area del santuario venissero realizzati, fra 1150 circa e 1185, interventi tali da riadattare a fini difensivi le rovine esistenti, sovrapponendovi anche nuovi corpi di fabbrica. Ritengo probabile, inoltre, che venisse realizzata in età normanna anche la cinta esterna del castello, che oggi, isolata da interventi di restauro ottocenteschi dal nucleo del fortilizio, sembra costituire un insieme edilizio a sé stante, tradizionalmente quanto impropriamente definito 'torri del Balio'.
In realtà, la cortina turrita detta 'torri del Balio', fino al secolo scorso manteneva inalterato l'organico collegamento originario con il nucleo del castello, con l'area cioè dell'antico santuario. Due rare immagini tratte dal manoscritto inedito dell 'erudito ericino Carvini (tav. LII, l) mostrano senza alcun dubbio come le ' torri del Balio' fossero in realtà la prima cinta del castello, delimitando un vasto cortile antistante il nucleo fortificato.

A questo proposito occorre notare che la spiegazione corrente del toponimo 'torri del Balio' come ricordo dell'antica residenza del Baiulus o Baiulo, non è per nulla convincente.
Vista la originaria situazione topografica, ben evidente dalle immagini nel manoscritto del Carvini, mi pare molto più probabile che il toponimo ' Balio' derivi dal ballium o bailey, dalla basse court, cioè, del castello normanno. La parola, e quindi lo schema castrale a baglio, è documentata in Sicilia nel1194 per il castello di Vicari, dove risulta chiaro che il ballium è un cortile chiuso, in parte composto anche da case, che precede e difende il nucleo principale del castello.
La spiegazione è tanto semplice da doversi dare per scontata.

Tanto più che, non essendo il castello di Erice residenza di una famiglia feudale e di un piccolo numero di accoliti, ma dovendo in origine servire ad ospitare tutta la popolazione in caso di necessità, era obbligatorio prevedere ampi spazi per dar ricetto ad alcune centinaia di persone e probabilmente anche a numerosi capi di bestiame. A ciò potevano egregiamente servire tanto il baglio esterno che il cortile interno, erede del temenos del tempio di Afrodite.
L'originale organicità del complesso era, ripeto, evidente fino al secolo scorso. A partire dal 1872 il conte A. Pepoli realizzò a sue spese una serie di lavori di ' restauro ' che modificarono sensibilmente la situazione originaria. 

L'intervento più rilevante riguardò la cortina muraria che raccordava sul versante SO le ' torri del Balio' al nucleo del castello. Il tratto di muro venne smontato e ricostruito arretrandolo quanto bastava a lasciare all'esterno del cortile la rampa d'accesso al 'castello di Venere'. Contemporaneamente si provvide a spianare l'area antistante le 'torri del Balio', destinata a divenire giardino pubblico. 
Vennero inoltre consolidate e risarcite le muraglie, per decenni utilizzate come cava di pietre, e le torri: fu anche realizzata la sopraelevazione pentagonale della torre mediana del 'Bali o' di cui esisteva solo un tronco ne. Sull'ala di levante, infine, vennero costruiti di bel nuovo, in stile medievaleggiante, alcuni ambienti destinati ad alloggio di custodi ed ospiti. Anche l' interno dell'antico baglio venne in parte regolarizzato e trasformato in pineta. Lavori oggi piuttosto discutibili, dunque, quelli realizzati dal singolare mecenate. Essi ebbero comunque il merito di frenare un degrado oramai secolare e che è ripreso negli ultimi decenni, facendo scomparire il tratto di muro ricostruito ad est fra le 'torri del Balio' ed il 'castello d i Venere'.

IL PORTO DI TRAPANI: DALL'APICE AL TRAMONTO


Il porto di Trapani ha costituito, da sempre, l’epicentro dell’attività economica della città e del territorio. Come scrive lo storico prof. Salvatore Costanza, tra la fine del ‘800 e i primi del ‘900, lo scalo trapanese aveva guadagnato il sesto posto tra i porti d’Italia. 

«Nel periodo della centralità mediterranea di Trapani (almeno fino alla prima guerra mondiale) i flussi commerciali, periodici e intensi, s’indirizzavano entro i circuiti marittimi tra la Sicilia e la costa maghrebina e, dopo l’apertura del Canale di Suez (1869), si dirigevano anche sulle vie dell’Africa orientale e delle Indie. Il commercio del sale ampliava poi la direzione dei traffici fino ai paesi scandinavi e all’America del Nord, affidando ad una marineria assai qualificata le sorti della navigazione atlantica».

Continua lo studioso, poco dopo, parlando dell'economia del mare:

«Le merci che uscivano sulle navi del traffico internazionale e di cabotaggio erano per lo più il sale, il tonno e il tufo. Queste merci segnavano i 4/5 del movimento commerciale marittimo, con variazioni, in ascesa o in diminuzione, a seconda dei periodi storici più o meno favorevoli. [...]

La maggior parte della produzione derivante dalle mattanze dei tonni, così come quella del sale, passava attraverso il porto di Trapani, alimentando un movimento commerciale che, nel periodo considerato (fine ’800-primo decennio del ’900), aveva collocato lo scalo trapanese al sesto posto tra i porti d’Italia. Una schiera numerosa di marittimi (9000 circa erano gli iscritti nel compartimento di Trapani, oltre ai 1600 pescatori) assicurava il tragitto sulle navi da cabotaggio, o su navigli da traffico internazionale.

Nel 1907 il senatore Giuseppe D’Alì costituì la società di navigazione transoceanica La Sicania (per collegamenti anche con gli Stati Uniti), in un momento in cui la marineria trapanese, forte del prestigio ottenuto in passato con la navigazione a vela, raggiungeva ormai gli approdi dei cinque Continenti.

L’incremento dei traffici marinari, che doveva però esaurirsi all’indomani del primo conflitto mondiale, aveva fatto pensare, nel 1865, alla possibilità di collocare nel porto di Trapani un bacino di carenaggio, a servizio delle numerose navi che transitavano nel Canale di Sicilia. 
Del resto, era vanto della marineria trapanese l’attività dell’antico Arsenale, nel quale si erano formate le maestranze dei calafati e carpentieri che avevano costruito i navigli di piccola velatura e i famosi liutelli, alla cui fabbricazione aveva dedicato, nel ’500, le sue eccezionali doti inventive e di mastro artigiano (era anche un mirabile cesellatore di coralli) quell’Antonio Ciminello ricordato con ammirazione dallo storico Pugnatore.

Alla fine dell’800, un centinaio di operai erano occupati nei sei arsenali che costruivano, in Trapani, barche da pesca (2/5 tonnellate) e da piccolo cabotaggio (14/55 tonnellate), adoperando rovere e pino. Non era però raro il caso che in questi cantieri, di proprietà di piccoli costruttori (Luca e Alberto Bascone, Francesco Paolo De Vincenzi, Giuseppe Greco, Gaspare Frusteri e Pietro Cavasino) si costruissero navigli di maggiore tonnellaggio.

L’iniziativa della costruzione di un bacino di carenaggio nel porto di Trapani era partita dal Comune e dalla Provincia, ed era stata sostenuta dalla Carnera di Commercio ed Arti, tutti enti consapevoli che i problemi dello sviluppo economico della città e del suo territorio dovevano affrontarsi, nel nuovo contesto politico unitario, con una precisa individuazione della funzione mediterranea che la Sicilia estremo occidentale era chiamata ad assolvere.

“Questa parte del Mediterraneo - scriveva infatti Giuseppe Mondini – è destinata storicamente a ridivenire il teatro delle rivalità commerciali e politiche delle nazioni marittime; ed e impossibile che l’Italia si faccia da parte, anche per poco, a costo del suo decoro, del suo interesse, della sua esistenza. Se in questo travolgersi di eventi, più o meno prossimi, ma inevitabili, noi non sapremo preparare tutte le nostre risorse, subiremo le conseguenze della nostra irnprevidenza [....]
Il bacino di carenaggio in Trapani, dove tutte le condizioni di opportunità, di spesa, di risparmio sono favorevoli, non potrà che ritornare a beneficio degl’interessi nazionali”.

Sostenne allora questa proposta, nella discussione che si tenne al Senato, l’ingegnere Pietro Paleocapa, che era anche tra i progettisti della via d’acqua che passava per Suez. Pur avendo ritenuto l’ufficio tecnico della Marina italiana che il porto di Trapani presentava condizioni quanto mai favorevoli per la costruzione all’asciutto del bacino di carenaggio, tuttavia alla proposta sostenuta dal Paleocapa non corrispose il parere favorevole del Senato, che preferì approvare un disegno di legge presentato dal generale Luigi Menabrea per la costruzione di un bacino di
carenaggio nel porto di Palermo.

Nel 1879 l’iniziativa venne ripresa dalla Camera di Commercio di Trapani, che prevedeva il concorso dei soli enti locali nella spesa dell’impianto; ma il tentativo era destinato a fallire di fronte alle difficoltà finanziarie che gli si opponevano, e in pendenza della pratica più urgente relativa alla continuazione della scogliera di Ronciglio ».

