30 gen 2017

Grani duri antichi di Sicilia



« … quando semino un grano antico semino il futuro. » Assia La Rosa

I grani duri antichi siciliani o varietà locali di grani siciliani sono una serie di 52 varietà di grani autoctoni della Sicilia,delle 291 presenti in Italia nel 1927.



Storia


La Sicilia riscopre uno straordinario patrimonio di biodiversità tornando a valorizzare i grani antichi, alcune di quelle 52 varietà di grani autoctoni della Sicilia, delle 291 presenti in Italia secondo un censimento del 1927. Varietà che erano in gran parte scomparse dalla produzione perché ritenute poco adatte ad una coltivazione intensiva con processi meccanizzati e con largo impiego di fertilizzanti, ed inoltre, perchè hanno rese più basse rispetto alle più diffuse coltivazioni moderne di frumento. 


Questo cambiamento di rotta è stato sancito oggi a Blufi, in provincia di Palermo, dove la Cia Sicilia (Confederazione Italiana Agricoltori – Sicilia) ha dato vita all’Associazione dei produttori di grani antichi. La nuova realtà del panorama agricolo isolano è stata presentata nel corso del convegno “Sapore di Grano”, tenutosi alle 16,30 all’Aldebaran di Blufi. Una tavola rotonda finalizzata a rivalutare i grani antichi come il Russello, il Timilia (o Tumminia), i più antichi dell’isola, il Perciasacchi, il Nero delle Madonie, e il Senatore Cappelli.

«Il 57% dell’industria sementiera è controllata da 10 gruppi industriali, il 38% dai primi due: Monsanto e DuPont» (Roberto Sensi, I custodi dei semi. – Il futuro dei campi. Sono grani per la gran parte scomparsi perché poco adatti ad una coltivazione intensiva con processi meccanizzati e con largo impiego di fertilizzanti. Inoltre, hanno rese per ettaro più basse rispetto alle più diffuse coltivazioni di frumento odierne.

L’adozione da parte di 50 paesi europei dell’UPOV 91 (International union for the protection of new variety of plant) e successivamente del TIPS (Trade-related aspects of intellectual property rights) dell’OMC (Organizzazione mondiale per il Commercio), ha politicamente favorito la scomparsa delle varietà autoctone siciliane di grani e non solo di essi; infatti, questo accordo internazionale proibisce lo scambio di varietà di prodotti tra gli agricoltori. Facendo perdere ai contadini la possibilità di mantenere, conservare e tramandare i semi di varietà autoctone per le proprie semine. I semi così diventati solamente concessioni annuali di una multinazionale che impone le regole di coltivazione a livello internazionale.





















Va però sottolineato come l’agricoltura contadina tenda a resistere a queste imposizioni e resista la tradizione di riutilizzare come semente – quando le specie lo permettono – una parte dei grani prodotti, preservando così la capacità individuale di selezionare con il tempo il seme più adatto alle proprie condizioni produttive senza dipendere da una fonte esterna.

In Sicilia, che vantava 52 varietà di grano coltivate, nel 2009, il 50% della produzione di circa 10 milioni di quintali è stata ottenuta da una sola varietà.

Varietà

In Sicilia per la grande varietà di condizioni climatiche e microclimatiche del territorio, così anche per le diverse condizioni pedologiche e altimetriche, nei secoli sono state selezionate diverse varietà di grano coltivate, Una classificazione delle varietà secondo le aree ortografiche è questa:



Ricerche scientifiche

Pane nero di Castelvetrano prodotto con il grano duro antico timilia



Una ricerca condotta da ricercatori della Stazione Consorziale Sperimentale di Granicoltura per la Sicilia, di Caltagirone in provincia di Catania pubblicata nel 2010 suggerisce interessanti differenze tra alcune varietà di grani duri antichi siciliani e moderne varietà di grani duri. Nella ricerca i grani appartenevano a 4 antiche varietà di grano duro siciliano confrontate con 13 nuove varietà di grano duro siciliano. I grani delle 4 vecchie varietà di grano siciliano studiate erano: (Cappelli, Margherito, Russello, Timilia).

I grani delle 13 nuove varietà di grano siciliano studiate erano: (Arcangelo, Catervo, Ciccio, Duilio, Iride, K26, Lesina, Mongibello, Pietrafitta, Rusticano, Sant’Agata, Simeto, Tresor).

Le differenze rilevate nella ricerca sono state:
Le moderne varietà hanno mostrato un più alto peso (conta di 1000 semi), con una maggiore vitreosità oltre a produrre più semola.
Le moderne varietà hanno una percentuale più alta di glutine secco, con una composizione proteica molto diversa rispetto ai grani duri antichi con anche proprietà visco-elastico diverse tra le farine dei due gruppi.

Le moderne varietà mostrano caratteristiche visco-elastiche migliorate più adatte alle moderne industrie di trasformazione specie della pasta.
Le vecchie varietà mostrano un più basso indice di glutine conseguentemente una tenacia del glutine più bassa rispetto alle moderne varietà testate.
Le vecchie varietà mostrano un indice alveografico W più basso (85 vs. 181 10E−4J), mentre gli altri parametri visco-elastici (P, L e G) non differiscono tra i due gruppi. In particolare il rapporto P/L non mostra differenze tra i due gruppi coerentemente con il fatto che sono entrambi grani duri. Gli impasti ottenuti con le vecchie varietà sono più morbidi e meno duri e resistenti rispetto alle moderne varietà.

Le vecchie varietà ad una analisi sensoriale fatta con un metodo standard per produrre pane mostra come i grani antichi abbiano una crosta più spessa con una mollica meno alveolata, con briciole più piccole e maggiore umidità.

Questo studio ha mostrato come il pane ottenuto dalle antiche varietà di semola aveva una consistenza diversa rispetto al pane ottenuto da quelle migliorate. Inoltre i pani ottenuti con le vecchie varietà di grani antichi sono facilmente riconoscibili da parte del consumatore.
IGP e DOP

In Sicilia da qualche tempo sta nascendo una sensibilità ed un interesse economico per le protezioni di origine di prodotti cerealicoli come per, l’unico prodotto ottenuto da farina di grano duro, il pane DOP denominato: Pane di Dittaino o Pagnotta del Dittaino. Per la sua produzione sono diversi i grani che possono essere usati, questi sono elencati secondo il disciplinare di produzione:







« La materia prima utilizzata nella produzione della “Pagnotta del Dittaino” è la semola rimancinata di grano duro proveniente dalla molitura del grano duro, prodotto nell’areale di coltivazione di cui all’art. 3, appartenente alle varietà Simeto, Duilio, Arcangelo, Mongibello, Ciccio, Colosseo, presenti per almeno il 70% sul totale dello sfarinato utilizzato. Il rimanente 30% deve essere comunque rappresentato da grano duro appartenente alle varietà Amedeo, Appulo, Bronte, Cannizzo, Cappelli, Creso, Iride, Latino, Norba, Pietrafitta, Quadrato, Radioso, Rusticano, Sant’Agata, Tresor, Vendetta, prodotti nell’areale di produzione. Non è consentito miscelare il grano con altri grani provenienti da altri territori siciliani non inclusi nell’areale, da altre regioni italiane ovvero da altre nazioni. »


26 gen 2017

Il porto di Erice e la battaglia di Drepana nel 249 a.C.


La storia del territorio di Trapani, durante i primi secoli dell’antichità e almeno fino al 260 a.c., appare parte integrante della storia di Erice. 
Il sito dove sorgerà Trapani sarà ancora definito da Diodoro Siculo nel 368 a.C (XV, 73) “porto di Erice”, un approdo in grado di ospitare una notevole armata, dato che in quell’anno, durante l’ennesimo scontro siracusano-cartaginese, vi si ancorarono ben 130 triremi greche.

