26 feb 2017

L'ISOLA DI MOZIA: Uno dei siti archeologici più importanti al mondo



La piccola isola di San Pantaleo, al centro della Laguna dello Stagnone, fu scelta dai Fenici per la sua posizione strategica,trovandosi nel punto di transito obbligato per le rotte commerciali verso la Spagna,la Sardegna e l’Italia.
Nell’VIII sec. aC. questo piccolo angolo di paradiso divenne una delle colonie fenicie più importanti del Mediterraneo.
La sua scoperta si deve ad uno studioso inglese appassionato di archeologia, Joseph Whitaker.

Alla fine dell’Ottocento Joseph Whitaker , nipote di Benjamin Whitaker si trovò a trascorrere un periodo a Marsala presso gli stabilimenti vinicoli dello zio. Durante questa permanenza il giovane ebbe modo di visitare l’isola di San Pantaleo e di rilevare il suo enorme valore archeologico.

Acquistata l’isola , dal 1906 al 1927, vennero eseguiti una serie di scavi sistematici che riportarono alla luce la necropoli arcaica, la Casa dei Mosaici, la Casa delle Anfore, alcuni tratti della cinta muraria, un santuario fenicio-punico nella zona di Cappiddazzu e il Tofet. Oggi la casa sull’isola è un Museo gestito dalla Fondazione Whitaker ,la cui sede si trova a Palermo. Nel Museo che ospita il famoso Giovane di Mozia, rinvenuto il 26 ottobre del 1979, nei pressi della zona chiamata “zona K” adiacente al Santuario di Cappiddazzu, si trovano ,corredi funebri, anfore commerciali, greche, fenicie ed etrusche, una collezione di vasi a vernice nera e figure rosse della necropoli di Birgi, materiali provenienti dal Tofet, dall’abitato di Mozia e dalla Casa dei Mosaici. Ma anche gioielli e amuleti, armi e oggetti e strumenti d’uso cosmetico o chirurgico, oltre che frammenti di stele iscritte, provenienti dalla necropoli di Lilibeo.

IL GIOVANE DI MOZIA

Molti studiosi fanno risalire l’opera al V secolo a.CIl Giovane auriga, dal corpo atletico e vigoroso, sembra nel gesto di condurre il carro vittorioso ma alcune ipotesi alternative fanno pensare ad un sacerdote , ad un tiranno o ad una divinità. La statua in marmo doveva raggiungere l’altezza di circa due metri ed è di probabile committenza punica ma attribuita ad un artista greco. La presenza in Sicilia dei Greci, con cui i Fenici avevano scambi commerciali ma anche contatti non sempre amichevoli, causò guerre che con alterne vicende provocarono infine la distruzione di Mozia ad opera di Dionisio di Siracusa nel 397a.C. Da allora i superstiti si trasferirono sulla costa siciliana, fondando la città di Marsala. Mozia si trova al centro della Riserva naturale dello Stagnone di Marsala.





Come arrivare

In auto

Da Trapani si percorre la suggestiva Via del Sale

Da Marsala: percorrere la strada provinciale Marsala – Trapani fino alla fine delle saline, a 6 Km dalla città.

Girare a sinistra lungo la litoranea, seguendo la costa per circa 3,5 Km.

In Treno: da Trapani per Marsala, si scende alla stazione di Spagnola e poi si raggiunge a piedi l’ imbarcadero per Mozia, distante 3 Km.

In autobus: a Piazza del Popolo, a Marsala, fanno capolinea gli autobus che collegano la città all’imbarcadero per Mozia.

Per raggiunge l’isola basta recarsi all’imbarcadero di San Teodoro. (tragitto 10minuti )



Per compiere il periplo dell’isola sono necessari dai 30 ai 40 minuti.




1 Museo Giuseppe Whitaker

2 Abitato ZONA A Casa delle anfore

3 Tofet

4 Necropoli

5, 16 Zona industriale

6 Santuario di Cappiddazzu

7, 8 Porta Nord- Strada marina

9 Torre orientale con scala

10 Fortificazioni

11 Abitato Casa dei mosaici

12 Casermeta

13, 14 Porta sud Kothon

15 Luogo di rinvenimento della statua Giovinetto di Mozia

17 Abitato Zona centrale

18 Abitato Zona D

19 Abitato Zona B

20 Zona F Porta di Nord ovest e annessi

21 Tempio del Kothon

22 Abitato Zona E

(da http://www.turismotrapani.net)

8 COSE DA FARE ALLE ISOLE EGADI



A largo delle coste di Trapani e Marsala si trova il piccolo arcipelago delle Egadi, formato dalle isole di Favignana, Marettimo, Levanzo e un’altra serie di isolotti disabitati (Formica, Maraone, Stagnone e Galeotta). Dal punto di vista amministrativo l’intero arcipelago fa capo al comune di Favignana che conta in tutto poco più di 4000 abitanti. Solo qualche migliaio di residenti che però hanno il privilegio assoluto di vivere in un contesto ambientale con pochi eguali al mondo. Un mare cristallino, una natura generosa e uno stile di vita tipicamente mediterraneo che qui, rispetto ad altre località dell’Italia meridionale, è qualcosa di più che un semplice e abusato luogo comune turistico. Non è un caso che quella delle Egadi sia l’Area Marina Protetta più grande d’Europa; come non è un caso che l’ex stabilimento Florio, a Favignana, sia il Museo del Mare più grande d’Italia, simbolo imperituro del riscatto socio-economico degli abitanti dell’isola che anni addietro, prima del turismo, trovarono nell’industria conserviera del tonno la “chiave” per superare condizioni di vita disagiate e rese ancor più difficili dal dato dell’insularità. Non è finita, perché poi ci sono le decorazioni parietali della Grotta del Genovese a Levanzo, i sentieri di Marettimo, le immersioni, le spiagge, le cale, il cibo e tutte le opportunità di relax e svago che un arcipelago come questo è in grado di offrire. Di seguito le nostre “dritte” per una vacanza da sogno alle Egadi.

1. Stabilimento Florio
Per comprendere a pieno il passato recente di Favignana e delle isole Egadi, è d’obbligo una visita all’ex Stabilimento Florio. C’è chi, a ragione, ha definito quest’area un gioiello di archeologia industriale. Qui, infatti, venivano conservate le attrezzature e le imbarcazioni impiegate nella mattanza dei tonni; e sempre qui avveniva l’inscatolamento delle carni. L’industria conserviera del tonno è andata avanti per oltre un secolo, dal 1859, anni in cui il genovese Giulio Drago cominciò l’attività, fino agli anni ’70 del secolo scorso quando il mercato premiò altre zone e tecniche di lavorazione. In mezzo, l’epopea della famiglia Florio, vera artefice della riconversione industriale della mattanza e protagonista dei primi e decisivi investimenti infrastrutturali. Per decenni, dopo la cessazione delle attività, lo stabilimento ha vissuto fasi di progressivo declino e abbandono, finché la Regione Sicilia, con uno sforzo economico notevole, si è fatta carico della ristrutturazione dell’area trasformandola in un gigantesco Museo del Mare. Addirittura, il più grande d’Europa.

2.I giardini ipogei
Insieme alla pesca, l’altra storica attività degli abitanti di Favignana è sempre stata l’estrazione del tufo. Che poi non si tratta di tufo ma di calcarenite, materiale litico di largo uso in edilizia e molto diffuso in tutta la Sicilia Occidentale. Per dire, il Duomo di Monreale, dal 2015 Patrimonio Unesco, è quasi interamente costruito con il “tufo” favignanese. Gli effetti di questa secolare attività estrattiva sono molto evidenti in tutta l’isola. Infatti, le cave a Favignana sono dappertutto, anche in pieno centro storico solo che gli isolani, una volta terminata l’attività estrattiva, hanno pensato bene di riadattare questi ambienti in orti e frutteti. In altri termini, i favignanesi sono riusciti a trasformare un potenziale scempio in una delle principali attrazioni dell’isola. Il “Giardino dell’Impossibile” in contrada Bue Marino, è senza dubbio la testimonianza più bella della riconversione “green” delle cave di calcarenite. Il merito, ovviamente, è della proprietaria Maria Gabriella Campo, che è riuscita, con caparbietà, a ricavare un orto botanico di grande interesse naturalistico.