A proposito delle dinamiche politico-economiche degli ultimi secoli, il prof. Costanza fa le seguenti considerazioni:

«La Liegi del Sud - come aveva chiamato Trapani uno scrittore che
l’aveva visitata alla fine dell’800 - viveva allora la sua stagione più felice; ma fu stagione presto interrotta dalle angustie della crisi, con cui lo spirito imprenditoriale dei Trapanesi dovette fare i conti a causa delle scelte della politica economica nazionale.
Nel corso della lunga recessione e delle crisi post-belliche non sono soltanto mutate le condizioni, diciamo geopolitiche, che avevano determinato le fortune marinare di Trapani, ma e pure cambiata la fisionomia della classe dirigente locale.
Gli ultimi cinquant’anni, durante i quali abbiamo assistito al tracollo del dominio dei proprietari latifondisti (sostituitisi, tra le due guerre, all’attivismo del ceto imprenditoriale), non potevano ridarci la dimensione economica e sociale della borghesia di una volta. Quella più danarosa e ambiziosa si era sostanzialmente alienata in un aristocraticismo d’accatto, sordido e compiaciuto; e il ceto artigiano e della piccola impresa si era ormai disperso o debilitato nel suo assetto produttivo.
Trapani ha pure perduto la sua leadership politica, insieme con la forza economica che le aveva consentito di pilotare finanziariamente non solo le attività del capoluogo, ma anche quelle del suo entroterra agricolo; il quale si è a poco a poco dissociato dal centro amministrativo della provincia, formando interessi propri. Chiamare “trapanese” questo entroterra, che si spinge dalle coste tirreniche alle colline di Alcamo, dalle sciare del Marsalese alla valle del Belìce, è oggi un luogo comune, un semplice riferimento burocratico.
Il terremoto del 1968 ha contribuito a distaccare ancora di più i paesi belicini da Trapani. Un tempo la borghesia latifondistica di quelle zone aveva frequenti rapporti con Palermo, perché vi teneva i propri conti in banca, gli sbocchi del commercio frumentario, gli aviti palazzi. Ed era sempre più facile comunicare con Palermo piuttosto che con Trapani. (Le strade da Gibellina o da Alcamo portavano nell’ex capitale dell’Isola.) Eppure attraverso la posizione dominante del capoluogo in sede politica era possibile mantenere un certo collegamento tra città e campagna. Oggi i legami con Trapani sono quasi del tutto spezzati, perché gli affari, o le pratiche della ricostruzione, si discutono quasi tutti negli uffici della Regione; e la stessa Mazara, con l’autostrada che la collega direttamente a Palermo, ha fondato il suo impianto produttivo legato alle attività della pesca su una “ipotesi” di sviluppo che taglia fuori Trapani e il suo hinterland».

Noi ci auguriamo che come ad ogni tramonto segue la notte per poi vedere rinascere il sole, anche il porto di Trapani possa tornare agli antichi splendori !

Libro completo :
Fra mare e terra metafore del lavoro e microeconomie di ieri e di oggi a trapani e nella sua provincia, di Salvatore Costanza

LA "TRAPANI PROFANA" DEL 1810



Padre Benigno da Santa Caterina, nel suo manoscritto "Trapani Profana" del 1810, ci racconta delle fortificazioni di Trapani.

La città, già fortificata dai tempi della prima guerra punica, fu dichiarata Piazza D'arme nel 1707.
Al suo governo veniva eletto dal Sovrano un Governatore Militare che, come riferisce lo stesso autore, assumeva l'incarico del Governo Militare non solo della Città di Trapani, ma anche di quello del Monte di S.Giuliano, delle Isole adiacenti di Favignana, Levanzo, e Marettimo. E sovraintendeva alla difesa del tratto di costa che da San Vito lo Capo giungeva fino a Licata.

Lo storico, dopo aver raccontato delle evoluzioni avvenute nel tempo sulle fortificazioni, rese necessarie per adeguarle all'introduzione delle nuove armi, quali cannoni e bombarde, dopo l'invenzione dell'uso della polvere da sparo nell'Arte della guerra, descrive dettagliatamente delle varie Fortezze, Castelli , Bastioni e relative dotazioni di uomini e armi.

Inoltre ci rende noto che dalla parte della costa settentrionale era difesa dai valorosi ericini: 

«Serve alla Piazza di Trapani una Compagnia a cavallo di Milizia urbana della città del Monte di S. Giuliano. Questa col suo Alfiere Comandante si deve ogni anno immancabilmente presentare dinnanzi al Governatore della Città di Trapani, il giorno quattordici Agosto, ed alla sua presenza deve eseguirsi la rivista dell'armi. Quindi l' Alfiere colla sua Cavalleria viene destinato a custodire la Compagnia e la Spiaggia di S. Giuliano. Tutto ciò all'oggetto d'impedire le Scorrerie, che possano accadere per causa della quantità dei Forestieri e de Vagabondi che accorono da vari Paesi. Dura questa incombenza per lo spazio di tre giorni, ne quali dalla Città la Festa si celebra di nostra Signora la Vergine SS.ma Maria di Trapani».

Così inizia l'agostiniano scalzo:

Quanto più una Città si trova fortificata e ben munita, altrettarito si rende difficile al Nemico di espugnarla. Un Sito tutto arenoso che appena bucato abbonda d'acqua. Un Terreno tutto pieno di sotterranei Scogli che non permette al nemico di esercitare le sue strategie di guerra colle mine e contramine. Un Castello ben forte e guardato da numeroso Presidio, le Torri, le Mura e le Bastie. Il Rivellini, le Trincee, le Palizzate, le Piazze d'armi. I Ponti Levatoi, le Fosse e Contrafosse, il Mare che la circonda e cinge. I Cannoni , le Bombe, le Granate, la Fucileria. Le Barche Cannoniere e quantità di Soldatesca che la difendono, non sono tutti altrettanti impedimenti al Nemico di potersi accostare a batterla da vicino o pure di conquistarla per assalto?

Tale è la Città di Trapani nello stato presente. Ella sin dall'anno I707 fu dichiarata Piazza d'arme, ma assai prima fu fortificata per Ordine di Carlo V Imperatore nell'anno 1502. Così ce l'attestano Fazzello, Salmon, Leanti. 
Quindi è che il Senatore nel suo giornale Storico alla pag. 361 par. 2, disse: «Trapani famosa Città, e fortissima Piazza d'arme».
Il canonico di Giovanni nell' Ebraismo della Sicilia parlando di Trapani dice: «I Molti Legni da navigare, e la sua irrespugnabile fortezza la rendono anche alle nazioni straniere, cognita insieme, e rinomata. E perciò giustamente gli venne accordato da" Sovrani il Titolo d'Invittissima, appunto, perché mai è stata a forza d'arme espugnata». 

Nel 1862 il governo italiano, con Regio Decreto, privò la città della qualifica di Piazza d’Armi, che la obbligava a mantenere le fortificazioni. 
Così dopo l’unità d'Italia vennero abbattuti bastioni e mura per favorire l’espansione edilizia di Trapani verso levante. 
A tal fine il Comune si dotò di un piano di urbanizzazione redatto, tra il 1865 e il 1869, prima dall’ingegnere Giuseppe Adragna Vairo, poi dal nuovo capo dell’Ufficio tecnico Giovan Battista Talotti.

Così il periodo postunitario a Trapani, oltre che dall'espansione ad est della città, è caratterizzato da pesanti interventi demolitori in vista di un malinteso risanamento. Cosi furono atterrati, oltre agli aboliti fortilizi, il bastione di San Francesco, l’arco e il campanile di Santa Elisabetta, la porta Eustachia e il monastero di Santa Chiara.

Testo completo del Capitolo IV " Della Fortezza di Trapani" :

SULLE TRACCE DEI TEMPLARI A TRAPANI ED ERICE


Alcuni anni dopo la loro fondazione, i Templari approdarono anche nel Regno di Sicilia. 

Questa scelta fu dettata dalla posizione geografica, dal momento che esso è stato da sempre crocevia tra Occidente ed Oriente e i suoi porti rappresentavano dei capisaldi per il traffico marittimo, militare e mercantile da e per la Terra Santa.

Al momento l’unico dato certo è che la Militia Christi s’insediò in Sicilia prima del 9 gennaio 1144, data in cui papa Celestino II sollecitò i prelati a proteggere e sostenere gli stanziamenti templari presenti sul territorio. L'espansione dell'Ordine avvenne secondo una logica ben precisa incline a privilegiare in primo luogo le località costiere, per poi procedere verso l'entroterra.
[...]



Dal manoscritto del Pirri Sicilia Sacra disquisitionibus et notitiis illustrata, apprendiamo l’esistenza a Trapani della chiesa di San Giovanni Battista del Tempio, accanto ad essa sorgeva l’ospizio templare; dopo la sospensione dei Templari, nel 1312 la chiesa passò agli Ospitalieri e due anni dopo Federico III donò l’edificio agli agostiniani che dedicarono la chiesa a Sant’Agostino.

Particolarmente interessante risulta il rosone della chiesa ricco di simbolismo. Esso è scandito da dodici colonnine che si irradiano dall’anello centrale, dove vi è scolpito un Agnus Dei, simbolo presente anche sui sigilli templari.