Diodoro Siculo [XV, 73, 2-4]
(368 a.C.) Il tiranno Dionisio… dopo aver saccheggiato l’intera regione ed essersi impadronito della città di Erice, pose l’assedio a Lilibeo ma, poiché qui si trovavano molti soldati, tolse l’assedio. Sentendo che gli arsenali erano bruciati e ritenendo che tutta la loro flotta fosse andata distrutta, ebbe disprezzo per loro: inviò nel porto di Erice 130 trireme, le migliori, fece tornare a Siracusa le altre. I Cartaginesi, avendo inaspettatamente armato 200 trireme, mossero verso quelle siracusane all’ancora nel porto di Erice: l’attacco fu improvviso ed essi trascinarono via la maggior parte delle triremi.

Durante il periodo precedente l’intero comprensorio drepanitano dovette essere parte integrante dell’antica chora (territorio) ericina. 
Il nome di Erice appare per la prima volta nel 510 a. C. , ma soltanto come chora (territorio), in Erodoto (Storie libro V, 42, 3), in riferimento alla spedizione di Dorieo, e oggetto, appunto come territorio, della sua rivendicazione in quanto discendente di Eracle, anche se ancora non viene designata come una polis ben determinata.
Prima di questa data della "chora ericina" si hanno notizie che affondano le radici nel mito in riferimento alla lotta fra Erice ed Eracle.
Diodoro Siculo, narra che quando Eracle giunse in Sicilia, dove aveva spinto le vacche sottratte a Gerione come pegno della decima impresa, si avvicinò alla zona di Erice dominata dall’eroe eponimo (Erice), figlio di Afrodite e Buta. Erice invitò Eracle alla lotta, ponendo come premio il territorio sul quale governava e pretendendo le vacche insieme alla perdita dell'immortalità da parte dell'eroe greco in caso di vittoria. 
La battaglia fu vinta da Eracle che, però, riconsegnò la regione agli abitanti del luogo accordando loro di prenderne i frutti finché non fosse giunto un suo discendente a rivendicarne i diritti, come avvenne, appunto, molte generazioni dopo con Dorieo secondo la testimonianza di Erotodo di Alicarnasso.
Dorieo, figlio del re spartano Anassandrida, quale discendente di Eracle (la sua famiglia vantava il mitico eroe come progenitore), rivendicando il possesso dei territori ericini, con uno sparuto esercito, per circa un trentennio mantenne il controllo di un insediamento coloniale denominato Eraclea, ma una coalizione di forze ostili elimo-puniche lo affrontò in battaglia, nella quale lo stesso Dorieo trovò la morte. Poco tempo dopo, fu la stessa Eraclea ad essere distrutta.

Una connotazione propria comincia a delinearsi con l'inizio della prima guerra punica tra romani e cartaginesi. A questo periodo si può fare risalire la fondazione di una vera è propria città (Drepana ) distinta da quella elima d'origine (Erice), anche se comunque le due rimarranno ancora strettamente legate per via degli eventi che seguiranno.

Nel 262 a.C., a soli due anni dallo scoppio della prima guerra punica (264-241a.C.), i Romani erano già giunti a Segesta, città che, dopo secoli di solida alleanza con Cartagine, era passata di colpo nel campo avversario. 
L’incalzare degli eventi, con i Romani che rapidamente conquistavano i maggiori centri dell’isola, aveva spinto i Cartaginesi ad edificare, nel 260 a.C., sulla penisola falcata un nuovo insediamento fortificato, a protezione del porto, un centro che prese il nome Drepana (l’odierna Trapani), popolato grazie al trasferimento forzato degli abitanti di Erice, la quale rimase una roccaforte militare controllata dai Cartaginesi.

Diodoro Siculo (I sec. a.C.) 
[XXIII, 9]… Anche il forte di Mazara fu assoggettato dai Romani. Allora Amilcare il Cartaginese prese per la seconda volta Camarina con l’inganno, e dopo pochi giorni s’impadronì anche di Enna. Fortificò Drepana e costruì una città nella quale trasferì la popolazione di Erice; fece abbattere Erice stessa, tranne l’area intorno al tempio.…

Dione Cassio (II-III a.C.) 
[Zon. 8.11] Amilcare fortificò il luogo chiamato Drepanon (esso è un porto comodo), depositò lì gli oggetti di più grande valore e vi trasferì tutta la popolazione di Erice. Quest’ultima città, poiché occupava una salda posizione, egli rase al suolo, per impedire ai Romani di impadronirsene e farne una base di operazioni per la guerra.

Polibio evidenziava la funzione strategica del porto di Drepana nelle Storie:
«tanto favorevole era, infatti la posizione e tale la bellezza del porto di Trapani, che sempre i Cartaginesi dedicarono alla sua difesa la massima cura».

Come narrano le fonti storiche (in particolare Polibio, I, 49-59), il territorio ericino e drepanitano, da quel momento e fino alla fine della guerra, divenne il principale teatro degli avvenimenti bellici.
Romani e Cartaginesi edificarono, su un ristrettissimo ed accidentato territorio, un complesso sistema di fortificazioni (ancora rilevabili sul terreno) che coinvolse i due eserciti in una lunga ed estenuante guerra di posizione.

La scelta di fortificare Drepanon si rivelò comunque azzeccata, e verso il 250 a.C. era una delle ultime due roccaforti cartaginesi in Sicilia; dacché l'altra, Lilybaeum, era assediata da parte dei Romani.

Fra il 249 e il 241 a.C. il porto di Trapani e le pendici del monte Erice furono teatro dei più importanti avvenimenti storici che questo territorio abbia conosciuti.

Polibio nelle Storie, Lib. I/51 e 52. racconta della "battaglia navale del porto di Trapani" nel 249 a.C.

A quell'epoca i Romani, pensando che conquistando Trapani avrebbero posto fine alla guerra, tentarono di entrare con la flotta nel suo porto; ma i Cartaginesi, comandati da Aderbale, non si fecero sorprendere, e con una ardita manovra navale riuscirono a sopraffare la flotta comandata dal console Publio Claudio Pulcro.
Roma, nel tentativo di forzare il porto perse quasi tutta la flotta, fu una vera è propria disfatta inflitta dai cartaginesi, la più grave sconfitta navale mai subita. La colpa di tale disfatta fu data alla sciagurata decisione dal console Claudio Fulcro che fece gettare in mare i polli augurali che non beccavano il mangime (cosa ritenuta di cattivo augurio). La frase del console: "se non vogliono mangiare, che bevano" è diventata famosa.

La flotta romana formata da 120 navi (Paolo Orosio) guidata dal console Publio Claudio Pulcro salpò ed arrivò nel mare di Drepanum all'alba, tra la sorpresa dell'ammiraglio cartaginese Aderbale.

Polibio così' descrive il fatto.