3.Le spiagge di Favignana
Rispetto a Levanzo e Marettimo, le coste di Favignana sono meno frastagliate. Soprattutto, nella maggior parte dei casi sono raggiungibili da terra, ed è uno dei motivi alla base del primato turistico dell’isola. Cala Azzurra, Praia, Lido Burrone (l’unica spiaggia attrezzata di Favignana), Marasolo sono le principali spiagge di sabbia; affianco a queste, numerose altre insenature e cale rocciose (solo per dirne alcune: Cala Graziosa, Preveto-Pirreca,Cala Rotonda, Cala del Pozzo) dove è possibile fare il bagno in tutta tranquillità. Menzione a parte per Cala Rossa (vd. foto), presente in molte liste in giro per il web con le spiagge e le insenature più belle d’Italia. Volendo, Cala Rossa è raggiungibile a piedi, ma è un opzione senz’altro da sconsigliare alle famiglie con figli al seguito. Per il resto non ci sono altre controindicazioni: il mare è cristallino e la natura la fa da padrona. Meraviglie di Favignana.

4.Il Castello di Santa Caterina
Secondo la storiografia locale il Castello di Santa Caterina, sulla sommità del monte omonimo (314 m.s.l.m.), originariamente faceva parte di un trittico di torri di avvistamento realizzato dai Saraceni al tempo della loro dominazione su Favignana (anno 810). La circostanza spiegherebbe anche perché il gonfalone dell’isola rappresenta tre torri e un rapace. Quest’ultimo, simbolo del nemico proveniente dal mare dai cui attacchi ci si doveva appunto difendere. Quel che è certo, il Castello di Favignana è stato testimone delle diverse dominazioni che hanno interessato l’isola e la Sicilia. I Normanni, gli Angioini, gli Aragonesi e i Borbone sono tutti passati di qui, provvedendo ogni volta alla ristrutturazione della fortezza per i loro scopi. Con i Borbone, il Castello venne trasformato in luogo di detenzione per i cospiratori del Regno delle Due Sicilie. Una violenta rivolta carceraria nel 1860 causò la distruzione di gran parte della fortezza compresa la cappella intitolata alla santa. Durante la seconda guerra mondiale il Castello divenne avamposto difensivo della Marina militare che per anni, anche dopo la fine del conflitto, ha presidiato la zona con un proprio guardiano. Dalla fine degli anni ’50 del secolo scorso, però, il Castello di Santa Caterina versa in stato di abbandono, con l’inevitabile perdita di quasi tutte le tracce architettoniche attestanti le diverse epoche e dominazioni. Resta il panorama superbo, motivo per il quale molti turisti affrontano l’impegnativa salita per arrivare fin quassù. Occhio a non dimenticare smartphone e macchina fotografica. La vista è stupenda e merita senz’altro di esser immortalata.

5.Grotta del Genovese
Le più grandi scoperte avvengono quasi sempre per caso. La Grotta del Genovese, a Levanzo, non fa eccezione. La più ricca eredità italiana di espressività figurata preistorica fu scoperta da tale Francesca Minellono, pittrice di Firenze in vacanza alle Egadi. Nel 1949, la donna si spinse dentro un anfratto in cui si diceva vi fossero degli antichi dipinti. Un passaparola alimentato dai cacciatori di Levanzo e che però fino a quel momento non aveva suscitato alcuna curiosità scientifica. E invece nel retro di questa grotta del versante nord-occidentale dell’isola, la Minellono rinvenne oltre trenta incisioni parietali e un centinaio di dipinti che, in seguito, grazie all’interessamento di archeologi e studiosi, vennero fatti risalire al tardo Paleotico (11-12.000 anni fa). Come tessere di un mosaico, i reperti della Grotta del Genovese si sono rivelati fondamentali per una più dettagliata conoscenza della storia evolutiva dell’uomo che nel Paleolitico Superiore dovette fronteggiare una serie di cambiamenti climatici che contribuirono in maniera decisiva a modificare abitudini e stili di vita. Non più solo cacciatori, ma anche allevatori e pescatori di molluschi. Cambiamenti che trovano riscontro nei soggetti e nelle scene raffigurate: cervi, tori, buoi, asini e rituali con ogni probabilità associati al culto della Madre Terra.

6. Mare e diving a Levanzo
L’Area Marina Protetta Isole Egadi è un paradiso per gli appassionati di diving. Levanzo in particolar modo. La parete del Faro; l’orlo del Genovese; il Faraglione; la secca di Punta Pesce e le altre qui non menzionate, sono tutte immersioni bellissime da fare in ragione del grado di preparazione e tipo di brevetto. Tra Cala Minnola e Punta Alterella, tra i 27 e i 30 metri di profondità, c’è un relitto di epoca romana con anfore e altro vasellame di ceramica. Un’immersione assai gradita dai subacquei ricreativi che frequentano Levanzo e le Egadi. Per il resto, la costa dell’isola è assai frastagliata e il modo più pratico di conoscere le insenature e le calette rocciose di Levanzo è in barca. Volendo, la già citata Cala Minnola (vd. foto), insieme a Cala Fredda, sono raggiungibili anche a piedi.

7. Castello di Marettimo
A differenza della fortezza di Favignana, che persiste nella condizione di rudere, il Castello di Marettimo è stato ristrutturato di recente. Ubicato sulla vetta del promontorio di Punta Troia, è raggiungibile da un sentiero realizzato dal Corpo Forestale dello Stato. Una strada sterrata che pur non presentando grosse difficoltà non è di certo adatta ai bambini più piccoli. Ciò detto, si tratta di un’altra tappa obbligata per chi viene in vacanza alle Egadi. Il panorama è meraviglioso e, all’interno della struttura, censita dal FAI tra i “luoghi del cuore“, ci sono un piccolo Museo delle Carceri (i Borbone trasformarono la struttura in luogo di pena) e, soprattutto, l’Osservatorio della Foca Monaca dell’AMP delle isole Egadi. Per il resto, vale quanto detto in precedenza per il Castello di Favignana: guai a dimenticare la macchina fotografica!

8. Mare e montagna a Marettimo
Se Levanzo è l’ideale per gli amanti del diving, Marettimo lo è per le escursioni. L’isola più montuosa dell’arcipelago delle Egadi offre ai visitatori diversi percorsi e, soprattutto, una vegetazione straripante con più di 500 specie di piante, tra cui alcune rarissime. Oltre al Castello di Punta Troia, di cui abbiamo già parlato, gli altri itinerari sono: Punta Basano; le Case Romane (vd.foto); Punta Libeccio; Semaforo e Cala Bianca. Senza dimenticare, naturalmente, Monte Falcone, coi suoi 686 metri sul livello del mare la vetta più alta di tutta l’isola. Insomma, se decidi di venire in vacanza alle Egadi, insieme a costumi e tutto l’occorrente per il mare, non dimenticare di mettere in valigia scarpe e abbigliamento tecnico per il trekking. Non rimarrai deluso. Quanto alle spiagge, Marettimo è una via di mezzo tra la più accessibile Favignana e la più rocciosa Levanzo. Segnaliamo, tra le altre: Scalo Vecchio e Scalo Nuovo, ai due lati del porto; la spiaggia del Cimitero e quella del Cretazzo. Menzione a parte per Cala Nera, con ogni probabilità la spiaggia più bella di tutta l’isola. A differenza delle altre, però, Cala Nera è raggiungibile solo in barca. Un’esperienza, anche questa, senz’altro da provare.

(da http://www.cosafarei.it)

Idee per un viaggio indimenticabile in Sicilia



Per luce, geografia e testimonianze storiche la Sicilia è la regione più preziosa d’Italia assieme alla Toscana. Le contaminazioni culturali dell’isola più grande e speciale del Mediterraneo – che trovano espressione nella cucina, nell’arte e nell’architettura – si sovrappongono a primordiali paesaggi contesi tra fertili terreni ricchi di prodotti autoctoni, picchi di duemila metri che sfiorano il cielo, una frastagliata costa bagnata da acque pulite e luminose ed un conico e focoso gigante nero che domina la città di Catania osservando, immobile e imponente, il Mar Ionio.