Osservandolo meglio, non si può far a meno di notare che vi sono solo quattro trafori con fiori a otto petali; unendo questi fiori con una linea immaginaria otteniamo una croce e, non è un caso che il numero dei petali sia otto, in quanto la croce templare ha otto punte; tra i trafori troviamo anche tre sigilli di Salomone (Stella o Scudo di Davide, Esagramma) simbolo spesso presente sulle loro costruzioni, sotto uno di essi vi è scolpito Hermes, dio greco della conoscenza, chiaramente riconoscibile dall’elmo alato. 
[....]


Esigui, purtroppo, sono i documenti giunti fino ai giorni nostri, pertanto essi devono essere intergrati con i “documenti di pietra” presenti su tutta l’Isola, testimoni muti del passaggio dei cavalieri rossocrociati.

Ne è un esempio la chiesa Matrice di Erice, dedicata alla Vergine Assunta, dove sul muro meridionale troviamo inserite nove croci. Questo esemplare di croce templare, secondo lo studioso Tim Wallace-Murphy, ha un profondo significato gnostico; ma ancor più importante, a nostro avviso, è il sigillo di Salomone sulla torre campanaria, presente, come detto precedentemente, su alcuni edifici appartenuti ai Templari.

(da www.siciliafan.it - Anima Templi in Sicilia di Angela Militi)

22 nov 2016

"LO SCIUPATO DISEGNO" DI TRAPANI



Al Museo Regionale “A. Pepoli”, sino al prossimo 8 gennaio 2017, sarà possibile visitare la mostra: ''Lo sciupato disegno'' L'immagine di Trapani dal Settecento alle vedute di Gustavo Bertolini.
Nell'immagine, un particolare del '' Disegno a inchiostro di china colorato e acquerellato''.
Gustavo Bertolini - 1983 Collezione Gaspare Bertolini 

Rifacimento integrale della Veduta di Trapani eseguita dai Fratelli Tummarello nel 1900.
A differenza dell'originale, l'autore ha circoscritto la rappresentazione alla città murata e fortificata, escludendo l'ampia area ad est delle mura dove erano presenti le distese delle saline, le aree coltivate e quelle adibite a pascolo.

Un'ulteriore variante è costituita dall'adozione del colore a inchiostro acquerellato, tecnica che consente al disegnatore di rendere le ombreggiature e i chiaroscuri e di conferire vivacità e naturalezza alla scena

L’arte del presepe in Sicilia



Nato per rappresentare il racconto evangelico, originariamente intriso di pura spiritualità ed esclusivamente presente nelle chiese, il presepe si trasforma e si evolve con il passare degli anni in una simbolica allegoria di una realtà nella quale si fonde il sacro con il profano, dove l’impianto scenografico trova sempre al centro la grotta o la mangiatoia dove riposa il Bambino e verso cui convergono pastori e Re Magi, oltre ad innumerevoli personaggi con animali e oggetti d’uso quotidiano in un caleidoscopio di motivi, credenze e forme dell’ immaginario popolare.

In Sicilia furono quattro i centri principali di diffusione dell’arte presepiale: Palermo, Siracusa, Caltagirone e Trapani. Sia a Palermo che a Siracusa era fiorente l’apicultura e fin dal Seicento veniva utilizzata la cera per plasmare non solo il Bambinello ma l’intero presepe, erano infatti chiamati “I bambiniddara” gli artisti che tra Sei e Settecento, riuniti in maestranza operavano a Palermo, in botteghe in una strada dietro la Basilica di San Domenico.

Nell’Ottocento sono rinomati i “cerari” siracusani, anch’essi specializzati nell’arte del presepe e del Bambinello. Alcuni esempi di presepi in cera sono tutt’ora presenti presso l’Eremo di San Corrado a Noto e nel museo Bellomo di Siracusa. A Noto, nel palazzo Vescovile è conservato un presepe con 38 figure con lo sfondo del paesaggio dei Monti Iblei. L’abate Gaetano Giulio Zumbo (Siracusa, 1656 - Parigi, 1701) è stato quasi certamente tra i più celebri ceroplasti siciliani.

A Caltagirone intorno all’Ottocentole figure dei pastori vengono realizzate interamente in terracotta. Nella ricca produzione locale si possono individuare un filone colto ed uno popolare. Al primo filone appartengono i maestri ceramisti Giacomo Bongiovanni (1772-1859) Giacomo Azzolina (1854-1926) e soprattutto il celebre padre Benedetto Papale (1837-1913) autore di straordinarie scenografie presepiali. Il secondo filone, destinato alle classi meno abbienti, è caratterizzato dalle figure lavorate e dipinte rozzamente esclusivamente nella faccia anteriore, nonché dai costumi e dalla umiltà dei doni.

A Trapani l’arte di lavorare i coralli raggiunge il suo apice tra Sei e Settecento, periodo nel quale i maestri corallari utilizzano la tecnica della “cucitura” ossia l’uso di piccoli frammenti di corallo che vanno a formare il partito decorativo cuciti sul retro di una lamina e sostenuti da perni. 

La raffinatezza e la maggior nitidezza delle figure è dovuta all’utilizzo del bulino, anziché dello scalpello, tecnica adottata già nel Cinquecento da Antonio Ciminello. I presepi trapanesi si distinguono per l’utilizzo di materiali nobili e quindi non solo il corallo ma anche la madreperla, l’avorio, l’argento, l’alabastro pur senza disdegnare le conchiglie e l’osso. Splendidi esemplari sono custoditi nel Museo Pepoli di Trapani e al museo Antonio Cordici di Erice. Tra i più grandi artefici è da ricordare lo scultore Andrea Tipa (1725 -1766) che, oltre ad eccellere nella scultura monumentale, riusciva in maniera egregia anche nella scultura miniaturizzata di stupende composizioni presepiali per le quali prediligeva l’utilizzo di tutti i materiali nobili in uso a Trapani. 

Per comprendere maggiormente l’uso del corallo è bene soffermarsi sul suo forte significato simbolico, esso infatti già nell’Antico Testamento simboleggia le eccelse virtù dell’uomo, la purezza e la bellezza, per l’antica Grecia è il sangue della Gorgone Medusa, uccisa da Perseo, che scorrendo dalla testa recisa si pietrifica sugli arbusti su cui essa è appoggiata, testimoniando la vittoria della vita sulla morte, per il Cristianesimo il corallo è associato al sangue di Cristo, divenendone simbolo della passione e della resurrezione.

IL GEN. ENRICO FARDELLA: IL TRAPANESE EROE DEI TRE MONDI


Enrico Fardella occupa un posto d' onore fra quei siciliani dimenticati nella loro terra e ricordati altrove: un suo busto in bronzo si trova al Museo civico di New York, donato nel 1952 dalla Associazione italo-americana di Sicilia al popolo d' America, bandiere a lui dedicate sfidano dignitose l' oblio.

Com' è che un siciliano di Trapani, il più giovane di tre fratelli che sono il contrario dello stereotipo gattopardesco dell' aristocratico troppo furbo per credere in qualcosa, sia finito in un museo di New York è una storia che vale la pena raccontare. Enrico Fardella nasce nella nobile famiglia dei Torrearsa nel 1821, fa studi irregolari. Ma quando mai s' è visto un vero eroe romantico che pensa a diventare ingegnere o avvocato prima di lottare per la libertà? Lui legge autori proibiti come Foscolo e Alfieri, si infiamma sugli scritti politici di Mazzini, vuole combattere. Nel 1848 è volontario per la prima volta, il 12 gennaio è a Palermo contro le truppe borboniche. I tre fratelli Torrearsa - a cui nel lontano 1934 ha dedicato uno studio Francesco De Stefano - sono fra i più importanti protagonisti di quella rivoluzione, Enrico fa parte del Comitato di guerra e marina. Decide di marciare sulla sua città ancora titubante, di andare a Trapani. Gli bastano poche ore per organizzare un vittorioso assalto al presidio regio.

Molto più impegnativo è far funzionare un comitato cittadino, reclutare i volontari, tenere a bada quanti vedono nella rivoluzione l' occasione giusta per rapide carriere. Lui è un uomo d' azione, ma non è avventato. Esige correttezza e disciplina, i suoi battaglioni saranno sempre un modello di efficienza. Ed è un idealista, sfortunato quanto basta. Viene catturato nelle acque di Corfù nel luglio di quell' anno, assieme ad altri siciliani sopravvissuti alla sconfitta subita in Calabria, dove su mandato del Parlamento di Palermo si erano recati per aiutare la rivoluzione che si diceva fosse anche lì scoppiata. è subito rinchiuso nel carcere napoletano di Sant' Elmo. Nel dicembre del '49 Ferdinando II gli concede la grazia, a condizione che non viva nel Regno. Arriva a Genova il giorno di Natale, entra a far parte della colonia di circa 1.500 esuli che da ogni parte d' Italia si sono rifugiati in quella città. 

Divide un piccolo appartamento col fratello Vincenzo, frequenta corsi di tattica e artiglieria. Scarta la Toscana che giudica arretrata e reazionaria al pari della Sicilia, si trasferisce a Nizza e poi a Torino. Non ha più fiducia nella rivoluzione, il futuro di quella che chiama la sua "patria" non smette mai di preoccuparlo. Enrico Fardella è un autonomista atipico, non si appella a particolarità e privilegi. Solo, giudicando la Sicilia meno evoluta delle altre regioni, vorrebbe che si andasse cauti. Ma il mondo non si ferma alla Sicilia. La guerra dichiarata da Francia e Inghilterra contro l' espansionismo russo ai danni della Turchia è una guerra contro il dispotismo: anche se non fa parte di alcun esercito, un soldato come Enrico Fardella non può restare a guardare. Con lunghe trattative ottiene il riconoscimento del suo grado di colonnello dal governo inglese, fa debiti per procurarsi il denaro necessario per il viaggio e si imbarca per l' Oriente.