Al sorgere del giorno, le prime navi erano in vista di Drepanum: Adebale in un primo tempo rimase attonito alla vista improvvisa, ma ben presto si riprese e capì che il nemico era venuto per attaccare. 
Giudicò allora di dover fare ogni sforzo e affrontare qualunque sacrificio pur di non esporsi ad un sicuro assedio. Raccolse dunque sulla spiaggia gli equipaggi e convocò con un bando i mercenari della città ..... ordinò di imbarcarsi subito e, guardando la sua nave, di seguirlo a poppa (ordinò che lo seguissero). Detto questo, egli stesso in tutta fretta salpò e condusse fuori i suoi proprio sotto alle rupi dalla parte opposta a quella dalla quale i Romani stavano entrando nel porto. ( Pol. 1)
Publio Claudio Pulcro, mentre parte della sua flotta era entrata nel porto, parte stava entrando e parte era ancora fuori, vide che i Cartaginesi avevano disposto la loro flotta, posta all'esterno del porto e distante dalla sua imboccatura, in posizione di battaglia. 
Ordinò che subito tutte le navi invertissero la rotta per uscire e dare battaglia ai nemici. Non considerò l'affollamento eccessivo di navi, in relazione allo spazio disponibile, in un'area che per la sua naturale esiguità intralciò le manovre dei natanti e causò grandi danni. 
Molte delle poliere che uscivano, urtarono seriamente quelle che entravano; molte inoltre si danneggiarono reciprocamente i remi: Il tutto in una confusione che rallentò molto l'operazione di disporsi in battaglia, mentre soltanto quelle ancora all'esterno del porto, grazia al maggiore spazio disponibile, furono leste a dirigersi contro la flotta cartaginese. Tra queste v'era la quinqueremi del console, avvantaggiata dal fatto che era posta in retroguardia. 
Le navi che erano senza impedimenti, perché ancora fuori dal porto, vennero fatte disporre dai trierachi nelle vicinanze della spiaggia e con le prue contro gli avversari. 
Claudio Publio Pulcro si dispose a sinistra dello schieramento, lontano dalla spiaggia, verso l'alto mare. [Pol. 1]
Mentre la flotta romana risolveva le proprie difficoltà, quella cartaginese guidata da Aderbale modificò la propria disposizione e dallo stato di attesa, con cinque delle sue pentere (quinqueremi), si diresse oltre l'ala sinistra romana e quindi verso il mare alto. 
A questo punto fece diramare l'ordine alle rimanenti poliere di compiere una manovra tattica uguale alla sua. In tal modo la flotta cartaginese si trovò in vantaggio dato che, con alle spalle il mare aperto, poteva assaltare i Romani o poteva fuggire a seconda dell'esito dello scontro. 
I Romani venivano così costretti in uno specchio d'acqua delimitato, da dietro, dalla costa. Ciò precludeva loro la possibilità di manovra. 
Completata la manovra le navi cartaginesi indirizzarono la loro prua verso quelle romane; ma queste, tenendosi sotto costa, erano impegnate a presidiare il tratto di mare antistante l'imboccatura del porto, in modo da consentire alle loro restanti navi di uscire indisturbate.

Alcuni anni dopo, nel 241 a.C., Gaio Lutazio Catulo sbaragliò la flotta cartaginese nella famosa battaglia delle Isole Egadi che pose fine alla guerra, senza che però Drepanon fosse mai effettivamente espugnata.

I Romani così conquistarono la città, latinizzandone il nome in Drepanum

Il Culto di Maria Santissima di Custonaci, patrona di Erice e dell'agro ericino


Il culto della Madonna di Custonaci è antichissimo e tuttora resta immerso nel mistero, le prime testimonianze storiche risalgono ai primi del 1400.

Una leggenda, tramandata per diverse generazioni, narra di una nave francese proveniente da Alessandria d’Egitto, facente rotta verso il porto di Marsiglia, che durante la navigazione, in prossimità delle Isole Egadi, fu colta dal brutto tempo.

Infatti poco dopo si scatenò una violenta tormenta e la nave, quindi, si trovò in balia delle onde, in procinto di rovesciarsi. L’unica fonte di salvezza per i marinai era un miracolo!!!
I marinai in preda alla disperazione andarono giù nella stiva, dove tra il carico, vi era un quadro raffigurante la Madonna; essi si inginocchiarono ed iniziarono a pregare, facendo voto alla Vergine Maria che se fossero scampati alla tempesta, avrebbero donato il quadro agli abitanti della terra in cui sarebbero approdati incolumi.
Subito dopo le onde cominciarono a placarsi, il temporale si allontanò e la nave nel frattempo poté giungere, fra mille peripezie, nei pressi di Cala Buguto alle pendici di Monte Cofano, odierna Baia Cornino. I marinai scampati alla tempesta approdarono sul litorale e per onorare la promessa fatta, scelsero il luogo dove costruire una piccola chiesetta all’interno della quale custodire il miracoloso quadro della Vergine.
Nel frattempo alcuni abitanti della vicina frazione di Custonaci alla vista della nave supponendo un’incursione da parte dei saraceni, si precipitarono per difendere il litorale, ma trovarono gli uomini di mare francesi gioiosi per lo scampato naufragio. Gli abitanti dissuasero i naviganti dal costruire una chiesetta in quel posto e di trasportare l’immagine nella vicina cappella rupestre dedicata all’Immacolata, ubicata in prossima della collina di Custonaci, per essere meglio custodita e venerata, considerando che il litorale era frequentemente oggetto d’invasioni da parte dei Saraceni che facevano razzie di ogni genere lungo le coste. I Marinai sentendo quelle valide motivazioni affidarono il quadro agli abitanti locali e ripresero il loro viaggio. Il quadro venne posto su di un carro trainato dai buoi per essere trasportato nella vicina collinetta di Custonaci. 
Si racconta che durante il tragitto, giunti nelle vicinanze della cappella rupestre i buoi, essendo assetati ed esausti per la fatica si fermarono non volendo più ripartire. A quel punto iniziò a sgorgare dell’acqua dal terreno. Quel posto tutt’ora esistente è chiamato “Pozzo della Madonna”.
I buoi dissetati ripartirono raggiungendo la soprastante cappelletta dove fu risposto il quadro. Da quel giorno la Sacra Immagine prese il titolo di “Maria di Custonaci”.
Non si sanno quali e quante grazie l’immagine abbia concesso, la tradizione ci tramanda due singolari miracoli avvenuti proprio all’arrivo del quadro nel territorio di Custonaci, ex frazione di Erice.

Il primo episodio straordinario riguarda un uomo zoppo il quale avendo saputo dell’arrivo del quadro miracoloso, desideroso di venerare la Celeste Signora, volle supportare anche lui il quadro per il trasporto dalla spiaggia alla vicina collinetta di Custonaci, ma ecco il miracolo: appena si addossò il sacro peso, si trovò immediatamente guarito.

Il secondo fatto miracoloso, invece, riguarda un giovane proveniente dalla città di Salemi, sordo muto dalla nascita, che si trovava, all’arrivo del quadro, nei pressi di Cala Buguto. Vedendo quell’inaspettato evento volle anche lui partecipare e rimase quasi elettrizzato dei gioiosi “EVVIVA” che gli abitanti gridavano alla Celeste Signora. Spinto anch’egli da un travolgente impeto gridò “EVVIVA MARIA” con voce chiara e il suo handicap scomparve. Ancora oggi nella rievocazione storica dello Sbarco i fedeli gridano “Evviva Viva Maria Santissima di Custonaci Viva”.

Per il gran numero dei miracoli e delle grazie ottenute il culto per Maria di Custonaci si è esteso ovunque negli anni successivi.

Il diritto di patronato

La Cappelletta rupestre ricadeva nel territorio di Custonaci che anticamente faceva parte del Comune di Monte San Giuliano (l’attuale Erice), il quale rivendicava la proprietà del quadro, con la scusa che il dipinto non fosse al sicuro, per timore di scorrerie dei pirati turchi. Le autorità comunali ordinarono il Trasporto della Sacra Immagine nella Chiesa delle Grazie ad Erice fino a quando la chiesetta non fosse stata resa sicura da eventuali attacchi dei pirati saraceni.

Negli anni, le pretese del Municipio di Monte San Giuliano furono sempre più consistenti al punto di rivendicare il Diritto di Patronato, chiedendo nel 1572 al Papa Gregorio XIII di concedergli il giurispatronato laicale della chiesetta di Nostra Signora di Custonaci.
Il Papa concesse il giurispatronato alla condizione vincolante di munire la chiesetta della frazione di un adeguata torre oltre a sostenerla con un tributo annuo in denaro.
La concessione papale fu resa esecutiva a Palermo il 22 marzo del 1575 presentato a Mons. D’Antonio Lombardo vescovo di Mazara ed eseguito da lui stesso il 5 agosto 1577.
Con atto pubblico del Notaio Antonio Floreno del 3 giugno del 1577 fu stabilita la dotazione da parte del Comune alla Chiesa di Custonaci che ammontava ad 30 ducati annui.
E’ chiaro che il Comune di Erice pur di ottenere il tanto agognato patronato nascose al Papa alcune verità.
In realtà, il decreto del Papa fu completamente stravolto: infatti le condizioni del Papa non furono del tutto rispettate, venne elargito soltanto l’assegno annuo, ma la torre non fu mai costruita.
Ciò nonostante il Vescovo di Mazara, ignorando le dovute adempienze, rese esecutivo il Breve Pontifico concedendo cosi il “Diritto di Patronato”.