La bellezza è un punto fermo; il variopinto caos nei grandi centri urbani anche ma nell’entroterra le atmosfere di una volta resistono all’avvento della modernità e di spiagge rimosse dalla pazza folla ce ne sono ancora parecchie. Il rovescio della medaglia sono i luoghi segnati da profonde e dolorose cicatrici e amministrazioni spesso non all’altezza del patrimonio artistico, ma ciò non toglie che la Sicilia è - e sempre sarà - uno dei viaggi da fare almeno una volta nella vita.

Riflessi aurei e Patrimoni dell’Umanità

L’atterraggio a Punta Raisi è spesso da brividi ed è sempre difficile restare indifferenti quando l’autostrada lambisce Capaci. Palermo invece è un esplosione di colori, storie, contraddizioni e allegria e le sontuose eredità Arabo-Normanne aggiungono una dimensione meravigliosamente onirica al capoluogo siciliano. Visitate la Cattedrale di Palermo, la Chiesa di San Cataldo e quella degli Eremiti, la Zisa e sognate ad occhi aperti tra i riflessi aurei della Cappella Palatina. Altrettanto imperdibile è il Duomo di Monreale mentre la Vucciria – un buon posto dove assaggiare le panelle e lo streetfood palermitano – è un pò giù di corda ma sempre e comunque una tappa obbligata.

Da Cefalù a Randazzo

Tornati a valle con l’anima rasserenata dal Parco delle Madonie le tappe da mettere in’agenda sono Santa Flavia, Cefalù e proseguendo verso oriente, il borgo medioevale di Randazzo. Costruito s’un preistorico ciglione lavico eroso della acque dell’Alcantara, Randazzo – abitato sin dai tempi dei Romani - era un’importante snodo strategico da cui sono passati greci, romani, bizantini, arabi, ebrei, normanni e aragonesi. Un magico microcosmo della storia siciliana ai piedi del vulcano attivo più alto d’Europa. 

Il Cretto di Burri

Dopo aver trascorso qualche ora nella Valle dei Templi – uno delle grandi meraviglie della Sicilia – proseguite in direzione Sciacca e da lì nell’entroterra fino a raggiungere il punto in cui sorgeva la città vecchia di Gibellina distrutta dal terremoto del Belice nel 1968. Perché il mondo non dimenticasse la tragedia, il grande artista Alberto Burri cementificò le macerie creando – tra il 1984 e il 1989 - un potente esempio di “Landscape Art” conosciuta come il “Grande Cretto”. L’opera di 8000 metri quadrati è stata completata solo nell’Ottobre 2015 e si presenta come una serie di monumentali e metafisiche fratture di cemento s’un terreno piagato dal dolore della perdita. Imperdibile e struggente.

Presidi e prodotti di terra e mare

Il focus di un grand tour siciliano può anche riguardare la gastronomia per un viaggio alla scoperta di prodotti di rara bontà. Oltre alla selezione ittica della tonnara di Marzameni ed i famosi pistacchi di Bronte, la lunga serie di eccellenze – molte delle quali divenute Presidi Slow Food che si occupa della loro tutela - includono la cioccolata e la fava cottoia di Modica, la fragolina di Sciacca e Ribera, la cipolla di Giarratana, l’aglio rosso di Nubia, l’albicocca di Scillato, il carciofo spinoso di Menfi, la mandorla di Noto (dove le granite non hanno rivali), la Masculina da Magghia e i gamberi rossi di Mazzara del Vallo. Tutti esempi di come il cibo sia innanzitutto tradizione, cultura e rispetto del territorio.

Da Goethe alla ressa

Era la culla di un turismo elitario e sofisticato e il punto d’incontro tra trasgressione e dolce vita. Di lei hanno scritto e si sono innamorati Goethe, Maupassant, Nietzesche e il Re d’Inghilterra Edoardo VII. Inevitabile dunque, data la bellezza e lo stile di vita proposto, che Taormina diventasse una destinazione di fama internazionale. Se non l’avete ancora vista snobbarla è reato ma l’importante è arrivare preparati alla battaglia con flotte di turisti in infradito e canotte e cercare di non intristirsi al cospetto degli infiniti negozietti di souvenir. Per il resto Taormina è – per luce, cromie e posizione - assolutamente straordinaria ed oltre all’Isola Bella, Castelmola e l’affascinante storia scandita dal susseguirsi di civiltà antiche seguite dai diktat dei tiranni di Siracusa passando per il dominio arabo, svevo e francese fino al ritorno dei Borboni, lo spettacolo che si cristallizza nella memoria è la visita al teatro greco con panorami sul mare e sull’Etna.

Fuoco, neve, mare e lava

Altra destinazione scontata ma non per questo da tralasciare. L’ascesa verso la sommità dell’Etna, magari passando per il Parco dei Nebrodi, è uno dei grandi spettacoli della Sicilia. La strada - tortuosa ma ampia e scorrevole - costeggia castagni, radure marziane e cumuli di lava sparati dal vulcano a velocità supersoniche. Il paesaggio, con il blu intenso del mare contrapposto al nero lavico, è uno straordinario affresco naturale che assume connotati da vari pianeti del sistema solare nel punto in cui la funivia trasporta i visitatori a due ore di cammino dalla vetta. Al cratere principale è vietato avvicinarsi ma le guide locali organizzano escursioni – vento permettendo - lungo il crinale e alla scoperta dei fumanti crateri “a bottone”.

Gioielli Barocchi

Fastosi simboli della ricchezza e del potere ecclesiastico, le testimonianze del barocco siciliano spaziano da Acireale a Noto passando per Catania. Distrutta da un terremoto e riportata all’antico splendore dopo un lungo restauro, la città di Noto - situata a pochi minuti di auto dalla riserva di Vendicari e Patrimonio dell’Umanità Unesco – alterna sontuosi palazzi nobiliari costruiti con pietre dalle tonalità dorate delicatamente intarsiate, chiese, cattedrali, monumentali piazze e scenografiche scalinate all’interno di una planimetria unica nel suo genere. Dopo aver esplorato il centro storico fermatevi al Caffè Sicilia per bere una delle migliori granite di mandorle dell’isola.

calamosche 

Aprire il portone di casa e tuffarsi in un mare trasparente e rinfrescante tra edifici barocchi ed eredità greche e bizantine. Fondata nel 733 A.C dai Corinzi e patria di artisti, filosofi e scienziati, Siracusa è di una bellezza abbagliante ed il punto di partenza ideale per scoprire la Val di Noto, Marzamemi e Porto Palo di Capo Passero. All’interno e adiacente al centro storico di Ortigia - da visitare al crepuscolo quando i palazzi bianchi si tingono di riflessi rosati - i siti da non perdere sono il Duomo e Via Minerva, la Chiesa di San Giovanni alle Catacombe, il Tempio di Apollo, il Teatro Greco e l’Anfiteatro romano.

Notti siciliane

Ville d’epoca con vista Valle dei Templi, oasi di quiete e silenzio dalle atmosfere mistiche e rigorose ed intime locande di charme ricavate all’interno di gloriosi palazzi storici. Tra i tanti meravigliosi indirizzi dove dormire in Sicilia come non iniziare con Villa Igea a Palermo per poi proseguire con l’onirico San Domenico di Taormina e parte della collezione The Leading Hotels of the World. Altro posto strabiliante è l’Hotel Villa Athena ad Agrigento dove le camere osservano i luoghi di culto dorici del periodo ellenico. Per riposare nel cuore del barocco c’è Seven Rooms Villadorata a Noto mentre i Monaci delle Terre Nere è ideale per le escursioni sull’Etna. Donna Coraly Resort è invece un’affascinante struttura immersa nel verde nei pressi di Siracusa e Le Lumie equivale ad un salto indietro nel tempo nel cuore di Modica. 