L' 8 giugno del 1855 la polizia borbonica lo segnala a Malta, il 6 luglio lui stesso scrive da Costantinopoli. Gli viene affidato il comando di un reggimento della cavalleria ottomana, in ottobre lo troviamo in Crimea che partecipa alla leggendaria battaglia di Balaclava. Accumula imprese ma non prova mai a ricavarne un qualche vantaggio personale, spesso è alle prese con pressanti problemi economici. La notizia dell' impresa di Garibaldi lo sorprende a Londra, dove ha avviato un' attività commerciale. Ritorna precipitosamente in Italia, si imbarca a Genova coi 60 volontari guidati da un altro siciliano, Carmelo Agnetta, che corrono a dare man forte. Si dirigono a Ustica, dove però non trovano ad attenderli il battello che doveva trasmettere gli ordini del generale. Vanno allora verso Trapani, ma la città è ancora presidiata dalle truppe borboniche. Decidono di sbarcare a Marsala, di rifare il cammino dei Mille verso Palermo. Una volta sbarcati, per la seconda volta nella vita Enrico Fardella marcia su Trapani per liberarla. 

Stavolta la occupa senza incontrare alcuna resistenza, senza combattere: a dissolvere ogni resistenza è bastata la notizia che a Palermo le truppe regie si sono arrese. Lui, invece, i borbonici continua a inseguirli. Lo troviamo sul Volturno, col suo reggimento ordinato e perfettamente armato che tiene una postazione importante come la ferrovia. Respinge numerosi assalti, viene promosso sul campo comandante di brigata. Ma una volta finite le battaglie è ancora più difficile continuare a vincere. è subito deluso dai modi in cui avviene l' annessione, profondamente ferito dalla dissoluzione dell' esercito garibaldino. Torna a Londra da dove s' imbarca per l' America, nell' agosto del 1861 è a New York. La guerra di secessione è scoppiata da un mese, Enrico Fardella è tra i primi volontari di Lincoln. Organizza un corpo di fanteria, in poche settimane il suo "reggimento Fardella" conta 1040 volontari ed è ammesso nei quadri dell' esercito unionista col numero 101, assegnato all' armata del Potomac. Nel marzo del 1862 parte per il fronte. 

Il "reggimento Fardella" fa parte della divisione del discusso generale McClellan, poi destituito da Lincoln. Ed è per protesta contro gli ordini di McClellan, che ha ordinato la ritirata delle forze dell' Unione concentrate ad Harrison' s Landing, che Enrico Fardella si dimette e torna a New York. La guerra sembra perduta e lui trova la città impaurita, si spara per le strade. Non è uomo da restare a guardare. Raccoglie un altro reggimento, l' 85° Volontari di New York, e torna al fronte. Nella primavera del 1864 i 450 "Volontari di New York" sono a Plymouth, a loro è affidata una delle tre zone in cui si divide la linea difensiva. A proteggere Plymouth sono 1.100 uomini, che dal 17 al 20 aprile si ritrovano al centro di un inferno di fuoco che somiglia tanto ad un agguato: reggimenti veterani, cavalleria, batterie campali che in simultanea avanzano da ogni direzione, decisi a distruggere ogni difesa. 

La sproporzione fra i due eserciti è insostenibile, la resistenza è disperata, ma i sudisti hanno perdite 6 volte superiori agli assediati. Enrico Fardella è fra i superstiti internati ad Andersonville, torna libero il 3 agosto in seguito ad uno scambio di prigionieri. Nella primavera del '65 viene promosso generale da Lincoln mentre è di nuovo al fronte, a Portsmouth. La guerra di secessione finisce nel maggio di quello stesso anno, il generale Fardella resta in America sino al maggio 1872. Lavora nel commercio, ha molte difficoltà economiche. Quando torna a Trapani, grazie al prestigio della famiglia e alla sua popolarità viene eletto sindaco. è un amministratore accorto: pensa a portare il bilancio in pareggio, a costruire un nuovo mercato, bonificare i terreni e aumentare il volume dell' acqua potabile. Non aspetta la scadenza del suo mandato, è un moderato e si dimette nel 1876 dopo la caduta della Destra storica. Sino a quando muore nel luglio del 1892, non si trovano più tracce di un suo ruolo pubblico. Ma forse le ultime imprese del generale Fardella sono ancora tutte da scoprire e raccontare.

(Art. Repubblica di AMELIA CRISANTINO)

Per saperne di più:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2006/02/23/fardella-il-siciliano-eroe-dei-tre-mondi.html

I FRATELLI FARDELLA DI TORREARSA


Il Marchese Vincenzo Fardella di Torrearsa: Il primo Presidente del Senato del Regno d’Italia

Vincenzo Fardella , 6° marchese di Torrearsa, era il maggiore dei tre fratelli (Giovan Battista ed Enrico). Nato a Trapani il 16 luglio 1808, rappresentò una figura di primo piano nella Rivoluzione siciliana. Scoppiata l'insurrezione nel 1848, fu chiamato a far parte del governo provvisorio in qualità di presidente del Comitato delle finanze, e nel marzo fu eletto presidente della Camera dei comuni.

Fu lui a dichiarare decaduta la dinastia borbonica e ad offrire, con voto del Parlamento, il trono vacante di Sicilia al Duca di Genova, figlio secondogenito di Carlo Alberto.

Dopo lo sbarco dei Mille a Marsala, egli fu chiamato da Cavour al Consiglio di Luogotenenza della Sicilia.Nel 1861 nominato Prefetto di Firenze, fu il protagonista nel delicato ed impegnativo compito di trasferire la Capitale del Regno da Torino a Firenze, in seguito fu nominato ambasciatore del regno d'Italia presso Svezia, Norvegia e Danimarca.

Dopo la presa di Roma nel 1870, venne eletto primo Presidente del Senato nella sede di Palazzo Madama e mantenne tale carica fino al 1874, anno in cui, quasi settantenne, pose fine alla sua carriera politica. Trascorse gli ultimi anni tra Trapani e Palermo, coltivando con impegno studi storici e socio-economici, che si concretizzarono nella stesura dei “Ricordi sulla Rivoluzione Siciliana degli anni 1848 e 1849”.  Completò l’opera poco prima della morte, così scrivendo: “... poso la penna e sento di farlo con la soddisfazione di non aver in nulla volontariamente mentito o nascosto il vero.” A Lui è stato intitolato il Liceo Scientifico di Trapani.

Il fratello Giovan Battista che ne supportò l'impegno politico , nasce a Trapani il 15 agosto 1818.
Studia presso l'Istituto dei Benedettini di Monreale. Frequenta i corsi di lettere e diritto. Studia francese ed inglese. Il 30 gennaio 1848 con i fratelli Vincenzo ed Enrico partecipa alla rivolta antiborbonica. È nominato "Commissario di guerra". Dopo la restaurazione è in esilio. Sarà a Marsiglia, Genova, Pisa e Bologna.

Nel maggio del 1860 alla notizia dello sbarco dei garibaldini a Marsala, insieme ad alcuni compagni parte per la Sicilia. Vengono bloccati da una nave borbonica e condotti a Gaeta. Rientra a Trapani nel luglio del 1860. Fu eccellente sindaco di Trapani dal 1865 al 1869. Ad esso è dedicata la maggiore arteria cittadina, nella città nuova.

Durante la sua sindacatura venne approvato il piano di ampliamento della città di Trapani, redatto dall'ingegnere Giuseppe Adragna Vairo e messo in esecuzione dal 1869 dall'ingegnere Giovanbattista Talotti, appena nominato direttore dei lavori dell'ufficio tecnico comunale.

Nell'ambito delle trasformazioni previste dal piano, la più importante era costituita dall'espansione di Trapani verso Est, lungo la direttrice dell'antica strada dell'Annunziata, secondo un impianto a scacchiera che - a cinta muraria abbattuta - avrebbe prolungato la moderna città borghese fino ai piedi del monte di Erice.

La sua salma, dopo la morte avvenuta il 23 marzo a Palermo, rientra a Trapani il 10 aprile 1881.
Il monumento che si trova nell'esedra della Villa comunale reca la seguente iscrizione:
Al Cavaliere Giov. Battista Fardella di Torre Arsa memori delle sue patriottiche e civili virtù i concittadini XXVI Marzo MDCCCLXXXV Quarto anniversario della sua morte

TRABANUSH (TRAPANI) E I SUOI DINTORNI SECONDO I GEOGRAFI ARABI


Con queste parole Al- Idris, geografo arabo alla corte di re Ruggero, nel XII secolo, racconta Trapani e la sua economia. “Trapani, città delle primitive e antichissimo soggiorno, giace sul mare che la circonda d’ogni lato, entrandosi se non per un ponte dalla parte di levante. Il porto è sul lato meridionale; porto tranquillo, senza movimento: quivi un gran numero di legni sverna sicuro da tutti i venti, rimanendovi cheto il mare mentre fuori imperversano i flutti. In questo porto si prende una quantità strabocchevole di pesce; vi si tende anco di grandi reti al tonno; si trae similmente dal mar di Trapani del corallo di prima qualità. Dinanzi la porta della città giace una salina”.