Ebbero così inizio nel 1568, secondo gli storici ericini, i tanto travagliati trasporti, in uno scenario quasi biblico per i luoghi e per la fede, tra Custonaci ed Erice per poter festeggiare il Sacro Dipinto nella propria città.
Il quadro veniva trasportato come propiziazione o per i bisogni del popolo durante le calamità naturali quali: peste, terremoti, guerre, per bisogno di pioggia.
I “Trasporti”, che avvenivano ogni anno nel mese di agosto erano giudicati un non senso da parte degli abitanti di Custonaci che non condivisero mai la delibera del Vescovo di Mazara sul diritto di Patronato.

Proprio per questi motivi i trasporti del miracoloso quadro furono caratterizzati da aspri e duraturi contrasti tra Custonacesi ed Ericini e, molto spesso, il Comune del Monte dovette ricorrere ad un ingente spiegamento di forza pubblica per spostare il quadro dal suo abituale luogo e trasportarlo ad Erice. Addirittura una volta per vincere la resistenza custonacese, fu inviato un battaglione di cavalleggeri da Palermo oltre alla polizia.
Molto spesso gli Ericini prelevavano il quadro scardinando il portone d’ingresso, lo conducevano ad Erice non restituendolo e quindi, erano gli stessi Custonacesi, che dovevano andare ad Erice per ricondurlo nella frazione di Custonaci.
Per centinaia di anni perdurò questo braccio di ferro fino a quando su richiesta del parroco Giuseppe Guzzardi dei Minori Conventuali, decisione inoltrata all’Intendenza delle Belle Arti, fu decisa la inamovibilità del Sacro Dipinto, già in parte lesionato, essendo caduto durante uno dei numerosi spostamenti, decisione avvallata dal Prof. Venturini di Roma interpellato dallo stesso parroco per constatare la gravità dei danni.

Finalmente dopo diversi lustri, fu questa la svolta che ha fermato un’assurda tradizione ciecamente voluta.

Il quadro della Madonna di Custonaci godette finalmente di fissa dimora nella sua collocazione naturale sull’altare del Santuario di Custonaci, e festeggiato solennemente ogni anno l’ultimo Mercoledì di Agosto con la partecipazione di migliaia di fedeli provenienti da ogni parte dell’isola.


Trapani, Porta Ossuna e il "pirata" Serisso


Porta Serisso era così detta dal nome del ricco mercante trapanese Felice Serisso, reale o romanzato protagonista di una storia di corna e sangue, che nei pressi avrebbe avuto le sue case e che ha lasciato la denominazione anche ad una via attuale.
Dal 1612 sarà detta anche porta d’Ossuna, in onore del vicerè Pedro Girón de Osuna.

Nel 1800 , Padre Benigno da Santa Caterina, agostiniano scalzo, nel suo
manoscritto Trapani Profana, ci racconta di Porta Ossuna - erroneamente confusa con porta Botteghelle che si trova dalla parte opposta - e la storia del "pirata" Felice Serisso.

Così scrive:

L’ultima Porta finalmente di questo lato Meridionale, è la Porta Ossuna, così detta dal Vicerè Don Pietro Girone, Duca di Ossuna. 
Questa Porta con altro Nome viene appellata la “Porta di Serisso”.

La Tradizione, per cui la Porta Ossuna viene appellata con altro Nome Porta Serisso è appunto, perché un certo Mercante Trapanese di Nome Felice Serisso, celebre per le sue Mercanzie e per la Compra de’Schiavi Cristiani, e cambio de’Turchi, tenendo in sua Casa un Turco, quale s’invaghì della di lui Moglie. Da questa ne venne di maniera corrisposto, che ambidue, concertata una segreta fuga si conferivano in Tunisi.
Accadde frattanto, che lo scappato Schiavo avendo armata una ben grossa Fusta per la Pirataria, tra gli altri Schiavi de’quali fece presa, uno si fù il suo medesimo Padrone Felice Serisso. Questi veggendosi già Prigioniero di Colui che era stato suo Schiavo, ed in conseguenza di sua Moglie, si armò di una Pazienza invitta. Restò dunque Schiavo de’due Felloni, quali fingendo di non conoscerlo, se lo presero al suo servitio e gli imposero il nome di Alì. Domandato Felice un giorno da suoi Padroni del suo Nome, Cognome, Patria ed Impieghi esercitati nella sua Patria, egli li sodisfece di tutto della
seguente Canzona Siciliana.

Un tempu jeu Filici mi chiamava
Era Mircanti e prì lu Mari ajia
Tutti li Cristiani arriscattava
E Turchi ancora in Casa mia
tinia
Ma lu destinu mi persequitava
E Schiavu mi ridussi in Barvaria
Schiavu di chidda chi gheu tantu
amava
E prì junta di chiù mi chiama
Elia.

Ma Felice era un Uomo coraggioso, e nella sua finta
calma meditava un aspra vendetta. Era questa drizzata non solo
contro dello Schiavo Fellone, ma pur anche contro della sua
impudica Moglie, che lo avea tradito.
Infatti avendo concertato tutto il convenevole alla fuga,
un dì, con un pugnale alla mano, tutto ebbro disdegno assalì lo
Schiavo e l’uccise, indi con tagliente sciabola recise la Testa
all’impudica Moglie, e postala in un sacco, se ne fuggì da Tunisi
e se ne venne in Trapani.
Alla Cantonata della sua Casa appese la Testa recisa della
Moglie, ad esempio di quelle Consorti infide, che tradiscono i loro
Mariti. Si diede poscia ad una Vita ritirata e Cristiana, e doppo
la sua Morte volle, che la sua Casa si convertisse in Chiesa sotto
Titolo di Gesù e di Maria.

Anzi, perché la Testa della fù sua Moglie coll’andare del tempo si era di più infradicita, e consunta, volle perciò, che fosse rifatta di Marmo, come sino al presente si osserva.
Ed ecco la Tradizione per cui la Porta Ossuna viene appellata Serisso, cioè da Felice Serisso.

Trapani, baluardo contro le invasioni ottomane


Uno dei problemi che maggiormente preoccupò i viceré di Sicilia fu quello di difendersi dalle scorrerie dei pirati, come i famosi corsari Dragut e il Barbarossa, che fin dai primi anni del cinquecento spingevano i loro remi verso il Mediterraneo occidentale. Ma soprattutto il pericolo più grande fu rappresentato dall'avanzare dall'armata turco-ottomana verso l'occidente cristiano.

Ancora nel 1533, l'Univeritas Drepani scriveva al duca di Monteleone per avvertirlo che il corsaro Barbarossa stazionava di frequente nelle acque di Favignana, minacciando da vicino Trapani. E il Monteleone vi aveva inviato l'ingegnere Antonio Ferramolino "per vedere et esaminare quello che nella città e nei suoi castelli importava maggiormente fortificare e metter mano ai lavori".

Come scrive, il prof. Salvatore Costanza:
«Le opere di fortificazione nell'isola, iniziate da Carlo V, seguirono, per ritmi di esecuzione, le apprensioni suscitate dal "pericolo turco".
Il punto di osservazione che può presentarsi da Trapani è assai significativo, perché questa città si trova al centro dei collegamenti militari e commerciali con Tunisi.
Fu una scelta certamente calcolata della monarchia spagnola quella di costruire a Trapani l'epicentro del sistema fortificatorio, lasciando che le altre due punte del triangolo difensivo della Sicilia estremo-occidentale ( Monte San Giuliano e Marsala) fidassero ancora sulle vecchie difensive medievali. Poche, e di semplice emergenza, furono infatti le opere compiute in quel periodo nelle due città; e la stessa decisione di interrare il porto di Marsala venne presa come extrema ratio per l'impossibilità di apprestarvi le necessarie opere di difesa.
Gl'ingegneri militari accennano nelle loro relazioni ( conservate nell'Archivo General de Simancas) all'importanza strategica che ha Trapani, « una de las claves del Reyno », come è chiamata da Carlo V. L'unico baluardo occidentale contro le invasioni ottomane».