Di spiagge e storia

Esplorare l’arte e l’architettura di affascinanti località come Ragusa Ibla, Scicli, Gangi e Modica e poi trovare refrigerio nelle tante località balneari dell’isola è uno dei grandi valori aggiunti del viaggio in Sicilia; regione dove il bagno è una possibilità per circa otto mesi l’anno. Senza considerare le Isole Eolie ed Egadi, alcune delle tante spiagge da non perdere si trovano all’interno della Riserva dello Zingaro e della Riserva di Capo Gallo in provincia di Palermo. Altra tappa niente male è Cala Mosche nella Riserva di Vendicari ed anche i faraglioni davanti ad Aci Trezza e Aci Castello meritano decisamente una visita. 

Alta cucina e tradizione

Sapori schietti, contrasti agrodolci, avanguardia, ricerca e ricette di casa tramandate di generazione in generazione. Per assaggiare il meglio della Sicilia non dovete far altro che recarvi in alcuni di questi indirizzi: Ciccio Sultano e la Locanda di Don Serafino a Ragusa Ibla, la Locanda del Colonnello e l’Antica Dolceria Boanjuto a Modica, La Madia di Pino Cuttaia a Licata, le trattorie di pesce a Mondello come il Simpathy, il mercato di Ballarò a Palermo, la Gazza Ladra a Siracusa, i Pupi a Bagheria (prima di cena visitate Palazzo Val Guarnera ndr) e la Pasticceria Irrera di Messina famosa per cannoli e cassate.

Sulle orme della Targa Florio

Ripercorrete le tappe della celebre e pericolosissima corsa automobilistica dominata da Porsche in undici occasioni nel selvaggio e arcaico Parco delle Madonie dominata. Qui, nei villaggi di Petralia Sottana, Castelbuono. Collesano e Cerda, il tempo sembra essersi arenato a metà del secolo scorso quando i bolidi della Targa Florio guidavano a tutta velocità su strade a strapiombo e asfalti straziati. La qualità del percorso non è migliorata più di tanto ma i primordiali panorami di campagna, cielo e mare, le foreste di gelsi e la dolcezza e i profumi dell’aria ripagano di ogni sforzo.

(da http://www.huffingtonpost.it)

Mangiare a Trapani: I sapori della Sicilia, gusti multietnici



Trapani, terra sospesa tra due mari e cento anime diverse, estrema punta della Sicilia benedetta dai numi del mangiare bene che qui si accaparrarono il meglio tra campi e onde. Creando ricette che magari citano piatti già mangiati altrove. Ma che quaggiù diventano speciali. E c’è un motive per cui mangiare a Trapani i sapori della Sicilia significa fare un viaggio. Perchè qui sono tante le popolazioni che si sono fermate, che l’hanno colonizzata. E, da questo punto di vista, arricchita. Così il cuscus è ovviamente un lascito arabo come la cassata, il pesto è traccia dei marinai genovesi che buttavano le ancore in porto ritornando dall’Oriente. Ma anche gli spagnoli, per esempio, hanno fatto la loro parte insegnando lo scapece. E ancora, andando indietro nel tempo, le olive e l’origano le concessero in eredità i Greci. E pure i Fenici, solitamente bistrattati dalle nostre parti ovviamente filo-romane, ci fecero un bel dono: con la tecnica delle tonnare e la “coltivazione” del sale.

Insomma, mangiare a Trapani i sapori della Sicilia vuol dire fare una esperienza multietnica”. E da un luogo che è estrema frontiera sul blu, ultimo balcone sporto su quel mare che presuntuosamente chiamiamo “Nostro” – ma che fu di tanti – non ci si potrebbe aspettare migliore lezione.
Una lezione da ripassare camminando e respirando i profumi che filtrano dalle finestre del centro. Che per prendere il tempo alla città occorre proprio partire dalle strade acciottolate di questa fetta di terra protesa a tagliare le acque – Drepanum, l’antico nome latino, significa proprio “falce” – dove da un lato comoda sabbia invita al tuffo sotto l’ombra dei bastioni spagnoli mentre dall’altro si accalcano ciclopiche navi da crociera e aliscafi. In mezzo, lento e in apparenza sonnacchioso, batte un cuore barocco di pietra e tufo. Qui è bello perdersi nei vicoli che sbucano poi nei viali orgogliosi dei palazzi sbrecciati e delle chiese austere mentre, poco più in la, la gente fa la coda per il pesce. Che più che fresco è vivo. Una consuetudine che si spiega anche con la piacevolezza delle ricette: che spremono tutta la ricchezza del mare più povero.
Nelle case ancora oggi si mangia pesce almeno cinque volte alla settimana. “E in alcune anche tutti i giorni», spiegano al mercato raccontando che le preparazioni più comuni, quelle a cui i trapanesi sono più legati, sono spesso quelle a base di pesce azzurro, del pescato a basso costo. La pasta con le sarde e il finocchietto, le sarde «allinguate», i pescetti fritti per accompagnare la pasta all’aglio: l’offerta è grande. E il sapore pure. Anche se lo scontrino del mercato, alla fine, non fa male.

Ma c’è anche chi osa di più: e per spiegare cosa significhi mangiare a Trapani i sapori della Sicilia tira in ballo quasi la filosofia: “Per capire la nostra cultura gastronomica pensiamo all’arte, in particolare ai carretti siciliani: si tratta di poche assi di abete che di per sè non valgono nulla. Ma che dopo essere state lavorate e colorate diventano pezzi unici e preziosi. La stessa cosa accade in cucina: le materia prime sono magari umili: ma manipolate attentamente e trattate con cura danno vita a preparazioni irresistibili e speciali”.
Mangiare a Trapani i sapori della Sicilia: il cuscus

Semola e carretti, zuppa e assi di legno: detto così paiono mondi lontani ma in fondo non sono altro che volti diversi di una cultura fiera e antica, stratificata e arricchita dal fatto che con le onde sono arrivate lingue e saperi diversi. Ma che soprattutto deve dire grazie a terra e mare che, bontà loro, sono sfacciatamente generosi. Al punto che un piatto mitico e in apparenza banale come il cuscus tutto congiura per renderlo speciale: l’incocciatura della semola, la cottura e soprattutto l’aggiunta del brodo di pesce. E poi, ultimo elemento, la mano di chi lo prepara. Che diventa l‘ingrediente segreto. Tanto che – anche questa è certificata vox populi – pare impossibile trovare due cuscus uguali in città. Potete immaginare quante differenze si possano scoprire andando ad assaggiarlo pochi chilometri più in la.

Magari a Erice, che dall’alto della roccia sembra proteggere Trapani dalle bizze delle onde, o a San Vito Lo Capo dove al cuscus dedicano ogni anno a settembre addirittura un festival. E, pare ovvio, anche questo è multietnico così come arrivavano da lontano le genti sulle navi. Come i pescatori che ancora oggi è facile incontrare seduti a terra nei fondaci delle vecchie case di via Corallai mentre districano le reti prima di uscire al largo. Per fare inciampare in una muraglia di corda la galoppata guizzante dei tonni. I locali re dei tre mari. Si, tre, non due.
Mangiare a Trapani i sapori della Sicilia: i tre mari

Per incontrarli basta percorrere la strada che in pochi minuti porta dall’aeroporto al centro sfiorando la geometrica scansione delle saline. Vista dall’alto sembrano un quadro di Mondrian. Ma senza colori: solo declinato in tutti i bianchi possibili. Qui, 3000 anni fa i Fenici impararono che la vampa del sole sa creare piccoli diamanti evaporando il mare. Il vento poi soffiando sui mulini dava la forza per spezzare i cristalli e farli arrivare sulle tavole. Ora, è ovvio, quelle saline non sono più quella fonte di favolosa ricchezza che furono ai tempi dei mitici navigatori del Mediterraneo ma regalano ancora sapore. Mentre i colori si miscelano poco lontano dove il blu del mare diventa il bianco del sale per poi sfumare nel rosso del prelibato aglio di Nubia. Che a sua volta si inchina al giallo del melone di Paceco. Una tavolozza che non riguarda solo quelli vengono a mangiare a Trapani i sapori della Sicilia.