Nell'epoca che precedeva la prima Crociata Trapani non era il porto della· Sicilia occidentale in° cui approdava il più grande numero delle navi venienti dalla Tunisia e da altri paesi dell'Africa settentrionale. Come lo dimostrano molti documenti della geniza, 'il grande tesoro di documenti letterarii e commerciali arabo­ebraici scoperti nel Cairo, il porto principale della Sicilia occidentale era nell'undicesimo secolo Mazara del Vallo.

Molte delle lettere commerciali ivi trovate, delle quali la più grande parte risale alla seconda metà dell'undicesimo se­colo e all'inizio del dodicesimo secolo, si riferiscono alla esportazione di merci siciliane da Mazara, per esempio all'esportazione di seta e· di prodotti di seta. Secondo queste lettere le navi tunisine prima di veleggiare verso Alessandria sovente visitavano Mazara. 

Però dopo la conquistai della Sicilia dai Normanni Mazara decadeva, mentre Trapani diventava· uno scalo importante . A quell'epoca risale la prima descrizione di Trapani che ha valore di un documento storico importante. È la descrizione della città che troviamo nella famosa opera geografica di al­Idrlsf.

Questo testo ha anzitutto il merito di essere la prima esposizione degli aspetti geografici-­fisici della città nell'epoca medievale. Trabanush ­ così veniva la città chiamata dai Musulmani ­ è circondata dal mare d'ogni lato, ma presso la Porta d'Oriente v'è un ponte che la collega con la terraferma. Il porto si trova sul lato meridionale della città. Ecco una raffigurazione accurata di Trapani, che allora era separata dalla terraferma da un canale di acqua, che correva fuori del muro orientale (ove oggi è la Via del XXX Gennaio), lungo la attuale Via Palmerio Abate. La Porta Orientale è certamente la stessa porta che veniva chiamata nel basso medioevo Porta Vetus e si trovava dal lato meridionale della attuale Prefettura.

Dopo aver dato rilievo ai vantaggi del porto di Trapani, ove le navi trovano un sicuro rifugio durante le tempeste del mare, Al-­Idrisi parla dell'importanza della pesca nel mare vicino a Trapani. Si pescano grandi quantità di pesce e anzitutto di tonno, che viene catturato con grandi reti. Di più si pesca ivi corallo di eccellente qualità. Infine, presso la porta della città giace una salina. Trapani è anche il centro di una estesa e fertilissima regione agricola. Nella città v'è un grande mercato e i mezzi di sussistenza sono abbondanti. 

Questo testo è un prezioso documento per la storia economica di Trapani, perché veniamo a sapere che fin dall'inìzio dell'epoca normanna (e forse prima) la pesca del tonno e del corallo erano settori importanti della vita economica della città. La relazione di Al-Idrisi viene confermata dal viaggiatore ebreo-­spagnolo Benjamino di Tudela, che visitò la Sicilia vent'anni più tardi. Anche lui parla della pesca del corallo nel mare di Trapani.

Un altro testo che parla di Trapani è la relazione di un viaggiatore musulmano che si fermò nella città quattro mesi, dal dicembre 1184 alla fine del marzo 1185. La sua relazione dunque una testimonianza oculare e poiché l'autore, lo spagnolo Abu tl­I:Iu Mnharnmad b. Abmad Ibn Djubair, era un buon osservatore, la sua descizione di Trapani è un altro documento storico di gran valore. 

Il viaggiatore arabo­spagnolo, che tornato dal pellegrinaggio alla Mecca e da un percorso dell'Irak e della Siria, venne a Trapani per imbarcarsi su una nave genovese alla volta della sua patria, a Valencia. Anche lui dà rilievo alla strana configurazione della città che è circondata dal mare da tutti i lati e collegata soltanto da un lato con la terraferma, ove quest'ultima è molto stretta. Però Ibn Djubair descrive anche le mura di Trapani che sono bianche come una colomba.

Come al­Idrisf espone che la città è al centro di una ricchissima regione agricola e dice che per questa· ragione i prezzi (cioè degli alimentari) sono ivi bassi. Ma il viaggiatore spagnolo fa anche spiccare che il traffico nel porto di Trapani è intenso. Le partenze e gli arrivi di navi che vanno in Tunisia e vengono da questo paese sono pressappoco continue e le navi degli Italiani che veleggiano verso la costa africana sono solite di visitare prima Trapani. In altre parole, Ibn Djubair de­" scrive Trapani quando già era diventata uno scalo importante del traffico nel bacino occidentale del Mediterraneo. La nave sulla quale partì da Trapani per la Spagna era accompagnata da un'altra, anche essa genovese, 'e presso Favignana incontrarono una terza nave genovese.

(di Eliyahu Ashtor)

Per saperne di più: 
http://www.trapaninostra.it/libri/Biblioteca_Fardelliana/La_Fardelliana_1982_n_2-3/La_Fardelliana_1982_n_2-3-04.pdf

IL VIAGGIO CERIMONIALE DI CARLO V A TRAPANI DOPO TUNISI



Il 20 agosto 1535 Carlo V, sbarca a Trapani dopo aver sconfitto la flotta turca e presta solenne giuramento nel Duomo della città. 

Carlo d'Asburgo fu Imperatore del Sacro Romano Impero come Carlo V, Re di Spagna, Re di Sicilia, Re di Sardegna come Carlo I, Re di Napoli come Carlo IV, e Duca di Borgogna come Carlo II. Fu una delle più importanti figure della storia dell'Europa, padrone di un impero talmente vasto ed esteso, su due continenti, che gli viene tradizionalmente attribuita l'affermazione secondo cui sul suo regno non tramontava mai il sole.

Il viaggio cerimoniale di Carlo v dopo aver espugnato Tunisi ebbe inizio con lo sbarco a Trapani. Benigno da Santa Caterina così testualmente riferisce : “Carlo V Imperadore nell’anno 1535, essendo sbarcato in Trapani, si conferì nel Tempio di S. Agostino, ed ivi giurò prima di tutte le città del Regno, di osservare i Privileggi di anzidetta Città, accordatigli da’ suoi Predecessori Sovrani. Quindi il Senato nel suo Sigillo intorno alle Armi di Trapani aggiunse le seguenti parole:
Drepanum Civitas Invictissima, in qua Caesar primum iuravit”.

Va detto, per inciso, che il titolo di “Invittissima” era stato conferito alla città nel 1478 da Ferdinando il Cattolico a riconoscimento «delle gloriose resistenze fatte sempre ai nemici del regno», mentre quello di Fedelissima venne invece attribuito successivamente da Filippo IV nel 1640.

Come scrive il prof. Salvatore Dalia, in "Il viaggio e i luoghi di Carlo V in Sicilia": A Trapani, Carlo V approdò il 20 agosto insieme al suo numeroso seguito e a ventimila schiavi cristiani liberati, dopo tre giorni di navigazione difficile a causa dei forti venti contrari. La città contava circa quindicimila abitanti ed era la quarta dell’isola dopo Palermo, Messina e Catania, forse la terza, considerando la sola popolazione intramoenia; il suo porto rivestiva una notevole importanza per gli interessi commerciali e militari spagnoli nel Mediterraneo occidentale, al punto che lo stesso imperatore definì la città “chiave del Regno”, con grande orgoglio dei suoi cittadini.

Questo testimonia la rilevanza assunta dalla città falcata nello scacchiere geopolitico dell'epoca. Carlo V sostò alcuni giorni, alloggiando nel vecchio palazzo dei Chiaramonte, poi Pepoli, situato di fronte alla chiesa di San Nicola, che per questo motivo conservò a lungo lo stemma imperiale. L’atto politico più importante del soggiorno trapanese fu la conferma dei privilegi della città, avvenuta con solenne giuramento dell’Imperatore nella chiesa di Sant'Agostino, allora Duomo della città.

Come scrive Maria Antonietta Visceglia, in "Il viaggio cerimoniale di Carlo v dopo Tunisi":
Il giuramento dell’imperatore sui privilegi della città di Trapani fu il primo gesto di una linea di riconoscimento delle istanze locali che fu una delle dimensioni che contraddistinse il viaggio dell’imperatore nei suoi domini. Trapani, fu una tappa minore del viaggio imperiale ma per niente insignificante a livello cittadino, essendo posti, durante il soggiorno del sovrano, che si protrasse fino al 25 dello stesso mese, i problemi cruciali per le finanze locali, del risarcimento dei danni subiti durante l’impresa e della concessione delle franchigie relative ai diritti di dogana per mare e terra "sicut et quemadmodum nunc gaudet civitas Messinae".

Carlo V, appendendo il suo drappo rosso, come ex-voto, giurò di confermare tutti i privilegi già concessi a Trapani da Alfonso il Magnanimo e Ferdinando il Cattolico , incluso quello del Senato di conferire la laurea in diverse materie, quali: teologia, matematica, medicina, fisica, giurisprudenza e belle arti.

Carlo V lasciò Trapani alla fine di agosto diretto verso Palermo.