Lo stesso sbarco dell'imperatore a Trapani , il 20 agosto del 1535, dopo aver sconfitto la flotta turca ed espugnato Tunisi, testimonia l'importanza della posizione geopolitica assunta dalla città falcata in quell'epoca.

«Il lavoro di restauro del sistema fortificatorio della città, assieme alla costruzione di nuovi bastioni e cavalieri, nonché delle torri di avvistamento lungo le coste, era reso necessario dal pericolo emergente delle scorrerie piratesche, in una guerra di corsa che tuttavia impegnava tanto i Musulmani quanto i Cristiani. Non solo necessità di difesa spingevano i Trapanesi ad affrontare il nemico sul mare, ma essi stessi si organizzavano per predare le coste e le isole della Tunisia; sicchè Trapani potè essere ancora nel '500 un centro di affari per il mercato degli schiavi. La Regia Corte, ad esempio, vi si riforniva di soggetti in cattività da adibire nelle galere».

«Testimonianze della guerra di corsa esercitata dai Critiani si trovano già negli atti notarili del 400'.
Alla fine del ‘400 la flotta trapanese era costituita da almeno un terzo di navi adibite alla guerra su un totale di un centinaio di caravelle, brigantini, galeotte e tartane. Gli impresari si riunivano in societas per intraprendere le scorrerie sul mare, formando un’agguerrita classe di mercanti-corsari (De Abrignano, De Aiuto, Incumbao, Maccagnone, Riccio, De Sigerio), le cui fortune erano pure sostenute dalla partecipazione finanziaria di Ebrei, come Elya Sadias, o di potenti cittadini trapanesi, come i Fardella: Quest'ultima era ancora attiva nel '500, insieme con gli Ajuto, nell'arte piratica».

«Negli ultimi anni del secolo XVI si ebbe un certo ritorno alle conflittualità della guerra di corsa, tuttavia rese per lo più inefficaci dall'accresciuta iniziativa di rivalsa dei marinai di Trapani. Le opere di difesa approntate in questo periodo contribuirono a proteggere le coste, mediante un sistema avvolgente di "torri di avviso" già predisposto dal viceré de Vega, e costruite tra il 1549 e il '53, rafforzando le strutture murarie e i fortilizi, Le torri di avviso, che comunicavano tra di loro con segnali di fumo o di fuoco, erano quelle di S. Teodoro, Favignana, Castelli della Colombaia e di Monte San Giuliano, San Matteo, Capo Cunturrano, Punta di lu muru e Sferracavallo».

Attraverso le carte del Consejo de Estado, Archivo General de Simancas si conosce il disegno delle opere in cantiere e i reparti realizzati sulla vecchia cinta fortificata e sui castelli dagli ingegneri incaricati.
Nel 1573 l'ingegner Giulio Cesare Brancaccio,« aveva trovato "Trapana fortissimo da tutte le parti", "aggiungendoci a questo la felicità d'un meraviglioso porto". Pensava, dunque di non dover "mutar nulla di quanto sta sopra il mare, preoccupato semmai di fortificare meglio il fronte terra. I due castelli, "a mare" e di terra, costituivano le estreme emergenze del sistema difensivo della città, su cui si misurarono per anni le logiche del piano fortificatorio sviluppato nel duplice rapporto, da un lato, con le isole e il mare, dall'altro, con la terraferma, divisa dal canale d'acqua fatto costruire dal viceré de Vega».

Fonte :
Tra Sicilia e Africa: Trapani. Storia di una città mediterranea, di Salvatore Costanza

14 gen 2017

La pesca del corallo a Trapani


La pesca del corallo a Trapani è documentata già sotto l'impero romano.

Durante la prima età imperiale (I sec. d.C.), Drepanum è citata da Plinio il Vecchio come città della Sicilia famosa per la pesca del corallo.

Plinio il Vecchio (23/24-79 d.C.), nel libro XXXII al capitolo 11 della Naturalis Historia - un trattato naturalistico in forma enciclopedica scritto nel I sec. d.c. - enumerando i siti di pesca del corallo scrive:

il corallo migliore, il più prezioso, è quello del ”golfo gallico”, il golfo del Leone, delle isole Stoechedes vicino Marsiglia, delle Eolie e del promunturium Drepanum (Trapani)

9 gen 2017

Teatro dell'Opera dei pupi


Il teatro dei pupi è riconosciuto dall’Unesco come Capolavoro del patrimonio orale e immateriale dell’umanità. Nelle sue forme più classiche e codificate lo spettacolo dei pupi prende forma a metà Ottocento, quando vengono messe in scena storie di banditi e santi, drammi shakespeariani e soprattutto le popolarissime vicende dei paladini di Francia.
Per le classi meno abbienti l’arrivo dei pupi era l’avvenimento più atteso: i pupari sfruttano la suspense e dividono la rappresentazione in più serate, che devono necessariamente culminare con una scena di battaglia. Per gli effetti speciali vengono utilizzati pupi particolari, che perdono la testa o si dividono in due (per poi ritornare magicamente interi nello spettacolo successivo), o streghe che possono mutare volto e passare da un angelico visetto alla maschera della morte. Esistono due tipi di pupi: palermitani e catanesi. 
Il pupo palermitano è alto circa 80 cm - 1 m, pesa 8 kg, ha il ginocchio snodato e può sfoderare e rinfoderare la spada. Il peso relativamente esiguo permette al puparo un’ampia manovra: il pupo è agilissimo, ha un movimento veloce e scattante e sembra quasi saltellare sulla scena per affondare e schivare i colpi durante i duelli. I pupi vengono mossi di lato e il puparo tiene il braccio teso per raggiungere il centro della scena. Il pupo catanese è alto 1,40 m e pesa tra i 16 ed i 20 kg. Il ginocchio è rigido e la spada è sempre sguainata e pronta a sferrare colpi. I movimenti sono più posati, ampi ed enfatici, i passi e gli affondi più lenti e realistici. A Palermo l’opera dei pupi è legata ai nomi di Cuticchio, Argento, Mancuso e Sanicola che si occupano anche della realizzazione dei pupi, creature complesse che richiedono giorni e giorni di lavorazione
I primi pupari della storia usavano pupi in paggio (non armati) e rappresentavano storie siciliane. Di tutte queste opere sono arrivati a noi le farse, con i relativi personaggi di "Nofriu" e di "Virticchiu", che ancora oggi vengono rappresentate. Nello stesso periodo vivevano a Palermo i "cuntisti" che raccontavano incantevoli vicende di cavalieri e dame, santi e angeli, amori e tradimenti, duelli e battaglie. .
I primi pupari costruivano da sè guerrieri cristiani e saraceni, rifacendosi particolarmente alle pitture dello "Steri"; copiarono lo stile delle armature, creando i modelli e cominciarono a creare elmi, spade, corazze che rivestivano pupi a volte dall'aspetto fiero, spavaldo o burlesco.
Nell'Opera dei Pupi si trasmettono ancora oggi stili e comportamenti del popolo siciliano come la cavalleria, il senso dell'onore, la difesa del debole e del giusto, la priorità della fede. Le gesta dei paladini e il ciclo carolingio sono tra le tematiche trattate nei canovacci usati dai pupari, ma, anche le storie della Gerusalemme Liberata, di Santa Genoveffa, di Pia dei Tolomei, dei Beati Paoli, etc....
Carlo Magno, Gano, Orlando, Rinaldo, Angelica hanno popolato le sponde dei carretti siciliani, i cartelloni propaganda degli spettacoli serali dei teatrini, le lambrette e i carrettini di uso vario e la fantasia di noi meridionali attraverso i cunti e le farse raccontate , la sera, attorno alla tavola di ogni casa; esso si può definire il teatro delle marionette del meridione d'Italia.

Le porte di Palermo lungo i secoli


Le Porte di Palermo nel periodo punico:
1) Porta del Palazzo;
2) Porta Busuemi;
3) Porta Patitelli;
4) Porta S. Agata alla Guilla.