Dal 2005 l’arrivo dell’America’s Cup ha regalato a Trapani nuova visibilità nel mondo e un rinnovato entusiasmo. La quinta naturale delle case di pescatori è stata così rimessa a nuovo, piccoli locali e aggraziati bed and breakfast sono spuntati a riempire di chiacchiere forestiere il silenzio dei vicoli, musica e divanetti di tendenza hanno arricchito lo struscio dei ragazzi nelle sere d’estate. Fino all’arrivo di nuovi voli low cost che hanno fatto nascere un turismo prima solo sognato.
Eppure basta poi avere la fortuna di essere tra queste strade nella settimana di Pasqua per capire che nessun moderno volo senza fronzoli o nessun lounge bar potrà incidere la vera anima della città e di quest’isola che regala sempre emozioni. Che in quei giorni scende in piazza per la Processione dei Misteri. E dietro le venti statue di legno, portate a braccia dai massari con le casacche scure, da 400 anni sfilano tutti. Per un rito che racconta la Passione ma soprattutto un pezzo profondo dell’animo siciliano. Lo stesso spirito che si ritrova passeggiando in certi scorci del centro, dove i panni sono ancora stesi come un festone e dove la lenta cantilena del dialetto rimbalza dalle finestre. E dove viene naturale cercare l’ombra nelle giornate di sole prima di inseguire la salvezza di una granite da gustare tra le vecchie case.

Il centro della città infatti nonostante tutto continua ad offrirsi come un piatto barocco da assaporare adagio, un fondale di pietra chiara che di colpo emerge dall‘acqua. Per coglierlo appieno percorrete nell’ora arancione del calare del sole il viale delle Sirene o arrampicatevi sulle mura di Tramontana. Già i nomi dei luoghi sembreranno sussurrarvi antiche favole di marinai e racconti di mareggiate feroci ma sarà lo spettacolo del tramonto poi a regalarvi l’emozione che non si scorda. Da qui, magari facendovi accompagnare dalla suadente dolcezza di un bicchiere di zibibbo è facile lasciarsi andare e perdersi nel gioco dei colori. In primo piano la Torre di Ligny, appollaiata sull’ultima zolla di terra e poi oltre, in appena sfuocate, le siluette già in distanza di Favignana e delle altre isole.
In quel momento, prima che cali la sera, in un lampo capirete cosa significa vivere dove la terra definitivamente finisce. E dove inizia il blu.

(di Luca Pelagatti, da /www.travelfar.it)

Notizie storiche sulle origini del porto di Trapani



L'approdo di Drepana (Trapani) era frequentato ed inserito «nel complesso sistema di rotte che collegavano i centri di produzione con quelli di commercializzazione dei metalli e che nel corso delle fasi finali della preistoria, da oriente ad occidente univano tutto il Mediterraneo».

La documentazione sulle antiche popolazioni dell’area della laguna nei dintorni di Trapani è costituita da frammentari ritrovamenti archeologici di superficie. Questi piccoli ritrovamenti confermerebbero, come aveva previsto lo storico Trasselli, una rete di minuscoli insediamenti diffusi nel territorio.
Al sud del porto di Trapani, che è poi l’area di cui maggiormente c’interesseremo, sono stati trovati frammenti d’ossidiana all’interno dell’isola della Calcara, e poi anche strumenti in selce sull’isola del Ronciglio, l’antica isola di Santa Margherita.
Queste sono alcune delle isole che si erano create quasi all’interno del porto, fin dalla preistoria. Per la verità, le mappe antiche dei portolani francesi, ma anche stampe raffiguranti la falce drepanea, riportavano sempre un’altra isola, «la basse», vicina alle altre due ora citate, mentre di fronte ad esse viene raffigurata sempre «la tour de salines», sicuramente la «raisidebbi» delle cartografie medievali, la torre di Nubia, destinata in un primo tempo a guardia di una tonnara che poi non si creò più e che divenne torre di guardia, delle saline, a difesa dai corsari barbareschi.
[...]
Le due piccole isole, sostiene l’archeologo Filippi, «sono caratterizzate da una bassa piattaforma calcarenitica, costituiscono una sorta di barriera naturale fra il mare e la zona lagunare interna».
L’identica particolare situazione morfologica si ripresenta più a sud nella zona di capo San Teodoro, un promontorio che chiude la parte più settentrionale dello Stagnone di Marsala, dove sono stati ritrovati numerosi manufatti in ossidiana.

E poi fin dagli anni quaranta del novecento, gli studiosi avevano accertato la presenza di numerosi strumenti di ossidiana in molti luoghi dell’entroterra del trapanese, ma soprattutto, nei dintorni di Paceco, lungo la valle del Baiata, nei pressi di Malummeri, insieme alla presenza di fittili in ceramica dell’età del Neolitico antico e medio. 
I ritrovamenti erano stati effettuati nella Grotta Maiorana come riferiva la Bovio Marconi, ma anche recentemente il Filippi in contrada Costa Chiappera di Dattilo.

Comunque è da segnalare il ritrovamento di alcuni pani di rame, anche senza alcuna documentazione purtroppo del contesto archeologico di provenienza. I pani di rame costituirebbero tuttavia un primo segnale sicuro sul fatto che l’approdo di Trapani era frequentato ed inserito «nel complesso sistema di rotte che collegavano i centri di produzione con quelli di commercializzazione dei metalli e che nel corso delle fasi finali della preistoria, da oriente ad occidente univano tutto il Mediterraneo».
Dicono gli archeologi, come Antonino Filippi, che particolarmente complesso si presenta il problema relativo all’antica morfologia del porto e di tutto il territorio circostante la città ed a tal proposito allega alle sue ricerche la pianta della città e del porto dell’anno 1872.
Ad est ed a sud nella area lagunare della città sono avvenute modificazioni ambientali consistenti e nella zona portuale sono da imputare in primo luogo alla attività di sfruttamento delle saline, ma anche alla canalizzazione dell’alveo dei torrenti Lenzi (il dolce) e Baiata (il salso), i quali nell’ultimo secolo hanno prodotto un differente apporto di sedimenti, conclude l’archeologo, in tutta l’area.
Ad esempio, «nella zona lagunare che si estendeva intorno a Trapani e fino alle pendici del Monte Erice, queste trasformazioni antropiche sono rilevabili anche attraverso la lettura delle fonti storiche e delle rappresentazioni iconografiche degli ultimi secoli (mappe, topografie, portolani etc..)».
Il territorio ad est della città, pertanto, era caratterizzato da estesi cordoni dunali intervallati da pantani, come quello famoso del cosiddetto Lago Cepeo che venne bonificato verso la fine dell’ottocento, e da campi coltivati.
Il geografo e storico Massa, nella sua “Sicilia in prospettiva”, agli inizi dell’ottocento evidenziava la presenza a Nord Est della città di un lungo litorale sabbioso che veniva denominato in quel tempo la spiaggia “delli fungitelli”, ma che certamente è l’attuale San Giuliano. 
Il litorale separava il mare dalla zona detta dei Cavallacci che era stata raffigurata nelle celebre stampa dell’Orlandi, della fine del cinquecento, con le senie e gli orti e poi più avanti con saline.
Mentre dovendo interessarci noi del profilo delle costa dell’area a sud del porto fino al promontorio di Nubia, che viene definito il Raisidebbi delle fonti medievali, evidenziate di recente dal Maurici nel suo “Medioevo trapanese”, possiamo affermare che questo litorale era composto da diversi isolotti che sono oggi scomparsi a causa dell’azione eolica e della erosione dovuta all’acqua marina.
Ad esempio, di fronte la torre di Nubia, vi era l’isolotto di Raisidebbi, ormai inghiottito dalle acque, che in certe mappe del secolo XVI appare descritto, che nel secolo XX serviva ai cacciatori di anatre per la posta notturna.
Questi isolotti sono scomparsi, inoltre, anche a causa dell’ampliamento delle saline, dice Filippi, ma nell’area rimangono a memoria diversi toponimi come l’isola della Zavorra, l’isola del Ronciglio (antico “recilio o regilio dei portolani) o di santa Margherita e l’isola della Calcara (detta anche di Sant’Alessio per la presenza della chiesetta dedicata al santo alla fine del XVI secolo).