A Carlo V, imperatore romano e re di Sicilia, gli abitanti di Trapani promisero, se fosse necessario, di fare con i propri corpi da muraglia et artigliaria et moriri in servicio di sua imperial corona.
La chiesa di Sant'Agostino, ricordiamo, essere stata dei Cavalieri Templari. Una conseguenza delle crociate fu, infatti, l’arrivo a Trapani di alcune confraternite maschili, che di ritorno dalla Terrasanta si fermarono in città: i Francescani nel 1224, i Domenicani nel 1230 e i Carmelitani nel 1240.

La prima confraternita ad arrivare a Trapani fu però quella dei Poveri Compagni d’armi di Cristo e del Tempio di Salomone, meglio conosciuti come Cavalieri Templari, che si stabilì a Trapani nel 1140.
Trapani fu per i Cavalieri del Tempio, il secondo porto più importante della Sicilia, dopo Messina (strategico porto mercantile per i traffici con la Terrasanta): mentre Trapani era soprattutto una base militare dove spesso sostava la flotta templare.

Il cardinale Enrico Beccatelli, trapanese e protettore dell'ordine, donò loro un palazzo nel centro della città, accanto ad una preesistente chiesetta dedicata a santa Maria del Tempio, che i Templari riadattarono ad ospizio per ospitare i loro confratelli di ritorno o in partenza per la Terrasanta.
La Chiesa di Santa Maria del Tempio fu affidata prima ai cavalieri di Malta e da loro ribattezzata in onore di San Giovanni Battista e poi ai Padri Agostiniani.
Dopo la visita di Carlo V, la chiesa cambiò nome in Sant’Agostino

Per saperne di più: 
http://dprs.uniroma1.it/sites/default/files/337.html
http://www.federicosecondo.org/attachments/217_CarloV_DALIA_ita(low).pdf

TRAPANI E IL COMMERCIO INTERNAZIONALE NEL BASSO MEDIOEVO


Come afferma lo storico austriaco-israeliano Eliyahu Ashtor, Trapani per molto tempo ha rappresentato, nel regno di Sicilia, il porto più importante della parte occidentale, così come nel periodo precedente, con gli arabi, lo era stato Mazara.

Così scrive Ashtor, in Trapani e il commercio internazionale nel basso medioevo: Nel dodicesimo secolo Trapani aveva sostituito Mazara che nell'epoca anterio­re alle Crociate era il porto più importante della Sicilia occidentale e meridionale, ove gettavano I'àncora molte navi venute dalla Tunisia e veleggianti verso il Le­vante e viceversa. Questo cambiamento era dovuto al fatto che le flotte dei Cro­ciati che venivano dalla Liguria passavano· lungo le coste orientali della Sardegna e poi lungo la costa occidentale della Sicilia, prima di indirizzarsi verso il Levante, e si fermavano in alcuni porti durante il lungo viaggio. Poi le navi mercantili se­guivano le loro rotte. Non a caso troviamo un contratto di commenda riferentesi al commercio con Trapani nella prima grande raccolta di atti rogati da un notaio genovese, il ben conosciuto Giovanni Scriba, che risale all'inizio della seconda me­tà del dodicesimo secolo.

Con l'arrivo degli Aragonesi in Sicilia, il commercio marittimo di Trapani ebbe un ulteriore incremen­to. Nel quattordicesimo e nel quindicesimo secolo molte navi dei paesi attorno al bacino occidentale del Mediterraneo entravano regolarmente nel porto di Trapani e imbarcazioni salpavano in varie direzioni.

Per quanto riguarda l'attività economica del Quattrocento, la ricca collezione di atti notarili che si è conservata nell'Archivio di Stato a Trapani rende possibile una ricostruzione ben documentata.
In base a tali atti lo storico Asthor, ne ricostruisce la storia e scrive: Trapani era in quei tempi una piccola città, che non poteva aver più di 10.000 abitanti. Però, essendo il porto principale della Sicilia occidentale, vi si svolgeva un commercio vivace di vari prodotti agricoli, anzitutto di grano, vino, formaggio e anche di pelli. Il commercio di queste ultime alimentava la pro­duzione di vari articoli di cuoio . Si vendeva anche molto ferro, di cui avevano bisogno i fabbri ferrari per produrre gli arnesi necessari agli agricoltori. L'estrazione di sale era nel basso medioevo ancora un settore assai modesto dell'econo­mia trapanese, ma era già sufficiente per fornire quantità così abbondanti che rendevano possibile esportarne una parte per via marittima.

Un altro settore molto redditizio dell'economia trapanese era la pesca e la lavorazione del corallo. I pescatori trovavano il corallo nel mare vicino alla città, cioè presso le isole Egadi, nei pressi di Bonagia, Cofano, San Vito Lo Capo, Castellammare del Golfo e, più lontano, nel mare di Lipari. Qualcuno si spingeva fino alle coste della Sardegna e negli atti notarili del Quattrocento troviamo parecchi contratti riferentisi alle spedizioni che facevano i Trapanesi per pescare il corallo nei pressi della costa tunisina, anzitutto nel mare di Tabarca, cittadina nella Tunisia occidentale e non lontana dalla frontiera algerina.

Essendo fiorenti i vari rami del commercio, si forma a Trapani nel basso medioevo un ceto di mercanti, intraprendenti e ricchi. Ma Trapani in quell'epoca ospita anche molti mercanti stranieri. Vi sono commercianti venuti per occuparsi dei loro affari durante un periodo ben limita­ to e ve ne sono altri che si stabiliscono a Trapani e vi costituiscono vere colonie.

I Catalani sono numerosi. I mercanti catalani hanno a Trapani fin dall'inizio del Trecento la loro colonia, cioè borsa, un ospizio e un consolato che è uno dei quattro consolati cata­lani in Sicilia e da cui dipendono i viceconsoli a Marsala, Mazara, Sciacca, Agri­gento e Licata. Il primo console catalano a Trapani venne nominato nel 1301 e poi si susseguono i suoi successori durante tutto il Trecento e Quattrocento.

A parte i Catalani , la colonia dei mercanti genovesi è la più grande.  Questa colonia cresce notevolmente alla metà del Quattrocento, nell'epoca in cui le posizioni dei Ge­novesi nel Levante si indeboliscono in seguito alle conquiste degli Ottomani. Però l'aumento delle attività dei Genovesi a Trapani è anche in sincronia con il declino del commercio dei Catalani. 

I mercanti genovesi che visitano Trapani o si sono ivi insediati, vendono panni di lana di tutte le sorte, seterie, copricapi (bereti) e ferro . D'altra parte comprano frumento e grandi quan­tità di formaggio. Sovente barattano le loro merci con formaggio. Trapani ser­ve ai Genovesi anche di base per il loro commercio con Tunisi e qualche volta i mercanti genovesi esportano da Trapani e dai porti vicini frumento verso Cipro, Chio e Pera. All'inizio del Quattrocento il loro console è un ricco mer­cante trapanese, Francesco Vento, poi, alla metà del secolo, Antonio Vento, certamente suo figlio.

Anche mercanti di altre città italiane vengono a Trapani e si stabiliscono nel­la città per esercitarvi il commercio. Vi sono Messinesi, che hanno un console, Gaetani , Fiorentini e Pisani, anch'essi con un console. Non man­cano Lombardi e Veneziani.

Continua Asthor: Della presenza di tutti questi mercanti non ci meravigliamo e neanche degli scambi commerciali fra essi e i Trapanesi. Però ce ne sono anche altri: nel 1440 un gruppo di mercanti di Nizza, venuti a Trapani su una loro nave, chiede a Lan­zone Fardella, patrizio trapanese, di essere il loro console, a condizione che il du­ca di Savoia, il loro sovrano, ne confermi la nomina. Alla metà del Quattro­cento c'è a Trapani anche un console dei Castigliani e in più vengono a Trapani mercanti musulmani dall'Africa settentrionale.

Per farla breve, scrive Asthor, moltissimi documenti testimoniano che Trapani era in quell'epoca un fulcro del traffico marittimo. Sembra che fosse allora un porto impor­tante rispetto al traffico di altre città costiere del Mezzogiorno. Nella Sicilia vi erano in quell'epoca soltanto tre altri porti che servivano come Trapani al traffi­co internazionale, cioè Palermo, Messina e Siracusa. Sulla costa tirrena della terra­ferma italiana ce n'erano tre, Napoli, Gaeta e Porto Pisano.

Gli scambi commerciali fra Trapani, da una parte, e le città della terraferma dall'altra, si effettuavano in gran parte per mezzo di navi trapanesi. Il numero delle imbarcazioni che possedevano i Trapanesi nel basso medioevo doveva esse­re notevole. Oltre le navi dei Trapanesi vi sono nel porto quasi sempre imbarcazioni di altre città della Sicilia, della terraferma italiana e di altri paesi, piccoli legni delle isole Eolie, di Messina, di Napoli, di Gaeta, galee ed altre navi fio­rentine e molte navi liguri, di Genova e di altre città. Fra le imbarcazioni che gettano l'ancora nel porto di Trapani non mancano navi di Collioure (il por­to di Perpignano) e ve ne sono quasi sempre alcune di Maiorca , della Catalogna e di Valencia. Qualche volta una nave castigliana visita Trapani e non di rado grandi imbarcazioni della Biscaglia, sovente noleggiate dai Genovesi, e perfino portoghesi che caricano merci per ditte toscane. Anche navi musulmane appaiono a Trapani.