Le Porte di Palermo nel periodo arabo.
1) La Bab-al-bahr (Porta di mare);
2) La Bab-as- safa (Porta della salute);
3) La Bab-sciantagath (Porta di sant'Agata);
4) La Bab-ar-Rutah (Porta Rota);
5) La Bab-ar-ryad (Porta dei giardini);
6) La Bab-ibn-Quarhub;
7) La Bab-al- abna (Porta dei giovanotti);
8) La Bab-as-sudan (Porta dei negri);
9) La Bab-al-hadid (Porta di ferro);
10) La Bab-Abu al Hasan.
Le Porte della Kalsa:
1) Bab el Fotich (Porta della Vittoria);
2) Bab-ar-Kotama;
3) Bab-el-Bonud (Porta delle bandiere);
4) Bab-el-sanda (Porta dell'arsenale).

Le Porte di Palermo nel secolo X:
1) Porta del Palazzo;
2) Porta Busuemi;
3) Porta Giudaica;
4) Porta Abu-al-Hasan;
5) Porta Patitelli;
6) Porta Oscura;
7) Porta Sant'Agata alla Guilla;
8) Porta Rota;
9) Porta dei Giardini;
10) Porta Vittoria;
11) Porta dei Greci;
12) Porta Polizzi;
13) Porta dei Cordari.

Le Porte di Palermo dal secolo XI al secolo XV:
1) Porta del Palazzo;
2) Porta Busuemi;
3) Porta Giudaica;
4) Porta Abu-al-Hasan;
5) Porta Patitelli;
6) Porta Oscura;
7) Porta degli schiavi
8) Porta Sant'Agata alla Guilla;
9) Porta Rota;
10)Porta Nuova;
11) Porta dei Giardini;
12) Porta Mazzara;
13) Porta S. Agata;
14) Porta di Termini;
15) Porta Vittoria;
16) Porta dei Greci;
17) Porta Polizzi;
18) Porta dei Cordari;
19) Porta della Pescheria;
20) Porta San Giorgio;
21) Porta Carini.

Le Porte di Palermo alla fine del XVI secolo:
1) Porta Mazara;
2) Porta Sant'Agata;
3) Porta Termini;
4) Porta dei Greci;
5) Porta Felice;
6) Porta del Molo Vecchio;
7) Porta della Dogana;
8) Porta della Pescheria;
9) Porta del Carbone;
10) Porta della Calcina;
11) Porta di Piedigrotta;
12) Porta San Giorgio;
13) Porta Carini;
14) Porta Nuova.

Le Porte di Palermo dal secolo XVII al secolo XIX:
1) Porta di Castro;
2) Porta Mazara;
3) Porta Montalto;
4) Porta Sant'Agata;
5) Porta Vicari;
6) Porta Termini;
7) Porta Reale;
8) Porta dei Greci;
9) Porta Felice;
10) Porta Scaricatore;
11) Porta della Dogana;
12) Porta della Pescheria;
13) Porta del Carbone;
14) Porta della Calcina;
15) Porta di Piedigrotta;
16) Porta di Santa Rosalia;
17) Porta Maqueda;
18) Porta Carini;
19) Porta D'Ossuna;
20) Porta Nuova.

Le edicole votive a Palermo


Le edicole votive palermitane, più familiarmente chiamate "a marunnuzza" o "a santuzza", sono state, e spesso ancora sono, il centro della vita sociale di una strada o di un piccolo "bagghiu" o cortile. Antiche o nuove, sontuose o decadenti, le "marunnuzze", la cui benedizione è sempre offerta generosamente ai viandanti, "o viandante che passi per questa via, recita una prece - Viva Maria - Viva Maria", appartengono esclusivamente a coloro che abitano nei pressi.

Lo stato della cappella e il valore dell'immagine affermano, come uno "status symbol", un momento di personale gioia di colui che la cura, che la abbellisce, che la venera. La ricchezza di tradizioni popolari tramandate di generazione in generazione hanno permesso e favorito il culto delle edicole fino ai nostri giorni: testimonianza ininterrotta nei secoli di una religiosità profonda e sentita in tutte le classi sociali. L'immagine sacra è spesso dipinta direttamente sul muro, su lavagna o su legno ma, raramente, anche su vetro o tela. Qualche volta, invece, è presente una statuetta di gesso o di cartapesta oppure una antica stampa o una piastrella di ceramica. Il soggetto principale è la Santa Vergine, sotto i vari titoli che Le sono riconosciuti, ma non mancano neanche esempi di edicole il cui soggetto venerato è Santa Rosalia e gli altri santi a cui è devota la contrada.

Le immagini del Cristo sono spesso legati alla sua passione, e spesso immagini dell'"Ecce homo" e dell'Addolorata fiancheggiano gli ingressi delle chiese, ma altre volte, tante volte si venera Gesù Bambino o il Sacro Cuore di Gesù. Non si può non ricordare l'Ecce Homo" sul sagrato della chiesa di Sant'Antonio Abate in via Roma, i cui ceri devozionali fino a qualche decennio fa infiammavano quel tratto di strada e la occupavano abbondantemente.

Segno di devozione particolare, nella cappelluzza, è la santa palma benedetta, ma non mancano mai lumi accesi e fiori. Il lume acceso davanti l'immagine fu per secoli l'unica fonte di luce notturna del vicolo o del sottopassaggio, per esempio quello della "Madonna della Volta" che metteva in comunicazione il quartiere della "Conceria" (oggi Piazza Venezia) con quello dei macellai presso la Chiesa di Sant'Onofrio. Famoso è il caso dell'edicola di Porta di Termini che chiusa per tanto tempo da muri divisori si mantenne con la lampada accesa nonostante il lungo periodo di chiusura. Da sempre le luminarie arricchirono le cappelle dei santi protettori ma spesso dei grandi baldacchini decoravano e decorano la "Santuzza", particolarmente, la più antica di quelle dedicate a Santa Rosalia" che si trova in Piazza Monte di Pietà e ci ricorda la casa del saponaio Vincenzo Bonello, il "cacciatore" che ebbe la visione della "Santuzza e scatenò il grande culto per la nostra concittadina rivelando il vero nascondiglio delle reliquie che in una apparizione gli era stato rivelato. 

 Alcune edicole votive sono state erette dal Senato cittadino, quasi sempre per la scampata peste, e sono dedicate per lo più a Santa Rosalia ed all'Immacolata Concezione. Di queste, poche ne rimangono: una in Via Bosco, una in Piazza Aragona, accanto all'ingresso dell'ex bar "il cimbalino", un'altra ancora in via Coltellieri. In via dei Corrieri, nel palazzo La Lumia, si conservava, ancora qualche tempo fa, un raro esemplare di edicola contenente una pittura su vetro, mentre nell'ex quartiere ebraico, in una cappella si conservava e si venerava una maiolica con il Cristo in croce, purtroppo anche questo andato perduto. Non è semplice parlare delle edicole votive che arricchiscono la città e i dintorni, in quanto come già detto, tutte le strade ne custodiscono almeno una, ma, alcune hanno una loro storia che vale la pena di conoscere per apprezzare sempre di più la cultura e le grandi tradizioni della nostra città.

5 gen 2017

Chiesa Matrice dell'Assunta di Porta Trapani ad Erice



La Chiesa, a motivo della sua fondazione reale, ha sempre vantato il titolo di Real Duomo o Regia Matrice. ll Real Duomo di Erice venne fatto costruire da Federico d'Aragona nel XIV sec. su progetto dell'architetto Antonio Musso. Il Campanile, alto 28 metri, si articola su tre livelli e fu edificato alcuni decenni prima del tempio, quale torre di avvistamento, quando la Sicilia, estinta la dinastia Normanno-Sveva, si apprestava alla guerra dinastica tra Angioini e Aragonesi. Proprio durante la guerra del Vespro (1282-1314) Federico III d’Aragona dimorò a lungo ad Erice e fu dagli ericini protetto e aiutato, tanto che, finita vittoriosamente la guerra, il sovrano riconoscente fece costruire il bellissimo Duomo che ancora tutti ammirano. 