Testo:

di Alberto Barbata

Trapani: Storia della ricerca archeologica



La forma toponomastica al plurale (Drepana), che ricorre nella maggioranza delle fonti letterarie più antiche, fu attribuita originariamente, secondo Columba (C 1906), al complesso di isolotti antistanti la costa, che presentano la forma di falce. Tali affioramenti erano in antico assai più numerosi rispetto all’età moderna e contemporanea, durante cui la linea di costa ha subito mutamenti a causa della realizzazione delle saline. Anche il luogo in cui sorse la città era un’isola falciforme, la cui estremità occidentale costituiva il promontorio Drepanum, separata dalla terraferma da uno strettissimo e poco profondo braccio di mare, progressivamente colmato nei secoli seguenti: in età normanna esisteva ancora un ponte di collegamento all’estremità orientale della città, come confermano diversi geografi arabi (Amari,1880), ed ancora nel XVIII secolo è menzionato solo un sottilissimo istmo. La data generalmente adottata per la fondazione di Trapani è il 260-259 a.C. (cfr. A. fonti letterarie); per il periodo precedente le fonti non lasciano supporre l’esistenza di un centro urbano nel sito dell’emporio degli Ericini. 
La presenza di strutture connesse alle attività portuali (moli, fari, cisterne), ma anche alle esigenze difensive (torri), è comunque ipotizzata da alcuni studiosi già per il perido ‘sicano’. Amilcare, nel 260-259 a.C., avrebbe dunque in parte riutilizzato, ristrutturandolo e potenziandolo, un impianto difensivo già esistente (Tamburello, 1995). Secondo altri, Eraclea di Dorieo sarebbe stata fondata, alla fine del VI sec. a.C., sul sito della futura Drepanon (Freeman, 1891; Van Compernolle, 1984; Braccesi, 2000).
Le testimonianze archeologiche utili alla ricostruzione della topografia urbana della città antica, relativamente scarse, sono fornite da eruditi dal XVII secolo in poi: si tratta di rinvenimenti, generalmente occasionali, di frammenti ceramici, strutture e tombe. Pace (1935) accenna a scavi condotti a Trapani durante il decennio 1920-1930 da Sorrentino, non altrimenti noti, di cui non sono specificati né l’ubicazione né, tantomeno, i risultati, ad esclusione del ritrovamento di otto pani di rame nel porto di Trapani (Sorrentino,1921; Filippi, 2005). Sulla base delle informazioni contenute nelle opere di eruditi locali del XIX secolo, è stato ipotizzato lo schema del sistema fortificato della città antica. Sembra che il ‘Castello di Mare’, sito nell’isoletta della Colombara, posta all’imboccatura del porto, presentasse tracce di una fase edilizia di età antica, riferibile all’epoca del conflitto fra Cartagine e i Greci di Sicilia (prima metà del V sec. a.C.), sebbene attualmente manchino testimonianze monumentali o archeologiche a conferma di tale attribuzione. Al sistema di difesa del porto sarebbero da attribuire anche i resti di una struttura composta da blocchi squadrati, che congiunge le isolette della Colombara e del Lazzaretto (Filippi C 20022; C 2005). 
Le fortificazioni sulla terraferma dovevano invece comprendere torri quadrate poste ai quattro angoli della città, da collocarsi, rispettivamente, presso il monastero della Badia nuova (angolo no), nella zona di S. Agostino (angolo So), presso la ‘Torre dei Pali’ (angolo SE) e nell’ambito del ‘Castello di Terra’ (angolo nE); le porte urbiche, almeno cinque, erano poste presso le torri o lungo le cortine (Tamburello C 1995). 
Il ‘Castello di Terra’ era stato ricordato dal Polizzi (C 1880) per aver contenuto un’iscrizione marmorea a testimonianza della costruzione da parte di Amilcare Barca (cfr. A. fonti epigrafiche). Secondo una notizia ufficiosa, nella stessa zona sarebbe stato riportato alla luce nel 1989, durante i lavori per il metanodotto, un tratto di muratura antica (Tamburello,1995). Tale rinvenimento confermerebbe un’osservazione del Freeman (1891), che accenna a tratti di cortina, forse precedenti alle fortificazioni di Amilcare, inglobati nei paramenti di età moderna. Successivamente, nel 1992, il Castello è stato oggetto di ricerca archeologica da parte della Soprintendenza (scavo condotto da E. lesnes). Lo scavo aveva la finalità specifica di stabilire la data di primo impianto del complesso fortificato, da porre, secondo i risultati della ricerca, al periodo aragonese, ma ha permesso anche il recupero di materiali più antichi: in un deposito di riempimento, al di sotto di un livello con ceramica del XIII secolo, è stato individuato uno strato di sabbia contenente frammenti ceramici «a pasta rossa, sabbiosa», presumibilmente di età punica (V-III sec. a.C.), ma non è stata rinvenuta alcuna struttura riferibile a tale ambito cronologico. Dalla torre interna proviene inoltre una moneta romana in bronzo dell’imperatore Valente (364-378 d.C.) (Lesnes - Maurici , 1994; Lesnes, 1995; cfr. A. fonti numismatiche). 

Di altre recenti prospezioni sull’isola della Colombara, che avrebbero messo in luce «antichi tagli di cava nel banco roccioso calcareo», si hanno attualmente solo notizie molto generiche (Filippi C 20022; C 2005). 

La collocazione di due santuari urbani e di una necropoli è indicata, nuovamente, da eruditi del XIX secolo (di Ferro C 1825). I santuari sono attribuiti a Saturno (nel sito della chiesa di S. Bartolomeo) e a Nettuno, in base alla notizia del rinvenimento, nel 1770, durante gli scavi per le fondamenta della chiesa di S. Nicolò, di una statuetta maschile nuda in bronzo raffigurante Nettuno. La necropoli comprendeva sia sepolcri in laterizio con copertura in lastre di marmo, contenenti scheletri e corredo (lucerne, vasellame), sia urne di terracotta «piene di ossa», e sembra essere stata in uso fino al III-IV sec. d.C. (Tamburello C 1995). Da un contesto funerario provengono probabilmente anche altri materiali («un’olletta biansata, una scodella e tre unguentari fusiformi, attribuibili alla seconda metà del I secolo a.C.») rinvenuti all’inizio del XX secolo vicino al Palazzo delle Poste e custoditi nel Museo Pepoli (de Gregorio C 1928; Filippi C 2002). Più recentemente, sono segnalate cisterne romane presso la chiesa di S. Michele (Scuderi C 1965). Due sarcofagi tardoantichi (III-IV sec. d.C.) sono di sicura provenienza urbana: uno è incassato nelle strutture della chiesa di S. Nicolò; l’altro, custodito al Museo Pepoli, proviene dal convento dell’Annunziata. di notevole interesse è anche la segnalazione di un gruppo di epigrafi greche e latine rinvenute alla fine del XVIII secolo durante i lavori alla chiesa di S. Pietro (Filippi C 2002; C 2005), che si trova all’interno del circuito murario antico. 
Iscrizioni con caratteri punici o cufici sono segnalate da orlandini (C 1605). Per una sistematica sintesi dei dati storico-archeologici su Trapani, si veda Filippi C 2005, che contiene anche informazioni su alcuni rinvenimenti inediti da ambito urbano oltre ad un utile apparato fotografico: Palazzo Fardella (1879: rinvenimento di una lucerna), Piazza Vittorio Veneto (anni ottanta del XX secolo), Palazzo delle Poste (immagini dei reperti), Cappella dei Crociati-Chiesa di S. Domenico (frammenti di ceramica a vernice nera ellenistica, in terra sigillata africana, vetri ed un’anfora tardoantichi). 
Attualmente, la zona a S della città è occupata dal vasto comprensorio delle saline di Trapani e Paceco (fino a tempi recenti estese fino alle immediate vicinanze orientali della città: una salina posta presso una delle porte di T., probabilmente quella orientale, esisteva di sicuro nel XII secolo, come conferma il testo di Edrisi: Amari C 1880); questa porzione fu poi interrata in concomitanza con l’espansione edilizia della città moderna. Per l’epoca classica, l’esistenza di saline non è confermata da fonti letterarie o da testimonianze archeologiche, ma potrebbe essere ipotizzata in base alla presenza di stabilimenti per la lavorazione del pesce nel comprensorio trapanese (Purpura C 1988). Solo nell’isoletta della Calcara, attualmente inglobata nel sistema delle saline, è stato rinvenuto uno strumento in ossidiana (Filippi - Zammarano 1995). 
Edrisi e Ibn jal Wardî testimoniano infine la continuità, almeno dall’età romano-imperiale della pratica della pesca al corallo. la ricerca archeologica ha interessato anche il territorio trapanese e porzioni di comuni limitrofi (Erice, Buseto Palizzolo, Custonaci, Paceco), ricche di testimonianze archeologiche a partire dall’età preistorica (dalla rosa C 1870; de Gregorio C 1917; Sorrentino C 1921). 
In particolare, in contrada Falconera, al confine fra i territori comunali di Trapani e Marsala, è attestata ceramica eneolitica e ‘elima’ a decorazione dipinta (Tusa C 1992). nelle vicinanze, in contrada Cuddia Zafarana, è stata identificata recentemente anche una necropoli romana, purtroppo già saccheggiata da scavatori clandestini precedentemente all’intervento delle autorità (Soprintendenza e Guardia di Finanza; v. Todaro C 2002). 129 Trapani un piccolo gruppo di reperti, per la maggior parte di epoca pre e protostorica, provenienti dal territorio, costituisce la collezione del Museo Civico di Preistoria, inaugurato nel 1983 nei locali della Torre di ligny e nato con l’intento, da parte della Soprintendenza, di allestire una struttura didattico-espositiva per la conoscenza della preistoria del comprensorio trapanese, ma anche di far fronte alla continua dispersione di manufatti, spesso prelevati e detenuti da privati ed ‘appassionati’ che, pur in buona fede, causano inevitabilmente, mediante la raccolta di reperti indiscriminata e non documentata, la distruzione dei contesti e delle associazioni tipologiche, oltre che l’impoverimento di depositi archeologici, spesso non più identificabili a livello topografico (Fresina C 1984). 
Numerosi reperti archeologici provenienti dal territorio trapanese, ma anche da altre località siciliane, sono esposti nella Sala delle antichità del Museo Pepoli, museo , nato grazie alla volontà e ai finanziamenti del Conte Agostino Pepoli stesso, che radunò in un unico istituto i nuclei d’arte trapanesi (la quadreria di G.B. Fardella, le opere provenienti dalle soppresse corporazioni religiose) arricchendoli della propria collezione (che includeva anche ceramiche di produzione islamica: Amari C 1854). Successivamente fu acquisita anche la raccolta di reperti archeologici del Museo Hernandez di Erice. la provenienza dei reperti è raramente conosciuta con precisione; alcuni oggetti sono però attribuibili ad Erice, Solunto, Mozia, Centuripe, oltre che a rinvenimenti subacquei (Scuderi C 1965). un altro nucleo di materiali di provenienza trapanese si trova custodito al Museo di Malacologia di Erice: si tratta di frammenti di anfore appartenenti a tipologie databili fra il III sec. a.C. ed il VII d.C., raccolti sulla spiaggia dell’isola del ronciglio, all’interno della rada del porto (Filippi C 20022; C 2005). 