Quest'elenco di navi straniere che frequen­tavano il porto di Trapani in quell'epoca è lontano dall'essere completo. Pare che non vi fosse una nazione mercante sulle coste del Mediterraneo che non mandas­se le sue navi verso la piccola città della Sicilia occidentale. Alla fine del Quat­trocento anche navi di Ragusa approdano a Trapani.

Gli atti che si sono conservati dai quaderni dei notai trapanesi del Quattrocento rispecchiano fedelmente l'intenso traffico nel porto della città.

(di Eliyahu Ashtor)

Per saperne di più: 
http://www.trapaninostra.it/libri/Biblioteca_Fardelliana/La_Fardelliana_1983_n_1/La_Fardelliana_1983_n_1-02.pdf

LE FORTIFICAZIONI DI TRAPANI NEL MEDIOEVO E IN ETA' MODERNA (SECOLI X-XVI)


Figlia del porto e del Mediterraneo, Trapani, fin dalle origini, è un luogo e poi una città di o sul confine.

Tutte le città mediterranee, in realtà, lo sono; ma Trapani lo è più di molte altre, fin dall’antichità. Stette sul confine fra lo spazio romano e quello punico; poi sul limes fra il mondo bizantino e quello islamico; con la conquista normanna, divenne il lembo d’Europa neolatina e cristiana più vicino al Maghrib musulmano.

Questa tradizionale fruntera di mori nel XVI secolo diviene il luogo dello scontro fra il blocco asburgico e l’impero turco. Trapani divenne allora la piazzaforte della Sicilia occidentale. Ma quello con l’islam non è l’unico confine. Con il Vespro Trapani era divenuta il terminale siciliano delle comunicazioni con il regno d’Aragona, una porta da conservare sicura e ben difesa. La storia delle fortificazioni trapanesi è quindi anche la storia delle varie frontiere mediterranee. In mancanza di fondazioni ufficiali, l’atto di nascita di Trapani come centro urbano può farsi coincidere con la costruzione o il rafforzamento delle mura verso il 260-259 a. C. Scrive Diodoro Siculo che Amilcare Barca “cinse di mura Trapani e la rese città”: το δε ∆ρεπανον τειχισας και πολιν καταστησας. 

A ciò seguì il trasferimento a Trapani della popolazione di Erice. Nei secoli passati ∆ρεπανον era vissuta nell’ombra di Erice, svolgendo il ruolo di porto ed emporio. Ora il porto di Erice sembra prendere il sopravvento sulla città del monte, affacciandosi alla storia con una sua distinta identità, divenendo o cominciando a divenire città. 

La differenza è rappresentata proprio dalle mura; dalla possibilità di concentrare, controllare e proteggere al loro interno un presidio e una popolazione più cospicua rispetto al passato. Mura e città: un binomio inscindibile anche nel caso della più antica Trapani. Al momento della battaglia delle Egadi, che nel 241 a. C. decise le sorti della I Guerra Punica, Trapani è sempre un ottimo λιµην (porto) ma è già anche una πολις (polis).

Di questa più antica Trapani sappiamo che occupasse l’area degli attuali quartieri San Pietro e San Nicolò; è tradizione antica attestata dallo scrittore cinquecentesco che si cela dietro lo pseudonimo di Pugnatore e accolta in genere dagli studiosi più recenti. Oltre un miglio sarebbe stato lungo il perimetro quadrangolare delle mura di Trapani antica.

Sul lato est avrebbero avuto un andamento quasi rettilineo in senso nord-sud, ipoteticamente lungo la direttrice dell’attuale via XXX Gennaio, com’è certo per il medioevo. Su questo tratto si sarebbero aperte due porte. Per il sito della prima, gli studiosi dissentono, anche se vi è qualche possibilità che corrisponda almeno come ubicazione a quella detta da documenti del XV secolo porta vetus, ubicata da alcuni all’altezza dell’edificio della Prefettura. Dovrebbe trattarsi della stessa apertura anche detta porta di terra, che altri localizzano però all’altezza di via Giudecca. La seconda porta, identificata nel sito della futura porta dei Pali, si sarebbe aperta in prossimità dell’angolo formato da muro orientale e muro meridionale, quasi appoggiata alla torre ivi esistente. 

Sul lato occidentale delle mura, ipoteticamente poste lungo la direttrice dell’attuale via Torrearsa o Loggia, si sarebbero aperte, sempre secondo Pugnatore, due porte, quasi in corrispondenza di quelle del settore opposto. Una sarebbe stata ubicata presso le attuali fontana di Saturno e chiesa di Sant’Agostino, all’incontra della strada dritta che conduce infin oggi dentro della città vecchia. La seconda si sarebbe trovata poco più a nord e corrisponderebbe al sito dell’attuale porta Oscura o dell’Orologio, sotto il Palazzo Senatorio, anch’essa sulla via Torrearsa o Loggia. 

Due o tre, secondo il Pugnatore, sarebbero state le porte antiche del lato meridionale d’oscura apparenza, come fors’anco erano di ignobil passaggio e quindi non localizzate dall’autore. Su questo lato l’andamento delle mura antiche è ipoteticamente ricostruibile sulla via Biscottai e piazza Scarlatti o, come ha sostenuto Filippi, lungo il modesto salto di quota fra le vie Biscottai e San Pietro. È solo ipotizzabile che altrettante porte si aprissero sul lato settentrionale delle mura, il cui percorso può ipoteticamente ricostruirsi lungo le attuali via Poeta Calvino e via Cavour.

Lo stesso Pugnatore ritenne che la cinta antica di Trapani presentasse una torre su ognuno dei quattro angoli: ad esse alluderebbero quattro delle cinque torri dello stemma urbano; la quinta sarebbe la torre della Colombara (o Colombaia) o una torre mediana del muro occidentale. Tale tradizione non è però da prendersi obbligatoriamente alla lettera. In realtà non sappiamo assolutamente quante torri avesse la più antica cinta urbana trapanese. Nei fatti, un circuito murario quadrangolare lungo oltre un miglio con sole quattro torri agli angoli sarebbe stato piuttosto debole. Non si può quindi escludere che esistesse un numero maggiore di torri mediane. 

Un’altra tradizione risalente almeno a Fazello, ripresa da Pugnatore e poi accolta senza critiche fino ad oggi da vari autori, è relativa alle presunte origini cartaginesi della torre della Colombara, o piuttosto alla presenza sull’isolotto della Colombara di una torre fin da età cartaginese. L’appiglio è offerto dal racconto di Cassio Dione tramandato da Zonara.

Un isolotto chiamato Πελιασ (Peliade) viene menzionato a proposito del blocco posto dai romani a ∆ρεπανον nel 247 a. C., durante la I Guerra Punica. L’isolotto, evidentemente vicinissimo alla città, era presidiato dai cartaginesi: i romani se ne impadronirono con un colpo di mano notturno, uccidendo la guarnigione ma venendo a loro volta contrattaccati da Amilcare. Il console Numerio Fabio assalì allora direttamente Trapani provocando il rientro fra le mura di Amilcare. I romani congiunsero allora artificialmente Πελιασ (Peliade) alla terraferma con un terrapieno, imprimendo nuovo vigore alle operazioni. 

In realtà, nulla prova con certezza che Peliade corrisponda all’isolotto della Colombara, nonostante l’autorevole parere di Cluverio e di Holm. Potrebbe anche essere il Lazzaretto, l’isolotto del villino Nasi o ipoteticamente anche un altro dei lembi di terra affioranti nel passato dalle acque a ovest del sito urbano di Trapani e solo più tardi inglobati nella falce. In tal senso Manni ha giustamente forti dubbi sulla tradizione, mentre Columba aveva proposto di identificare Peliade con l’isolotto di Sant’Antonio (il Lazzaretto). Di recente Filippi ha ipotizzato, anche sulla scorta di un particolare presente nella pianta prospettica di Trapani di Giovanni Orlandi (fine sec. XVI), che i romani abbiano congiunto fra loro con un riempimento di terra le due isolette della Colombara e di Sant’Antonio e quest’ultima con la terraferma. 

Pur ammettendo in via di ipotesi che la Πελιασ (Peliade) di Zonara possa identificarsi con l’isolotto della Colombara, ciò non comporta automaticamente la costruzione di un primo e più antico nucleo della torre o castello della Colombara già in età cartaginese. Le fonti non danno alcun cenno sulla natura delle eventuali fortificazioni presenti su Peliade; inoltre sull’isolotto non sembrano sussistere elementi murari che possano far pensare a un intervento così antico, anche se è da precisarsi subito che lo straordinario monumento e tutto il sito attendono ancora uno studio esaustivo e sondaggi archeologici. Per quanto concerne l’ipotesi di origini cartaginesi anche per il castello di terra, i saggi archeologici colà effettuali hanno sì restituito materiali ceramici di età punica, ma non permettono, almeno fino ad ora, di parlare di origini così antiche per quel complesso fortificato.

Non possediamo alcuna notizia sulle fortificazioni trapanesi fra età bizantina e islamica. Verso il 900 Trapani venne assediata da Abu al-Abbas Abd Allah, figlio del famigerato emiro Ibrahim: le fortificazioni erano quindi efficienti. Come città murata Trapani è esplicitamente menzionata da al-Muqaddasi nella seconda metà del X secolo. Solo con la conquista normanna iniziamo a disporre di documentazione meno rara ed episodica. Goffredo Malaterra racconta la resa ai normanni della Trapani islamica nel 1077. 