La chiesa risente di influssi ‘’chiaramontani’’ , dal nome della famiglia Chiaramonte, duchi di Modica. Si tratta di uno stile con decorazioni zig-zag di derivazione anglo-normanna, particolarmente diffuso in Inghilterra e Francia e nella Sicilia normanna. L’esterno mantiene le fattezze originali. L’interno è un rifacimento neo-gotico dell’800, a pianta basilicale e a tre navate, si presenta oggi nel rifacimento del 1865 (poiché il tetto crollò nel 1853). Le cappelle che marcano le navate laterali, sono state inserite successivamente all’impianto trecentesco.

La chiesa presenta una decorazione in stucco e tutto l’insieme sembra un merletto prezioso. Il tesoro della chiesa, benché depauperato nel 1992, raccoglie una delle più preziose collezioni di argenti della Sicilia. Nella cappella sulla destra, entrando, è posizionata una bellissima statua della Madonna Assunta, attribuita allo scultore dalmata Francesco Laurana che dimorò a Palermo nel 1460. La statua fu commissionata dall’arciprete Paolo Gammicchia a patto, però, che somigliasse alla Madonna di Trapani. La leggenda racconta che lo scultore realizzò un’opera talmente bella che i palermitani non vollero che uscisse dalla loro città, fu collocata nel Duomo di Palermo e venne adorata come la Madonna Libera Infermi. Al Laurana non rimase che scolpire una seconda statua destinata al duomo di Erice.

Una bella icona marmorea di Giuliano Mancino (1513) si può ammirare sul fondo dell'abside, al cui centro si trova una Madonna con Bambino; le nicchie ed i bassorilievi che l’attorniano effigiano scene della vita di Cristo. Non poteva mancare una riproduzione del XIX secolo del Quadro di Maria SS. di Custonaci, patrona principale di Erice, il cui originale è ancora conservato e venerato nel santuario omonimo di Custonaci.

L'arch. Vito Corte a proposito del principio insediativo della chiesa dell'Assunta scrive:
« la Montagna Ericina, ancora al tempo della fondazione della sua domus ecclesiae, aveva necessità di neutralizzare l’originaria ed antica attrazione pagana del tempio presso il Castello posto all’altro vertice della sommità, famoso e forte di connotazioni sacrali, però di ispirazione pagana.
A volte l’intervento di neutralizzazione avviene direttamente nel sito d’impianto del tempio pagano (come ad esempio è avvenuto per la Cattedrale di Siracusa), ed in quel caso si parla di “transignificazione” di uno spazio sacro; ad Erice invece il principio insediativo della nuova chiesa dell’Assunta ha motivato le sue ragioni non tanto con l’innesto in sito e l’espianto del carattere originario del luogo, quanto con la tecnica del contrappunto: altra tecnica compositiva.

Ovvero il raggiungimento di un risultato attraverso la disposizione nel pentagramma della percezione spazio-sensoriale di note d’accento che si com-pongano reciprocamente, al fine di ottenere un risultato articolato e ricco, ma ordinato ed intellegibile: da un lato del fronte orientale il profano con la memoria del tempio delle sacerdotesse di Afrodite e Venere e la memoria delle antiche vicende segestane, dall’altro, sul fronte occidentale, la cuspide della attualità cristiana dell’Annunziata, della Madonna di Custonaci, del messaggio evangelico verso la nuova città pedemontana: col suo porto, la sua popolazione operosa, il mare e verso l’oltremare maghrebino. Sempre ragionando di “principio insediativo” la posizione della Chiesa rispetto al tessuto urbano ed alla cinta muraria è ragionata ed è sintesi, cioè composizione, di fattori determinati da esigenze funzionali e da esigenze emozionali.

La prossimità con Porta Trapani è prova della esigenza di legarsi con la popolazione sottostante e di instaurare con essa un rapporto di affezione filiale. Il suo posizionarsi a lato della Porta, in un ambito che potesse sufficientemente dilatarsi, per accogliere anche utilizzazioni temporanee non connesse con la celebrazione ma connesse con l’attività urbana (commercio, serragli, ecc.) consente una percezione completa del manufatto ad una giusta distanza: misurata rispetto al monumento. Il piano del sagrato delimita ed accoglie, con i salti di quota ed i raccordi planoaltimetrici, quanto necessario per porre in risalto il “sistema” della Chiesa Madre, costituito dal corpo ecclesiale con il suo pronao, il campanile ed i fianchi».

La Chiesa di San Domenico e la Cappella dei Crociati



Epoca di potenza e di fiorente commercio fu per Trapani quella delle Crociate. Molti dei suoi concittadini vi presero parte, distinguendosi per coraggio e per valore.

Tasso Torquato, uno tra i maggiori poeti italiani del Cinquecento, ne "La Gerusalemme liberata", un poema epico-cavalleresco in ottave, scritto nel periodo anteriore al 1575 e riguardante la presa del Santo Sepolcro ad opera dei cristiani durante la prima Crociata del 1096-1099, a proporsito della partecipazione dei trapanesi scrive che Trapani "i suoi non cela":

E con esse inalzar l'insegne al vento
da le ruine de l'antica Gela,
da le piagge di Naia e d'Agrigento,
grande schiera, e spiegar l'ardita vela.

E Trapani, ove fu di vita spento
l'antichissimo Anchise, i suoi non cela,

ned Imera, o Palermo, invitta reggia
de' Normandi, ch'a' primi i suoi pareggia.

(Torquato Tasso, Gerusalemme conquistata, I, 69).

Nel suo porto facevan scalo le navi che veleggiavano verso la Terra Santa o che da essa facevano ritorno, portandovi ricchezza di merci.

A Trapani due chiese sono collegate, in modo diverso, alle crociate: una è la chiesa di Sant'Agostino, appartenuta ai Cavalieri Templari, che ivi avevano, attiguo, anche il loro ospizio, nel quale davano ospitalità ai crociati appartenente al loro ordine cavalleresco che si recavano e ritornavano dalla Terra Santa; l'altra è la chiesa di San Domenico, dove al suo interno si trova la cosiddetta "Cappella dei Crociati" e nella quale furono seppelliti i corpi di alcuni dei nobili e guerrieri partecipanti alla sfortunata ottava crociata, che passò da Trapani, contro il califfo Muhammad I al-Mustansir di Tunisi.

San Domenico
La chiesa di San Domenico, detta anche Cappella Reale ai tempi della dominazione spagnola, fu edificata per volere di re Giacono d'Aragona, dai padri domenicani sopra una preesistente chiesa denominata Santa Maria la Nova nel cuore della città antica, nella Piazza S. Domenico, situata nel rione S. Nicola, detto allora quartiere di mezzo, sulla parte più alta della città di Trapani.

Su un pilastro angolare della Chiesa, tempo fa, è affiorata casualmente l'immagine frammentaria di una Madonna con il bambino, che potrebbe appartenere alla primitiva cappelletta di Santa Maria La Nuova.

Nella sua Trapani Sacra del 1812, il padre agostiniano Benigno da Santa Caterina ci racconta che " il Re Giacomo di Aragona a proprie spese con regia liberalità, concesse un ampio luogo ai Padri Domenicani giunti a Trapani dalla Terra Santa nel 1230, all’oggetto di edificarvi un Convento. 
Questo luogo spazioso era nella parte più eminente del Quartiere di Mezzo, che si erge a guisa di un poggietto. Questo Convento si appellò al principio S. Maria la Nuova, appunto perché ivi esisteva un antica Cappella dedicata alla SS.ma Vergine. Volle dunque l’anzidetto Sovrano costruire detta Chiesa per sua Reale Cappella, e dotò il Convento di convenevoli entrate. Quindi venne appellato il Convento Regio, appunto, perché fondato con denaro del Regio Erario."

Addossata alla abside della Chiesa e vicino al campanile vi è la così detta Cappella dei Crociati le cui pareti sono decorate da affreschi tardo trecenteschi.