Trapani si pone nel punto di incrocio ideale fra le antiche rotte marine del basso Tirreno e del Canale di Sicilia. la frequentazione di tali itinerari è confermata dalla presenza nelle acque antistanti Trapani (caratterizzate da bassi fondali, da secche sabbiose e scogli affioranti che rendevano spesso insidiosa la navigazione sottocosta) di numerosi relitti di diverse epoche, purtroppo solo di rado indagati scientificamente. La maggior parte dei reperti subacquei è stata infatti recuperata da pescherecci con reti a strascico o da subacquei sportivi, oppure sequestrata a privati dalle forze dell’ordine (Valente C 1995) ed è ora custodita, oltre che al Museo ‘A. Pepoli’, anche al Museo Archeologico regionale ‘A. Salinas’ di Palermo e negli Antiquaria di Terrasini e di ustica (v. PalerMo, TerraSini, uSTica). Sono attestate anfore puniche Maña A (VI-V sec. a.C.), greco-italiche (III sec. a.C.), Pelichet 47 (II-III sec. d.C.), e diverse anfore ‘a bariletto’ (di cronologia e produzione incerte, ma probabilmente riferibili alla tarda antichità). Altre anfore di provenienza ignota (ad esempio alcuni esemplari di Panella 33 del III sec. d.C.) fanno parte di collezioni private a Trapani. 
Alcune segnalazioni riguardano poi un relitto romano contenente, oltre al carico di anfore dressel 2-4 (età tardorepubblicana-prima età imperiale), anche pietre di zavorra e un chiodo di rame a sezione circolare, in località Isolotto Maraone (Purpura C 1986; Parker C 1992). C.

Fonte (Testo completo)

di Donata Zirone

Il territorio di Trapani nell'età antica



Durante la prima età imperiale Drepanum è documentata da Plinio il Vecchio come città della Sicilia famosa per la pesca del corallo. Sotto l’impero dei Flavi e degli Antonini si ha una ulteriore espansione degli insediamenti rurali; in questi siti la presenza di ceramica sigillata documenta un consistente flusso di merci che, specie nella seconda metà del I secolo d.C., giungeva dall’Italia. Nella grande fattoria romana segnalata in contrada Stella, alle porte di Trapani, piatti e ciotole riportano i timbri in planta pedis S.M.F., L.R.P.E., L.R.P., riferiti alle fabbriche dei ceramisti pisani, Sex. Murrius Festus (60-150 d.C.) e Lucius Rasinius Pisanus (50-120 d.C.), le cui produzioni si ritrovano in tutto il Mediterraneo centrale. La ricchezza dell’insediamento di contrada Stella, come quella di altri nel territorio, denuncia l’emergere di alcune famiglie, fra le quali quella dei Crispi, nome ben noto ad Erice e nella vicina Lilibeo, che ritroviamo impresso nei bolli sulle tegole di una delle loro aziende in contrada Fittasi Sottano, o nei bolli su tegole ritrovati ad Erice e riferiti alle gentes Aemilia, Furia e Marcia, quest’ultima proprietaria anche di un fondo nella contrada Margi (bollo Cl. Marci).
Nel corso del II secolo l’alessandrino Claudio Tolomeo, nella sua Geografia, annota in questo territorio due toponimi: il fiume Acithios e il promontorio Egitarso. Del toponimo tolemaico Acithios, ritenuto da alcuni autori il fiume Birgi e da altri il fiume di Marsala o Sossio, non si ritrova traccia alcuna nella toponomastica medievale e moderna, nella quale il Birgi viene indicato col nome Culverii. Più interessante è nei documenti la citazione del toponimo Chiti, riferito al fiume di Xitta presso Trapani. Controversa è anche la localizzazione del promontorio Egitarso, da taluni studiosi, fra i quali il Manni, ritenuto lo stesso nome di Egitallo, promontorio citato da Diodoro nel corso della prima guerra punica, sul quale era stata costruita dai Romani una fortezza, sito oggi identificato con le rovine esistenti poco a monte del Pizzo Argenteria, lungo le pendici sud-occidentali del monte Erice.
È da ritenersi, invece, che i due toponimi, al di là dell’assonanza fonetica, identifichino due luoghi ben diversi e che l’Egitarso tolemaico, riconosciuto dal Cluverio presso il capo San Teodoro, sia in realtà nel luogo già indicato dal Fazello: il capo San Vito. Tale localizzazione può essere avvalorata, oltre che per l’importanza geografica del promontorio, quale vertice settentrionale della Sicilia occidentale, soprattutto per la presenza del famoso pozzo, dalle acque miracolose, dal quale ebbe origine il culto dedicato a san Vito Martire. Questa nostra ipotesi si baserebbe, pertanto, sulla segnalazione da parte dei cartografi dell’antichità di punti geografici notevoli, quali sono i promontori, in special modo dove vi erano fonti d’acqua, divenute nel tempo luogo di approdo e di culto, come sarebbe avvenuto, ad esempio, sull’altro importante promontorio di questa parte dell’isola, il capo Lilibeo, il cui culto pagano, legato al pozzo della Sibilla, venne convertito in quello cristiano de dicato a san Giovanni Battista.