Le forze normanne piombarono su Itrabanis a maggio; la spedizione si mosse per terra e per mare, così come imponevano le caratteristiche della città. La caduta della città fu determinata da un audace colpo di mano del figlio di Ruggero, Giordano. Di fronte a Trapani si estendeva una stretta striscia di terra circondata dal mare che doveva consistere nella parte finale della falce, allora esterna alla città. Qui gli abitanti, hostili tempore, portavano al pascolo il loro bestiame, come in una sorta di naturale albacar, la grande area cintata destinata agli armenti nelle città e fortezze dell’Andalus islamico. Giordano Altavilla si accostò di notte alla penisola con un certo numero di imbarcazioni e rimase silenziosamente in agguato.

Con il sorgere del giorno, i trapanesi condussero, come di consueto, il bestiame al pascolo. Quando Giordano valutò che gli armenti fossero abbastanza lontani dalla città, uscì con i suoi uomini dai nascondigli: rastrellati gli animali, li condussero verso le proprie navi. A quel punto gli abitanti di Trapani effettuarono una sortita in massa: quasi diecimila, racconta Malaterra con iperbole evidente, furono quelli che uscirono dalla città. Giordano e i suoi ruppero però l’impeto dei nemici, incalzandoli fino alle porte urbane. Ricacciata indietro la sortita, i normanni poterono tranquillamente reimbarcarsi con il bestiame razziato. I trapanesi, sconfitti sanguinosamente e privati delle proteine, dovettero arrendersi e consegnare la città.

Come di consueto, i normanni assunsero il controllo delle fortificazioni urbane e le rafforzarono. Comes itaque, urbem nactus, pro libitu suo castro et caeteris munitionibus ordinat, militibus et iis, quae necessaria erant, munit, turribus et propugnaculis undique vallans. Per ciò che riguarda il castello, è possibile supporre tanto la riparazione e l’adeguamento di un complesso preesistente che, più probabilmente, la costruzione di un nuovo castrum.

L’ubicazione di questo primo castello trapanese rimane comunque assolutamente incerta. Chi scrive ha altrove proposto di ubicarlo nel sito del futuro castello di terra, un’area che, per quanto ne sappiamo, verso la fine del XI secolo era ancora esterna all’ambito urbano. Un castello normanno completamente esterno ad una cerchia muraria non sarebbe un fatto isolato, come suggerisce il caso di Petralia Soprana. I sondaggi archeologici effettuati nel castello di terra a Trapani, però, sembrerebbero escludere la sua origine in epoca normanna e confermare invece la tradizione che lo vuole realizzato nella prima età aragonese. E’ quindi ipotizzabile che il castrum di Ruggero I sia da localizzarsi altrove.

(di Ferdinando Maurici)

Testo completo:

http://documentslide.com/documents/fortificazioni-di-trapani-maurici.html

LA FAMIGLIA ABBATE "DE TRAPANO"



Nel 1239, Enrico Abbate diventa console di Tunisi. Il trapanese Enrico Abbate, nel 1239, fu il primo console del Regno di Sicilia in Tunisia. Come scrive Gavina Costantino, le relazioni tra la Sicilia e l’Ifrıqiya, regione corrispondente all’odierna Tunisia, alla parte orientale dell’Algeria, e alla Tripolitania, sono antichissime.

Sin dalla prima età aragonese la città di Trapani aveva assunto una certa rilevanza politica, accompagnata dalla crescita economica e demografica. Essa fu sempre particolarmente attenta a intrattenere pacifici rapporti sul piano diplomatico, la qual cosa evidentemente doveva avere importanti ricadute economiche.

In questo quadro di relazioni, le comunità ebraiche, sia siciliane sia maghrebine, furono piuttosto attive.


Già alcuni storici – Trasselli, Ashtor, Bresc – hanno scorto lo specifico interesse che la comunità ebraica trapanese riponeva nello scambio con il regno tunisino, un interesse maggiore di quello nutrito, generalmente, dalle altre comunità siciliane. 

La giudecca di Trapani era tra le più popolose della Sicilia e assai dinamica; teneva contatti costanti con il mondo berbero, infatti la conoscenza della lingua araba consentiva ai giudei di dialogare agevolmente con quella regione, in particolar modo con le comunità di correligionari lì presenti. 

Non era raro che mercanti trapanesi si rivolgessero a conterranei ebrei – agevolati dalla conoscenza dell’arabo – per effettuare le loro spedizioni. È il caso di Lanzone Fardella,uomo dalle fiorenti attività economiche, che si servì nel 1422 di due ebrei per spedire un grosso quantitativo di grano – 650 salme – a Sfax, Gerba, o eventualmente a Tripoli, e quindi barattarlo con altre merci.

La relazione con il regno hafside, la dinastia berbera islamica che governò l'Ifriqiya dal 1229 al 1574 – e segnatamente con la sua capitale– era indispensabile per la città di Trapani; Bresc infatti parla dell’esistenza di un vero e proprio binomio Tunisi-Trapani, sebbene per ciò non si debba ritenere che i trapanesi avessero il monopolio delle relazioni con la regione nord-africana. Ancora, secondo Bresc, Trapani fungeva da punto di riferimento unico in tutta la Sicilia per il riscatto dei prigionieri saraceni.


Non a caso, quindi, nel 1239-40 Federico II nominò quale console della Sicilia a Tunisi il trapanese Enrico Abbate.

Come scrive Vincenzo D'Alessandro, Enrico Abbate fu il primo console nominato da una monarchia occidentale in un paese islamico, dopo i consoli creati dalle repubbliche marinare. Dal 1239, Federico inviò , il trapanese Enrico Abbate, nell'intento di fare concorrenza alle rappresentanze consolari delle Repubbliche italiane. In quegli stessi anni tuttavia egli, pur essendo attivo come Console, non risiedeva stabilmente a Tunisi, essendo impegnato in importanti servizi, come trasferire dal regno il denaro richiesto da Federico e ad apprestare a Pisa quanto fosse necessario all’esercito dell’imperatore. Nel febbraio 1240 l’Abbate tornava a Tunisi per una importante missione, forse per rinnovare il trattato del 1231 e convincere l'emiro a modificare la buona accoglienza riservata alle Repubbliche Marinare. A capo della missione pare Oberto Fallamonaco; il notaio al seguito era Giovanni da Palermo.

D'altra parte possiamo definire la Trapani del XIII secolo, come la città degli Abbate. Come scrive Laura Sciascia, infatti «per quasi due secoli, dalla prima metà del Duecento alla fine del Trecento, il nome e le vicende della famiglia saranno legati strettamente al nome e alle vicende di Trapani: e anche se gli Abbate godranno tutti della cittadinanza di Palermo e avranno interessi e feudi in altre zone dell’isola, il loro nome sarà sempre seguito dall’aggiunta de Trapano, a sottolineare ben più che una provenienza, una simbiosi profonda con la città e le sue strutture che, nel volgere degli anni, arriva quasi ad assumere le caratteristiche di un dominio signorile. In particolare gli Abbate sono legati a un aspetto determinato della vita della città, al ruolo di punta estrema verso l’Africa, il Maghreb e il mondo islamico che Trapani ebbe per tutta l’età normanna e sveva e che si affievolisce poi dopo il Vespro».

«Il Vespro, infatti, aveva provocato una brusca virata, spostando l’asse degli interessi della città dai rapporti con l’Africa e il mondo musulmano a quelli con la penisola iberica, e facendo del suo porto il naturale punto di approdo delle navi provenienti dalla Catalogna. Il Mugnos fa discendere gli Abbate da Papiro Cavaliere Romano, il quale dopo aver rinunziato ai suoi possedimenti in favore del figlio Ascanio, si ritirò nel monastero di Montecassino. Alcuni dei figli dell’Abbate passarono in Sicilia e propriamente quel ramo di essa che fioriva in Milano.

Capostipite in Trapani fu Americo che vi fiorì nel 1165 regnando il Re Guglielmo il Buono e da esso derivò il glorioso Sant’Alberto Carmelitano, cittadino trapanese figlio di Benedetto, Signore di Favignana e di Giovanna Palizzi.

Un altro personaggio illustre della famiglia fu Palmiero Abate uno dei maggiori promotori e organizzatori della rivolta del Vespro siciliano del 1282 contro gli Angioini, insieme a Gualtiero di Caltagirone, Alaimo di Lentini, Enrico II Ventimiglia e Giovanni da Procida. Il 30 agosto 1282 si occupò di accogliere la flotta di Pietro III d'Aragona comandata dall'ammiraglio Ruggero di Lauria sbarcata a Trapani per dare sostegno ai siciliani contro gli angioini. Alle truppe fornì rifornimenti e denari per proseguire la guerra.

La famiglia Abbate si estinse a Trapani nel 1703.

Testi citati:
GAVINA COSTANTINO, Le relazioni degli ebrei trapanesi con il regno Hafside di Tunisi sotto Alfonso V.
VINCENZO D'ALESSANDRO, Velut nostri membra regiminis. Sulla formazione e la composizione dell’apparato di governo federiciano