In questa chiesa, come dice l’Abbate Pirri, l’anno 1318, Manfredi Infante, figlio di Federico II Re di Sicilia, essendo morto in Trapani, elesse questa Chiesa per sua Sepoltuaria Casa, e volle che i Padri Domenicani fossero i custodi del suo corpo. Tanto appunto si legge in una lapide marmorea, affissa alla parte dell’epistola del Cappellone di detta Chiesa, sotto il Mausoleo di detto difonto colle seguenti parole:

ANNO 1318 
MANFREDUS INFANS FRIDERICI II
REGIS FILIUS, DREPANI OBIENS, HANC 
SEDEM SIBI PERENNEM DOMUS ELEGIT, 
ET FRATES NOS, NON SOLUM CORPORIS 
SUI CUSTODES, SED REGIOS CAPPELLANOS, 
CONFESSOREQUE EFFECIT

Infatti, avvenne che, trovandosi re Federico II a Marsala, il dodicenne figlio di questi, Manfredi, cadde accidentalmente da cavallo nella pianura, detta «la Rena», e morì. 
L'Università di Trapani, tosto, nel partecipare la morte al sovrano, supplicò il re perché concedesse alla salma del figlio la sepoltura nella chiesa di S. Maria La Nove, dei Padri Predicatori, in considerazione anche perché nel Tempio altri corpi reali avevano trovato sepoltura.

L’avello di questo Principe, dopo qualche tempo venne aperto, e vi si trovò il cadavere intiero con veste tutta ornata di Perle, ed il Pomo della Spada tutta d’oro massiccio.

Oltre all'infante Manfredi, sepolto in cornu Epistolae, altre persone reali si trovano pure sepolte nel cappellone della chiesa, così come dimostra la lapide del Presbiterio, collocata in cornu Evangeli:

ANNO A CRISTI DOMINI ADVENTV MCCLXX.

INCLYTIS THEOBALDO REGI NAVARRÆ, VXORIQVE ISABELLÆ, GVILELMO FLANDRÆ COMITI, AC ELISARETHÆ REGINÆ, ALIISQVE E REGIO SANGVINE PROCERIBVS: QVOD E BELLO 
TVNETANO, CONTRACTA PESTE REDEVNTES DREPANI EXTINTI, IN REGIIS TEMPLI HVIVS ÆDIBVS HVMARI DECRETAVERINT. 
IN TANTÆ REI PERENNITATEM FRATES PRÆDICATORES LAPIDEM PRO GLORIA POSVERE. QVAM JVRE CORONATI 
FIDEI ATHLETE, QVI REGVM REGI CRVCIFIXO DVCI, VEL MORTVI CONCERTARE OSSIBVS VICINITATE MEMORIA 
NON DEDIGNANTVR.

In questa Chiesa, infatti, sono stati sepolti i cadaveri di Teobaldo re di Navarra e di sua moglie Isabella, di Guglielmo Conte di Fiandra, di Elisabetta Regina, e di molti altri Principi Reali, che nell’anno 1270 con Carlo d’Angiò, re di Sicilia, durante l'VIII crociata, ritornarono da Tunisi attaccati dal contaggio e morirono in Trapani.

Da quì il nome di Cappella dei Crociati.

Santa Lucia. La chiesa, dimenticata, dei pescatori corallini



La chiesa di Santa Lucia (o Santa Maria della Catena, con riferimento alle strutture portuali ) si trova lì... in un angolo nascosto della città di Trapani, attigua all'ex Convento di S. Anna (oggi archivio di Stato, in precedenza comando della Guardia di Finanza) e fu costruita nel XIV secolo dai pescatori di corallo.

La comunità dei pescatori trapanesi, una delle più antiche della Sicilia, si divideva in due gruppi:
inizialmente i pescatori erano concentrati nel quartiere del Casalicchio (san Pietro), dove si trovava l’antica chiesa in cui allora si riunivano, Santa Maria delle Grazie presso la Porta dei Pescatori; in seguito, con l’espansione verso occidente della città e l'incremento demografico, un nucleo consistente di pescatori si addensò attorno alla chiesa di Santa Lucia costruita intorno al Trecento nel quartiere Palazzo, la zona ad ovest dell’odiema via Torre Arsa, dove sorgevano varie isolette, sui quali i trapanesi costruirono alcune case e le Nazioni marinare eressero i loro consolati. 

Questo quartiere nuovo, costruito alla fine del XIII secolo dagli Aragonesi, venne denominato «rione del Palazzo», perché, a dire dello storico Orlandini, ab antiquo sopra tre isolette sorgevano i palazzi dei Caro, dei Giordani e dei Lino. La zona terminava a ponente con la porta Eustachia (detta poi dei Cappuccini).

I pescatori del quartiere Palazzo divennero sempre più autonomi rispetto agli altri, proprio in quanto si dedicarono principalmente alla pesca del corallo, che consentiva un guadagno sicuro collegato all’incremento degli scambi commerciali di oggetti di lusso.
Il corallo non venduto sulle banchine del porto veniva ammassato nella chiesa di Santa Lucia e i compratori trapanesi e forestieri potevano scegliere e comprare tra le varie merci.

Come scrive Mario Serraino:
«I pescatori corallari erano riuniti nella Corporazione dei "Pescatori della marina piccola del palazzo", abitavano nella strada «dei Rais », oggi denominata via Corallai., e si congregavano nell’ex chiesa di santa Lucia per organizzarsi e trattare i loro problemi.

Pescarono il corallo nel mare di Trapani, presso le isole Egadi, nei pressi di Bonagia, Cofano, San Vito Lo Capo e Castellammare del Golfo, ma più tardi si spinsero a Tabarka (Tunisia), nei pressi delle isole Gaiìte (Cartagine), nel mare di Lipari, di Sardegna e della Dalmazia, intrepidi nell’affrontare non solo i pericoli del mare ma anche quelli derivanti dalla presenza delle navi corsare o barbaresche.

Le società dei pescatori di corallo venivano costituite tra i proprietari delle barche (ligudelli) e degli attrezzi e i componenti la ciurma, che erano cinque o sei uomini se la pesca avveniva nella lontana località di Tabarka, due o tre per la pesca nei mari più vicini. 

Per la campagna della pesca, annualmente partivano nella prima decade del mese di maggio e ritornavano nel mese di settembre successivo con le loro barche (coralline o ligudelli), stracolme del prezioso prodotto pescato. Tornati dalla pesca, i nostri allineavano le loro piccole barche nella rada di ponente e nel tratto che da porta Serisso conduceva al forte di san Francesco, e qui sbarcavano il prezioso carico, attesi dai mercanti, che lo acquistavano per rivenderlo ai fabbricatori e agli artisti».

In occasione della scoperta di nuovi banchi corallini nelle isole del trapanese, che diede nuovo impulso a quest'attività, i pescatori vollero ricordare questo evento come un dono ricevuto dalla divinità, un dono così grande che gli autori del rinvenimento reputarono necessario fissarne la memoria per gli altri pescatori e per tutta la cittadinanza, su due lapidi, datate rispettivamente al 1651 e al 1673, un tempo esposte nella parete esterna della chiesa di Santa Lucia, ed oggi una si trova murata nell'atrio della Biblioteca Fardelliana.

Nella chiesa di S. Lucia veniva, tra l’altro, ammassato tutto il ricavato della pesca di corallo, non soltanto delle barche trapanesi, ma anche quello delle barche algerine, genovesi e di Torre del Greco. Nella chiesa si offrivano le massime garanzie per i depositari e per gli acquirenti stessi, i quali potevano a loro piacimento scegliere le qualità più adatte ai lavori loro commessi, sia per ciò che concerneva il colore, sia per quanto era relativo alla consistenza del corallo stesso.

Nel chiesa faceva bella mostra di sé il pavimento maiolicato, oggi conservato al Museo Pepoli, raffigurante alcune scene della pesca del tonno. Il coronamento del portale è costituito da uno stemma. Nello stemma che risulta sormontato da una grande corona si trova colloca l’iscrizione dedicatoria a santa Lucia:

LVCIAE / VIRGINI ET MARTIRI / DIVAE TUTELARI / PISCATORES MDCLXXV.

La chiesa, tuttora esistente, è stata chiusa al culto nel 1945.