Dalla seconda metà del II secolo, specie con l’avvento della dinastia dei Severi, il nostro territorio sembra, dal punto di vista commerciale, volgere le spalle all’Italia, orientandosi verso l’Africa; da questo momento, infatti, scompaiono le ceramiche di importazione italica e gli insediamenti rurali mostrano l’esclusiva presenza di terre sigillate di produzione tunisina. Un commercio, quello delle importazioni di ceramiche africane, che si svilupperà almeno fino alla riconquista del Nord-Africa e della Sicilia da parte del generale bizantino Belisario che nel VI secolo d.C. ricondurrà l’isola nell’orbita dell’Impero giustinianeo d’Oriente.
Facendo un passo indietro e ritornando all’età di Costantino il Grande, è noto come nel corso della prima metà del IV secolo d.C., dopo il trasferimento della capitale dell’Impero a Costantinopoli e il dirottamento del grano egiziano verso la nuova metropoli, la Sicilia ritornò ad essere il granaio di Roma. Le grandi ville senatorie gestivano immensi latifondi capillarmente sfruttati per usi agricoli e per l’allevamento. Allo stato attuale delle conoscenze, il territorio di Trapani non ha restituito resti di insediamenti rurali paragonabili a quelli scoperti nella Sicilia centro-orientale (è il caso della Villa del Casale, del Tellaro, di Patti), ciononostante alcuni insediamenti assunsero notevole dimensione e ricchezza. È il caso dell’insediamento di contrada La Chinea, dove le arature profonde, agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, dissotterrarono ampie porzioni delle murature e delle pavimentazioni in cocciopesto, i cui resti vennero scaricati nelle vicine acque della diga Rubino.

Nel tardo-impero gli Itineraria romani, e in particolare la Tabula Peutingeriana e l’Itinerarium Antonini, entrambi redatti nel corso del IV secolo d.C. (pur utilizzando indicazioni antecedenti e mostrando aggiunte di epoche successive), ci offrono utili informazioni per comprendere l’assetto delle più importanti arterie viarie che attraversavano il triangolo di territorio compreso fra Panormus, Drepanum e Lilibeo. 
La Tabula (un itinerarium pictum, una sorta di grande stradario dell’Impero nel quale sono indicate le distanze fra i principali centri urbani o i luoghi particolarmente significativi, segnalati da differenti rappresentazioni iconografiche) evidenzia come la strada che da Palermo raggiungeva la costa occidentale dell’isola, dopo aver toccato Segesta, si dirigeva direttamente verso Trapani (Drepanis) anziché, come ci si aspetterebbe, verso quello che doveva essere il maggiore centro urbano, Lilibeo. A ciò si aggiunge che sulla carta l’icona riferita a Drepanis è di dimensioni maggiori di quella che segnala Lilibeo; queste due osservazioni indurrebbero a credere, pur in assenza di prove storico-archeologiche, che in età post-costantiniana Drepanis dovette assumere un ruolo di rilievo, probabilmente pari a quello di Lilibeo, quale scalo intermedio lungo la rotta fra il Nord-Africa e l’Italia, ma anche, o soprattutto, quale principale sbocco al mare del ricco hinterland agricolo.

Foto:
Tabula Peutingeriana
La Tabula Peutingeriana è un itinerario “pictum”, contenente anche l’indicazione di varie “stationes”.

di ANTONINO FILIPPI

DA ERICE A CUSTONACI: Sui passi dei trasporti della Madonna


Ci sono escursioni ed escursioni. Ogni passeggiata ha il suo perché. Un fascino tutto suo. Un tuffo nel verde della natura così come le vedute suggestive ed i panorami mozzafiato. Di quelli che davvero emozionano. E valgono ogni fatica fatta. Ci sono poi passeggiate che catapultano nella storia. Ed al volte anche in tradizioni secolari, cariche di fede e devozione. Spesso un valore identitario che abbraccia un intero territorio, diviso in diversi comuni, ma unito nel nome di una Patrona. Unica e sola. Amata e voluta da tutti. Al punto da arrivare ad essere contesa, anche duramente, e trasportata a spalla, percorrendo chilometri tra insidiose mulattiere e viali scoscesi. Lo facevano uomini che per la loro Madonna affrontavano una salita di settecento e passa metri per arrivare ad Erice e portare nel loro paese quell’immagine della Vergine che per loro era tutto. E valeva le tante fatiche di quel trasporto fatto sotto una lunga asta per portare quella cassa così preziosa con quel quadro tanto prezioso. Capace di guarire. Di dare speranza e protezione. Di fare passare pestilenze e calamità naturali. È il potere della fede. Che tutto può e vince. È l’abbraccio della Madonna di Custonaci. Signora e Patrona delle terre dell’Agroericino.

La sua storia affonda le radici nella leggenda. Si narra che questa meravigliosa immagine della Vergine sia arrivata dal mare, a bordo di un veliero scampato alla furia delle onde, trovando riparo a Cala Bukuto, alle pendici di Monte Cofano. Qui i marinai, una volta in salvo, eressero una piccola cappella per ringraziare la Madonna, lasciandovi il quadro che avevano a bordo. Che entrò subito nel cuore della comunità del posto.

In seguito sorse il bellissimo e maestoso Santuario, dove tutt’oggi viene custodita l’icona religiosa, che per secoli ha fatto su e giù tra Custonaci ed Erice, allora importante centro dell’Agroericino, dove risiedeva la nobiltà e quindi il potere politico di quello che fu il secondo comune più grande della Sicilia dopo Monreale: il comune di Monte San Giuliano, che arrivava fino alle porte di Castellammare del Golfo, abbracciando i territori oggi conosciuti come Valderice, Buseto Palizzolo, Custonaci e San Vito lo Capo. L’immagine della Madonna veniva trasportata fino ad Erice in un lungo viaggio accompagnata dai fedeli e dai bambini poggiati sopra la cassa, per i poteri taumaturgici che da sempre le sono stati riconosciuti. Un percorso che ancora oggi è possibile percorrere: in alcuni tratti lungo i sentieri che scendono dalla montagna, in altri casi attraversando le moderne strade asfaltate, come la centralissima via Vespri, nel cure del centro abitato di Valderice, per poi passare dall’Arco del Cavaliere e dirigersi verso il Santuario di Custonaci. Sentieri, mulattiere e strade che sono state percorse nel corso di una escursione molto particolare organizzata in occasione della presentazione della rete sentieristica dell’Agroericino ripresa di recente nel corso del progetto “Erice Trekking”, che vede diversi partner coinvolti, ovvero il Gal Elimos assieme al Cai, alla Strada Del Vino Erice Doc, al Distretto Turistico della Sicilia Occidentale ed ai Comuni di Buseto Palizzolo, Castellammare del Golfo, Custonaci, Erice, San Vito Lo Capo e Valderice.

La sfida è davvero ambiziosa e potrebbe segnare la svolta in materia di offerta turistica del territorio: si punta alla valorizzazione del grande patrimonio naturalistico, storico e paesaggistico di questo angolo di Sicilia, attraverso appositi itinerari da percorrere a piedi o in mountain bike. Si tratta di quindici sentieri per una lunghezza complessiva di 110 chilometri che si snodano lungo l’Agroericino, tra le montagna di Erice, Cofano e Sparagio, quest’ultimo la cima più alta della provincia di Trapani con i suoi 1110 metri di altezza. Arrivando quindi a San Vito lo Capo, Monte Monaco ed alla Riserva dello Zingaro. Luoghi da incanto, considerati veri e propri paradisi ed oasi di pace. Un territorio davvero unico, con panorami mozzafiato sul blu del mare del golfo di Bonagia e delle isole Egadi che regalano un autentico tuffo nella natura. A partire dai boschi della montagna di Erice, per arrivare fino alle coste di cala Bukuto, alle pendici di Monte Cofano.

L’escursione lungo la via degli antichi trasporti della Madonna di Custonaci ha permesso di vivere una giornata davvero unica, percorrendo i quasi quattordici chilometri del tragitto in un contesto d’eccezione, complice anche la bellissima giornata ed i colori pressoché primaverili, nonostante il periodo invernale. 

Una passeggiata davvero molto particolare, carica di fede, storia e tradizione, con meravigliose vedute sul blu del mare del golfo di Bonagia ed il verde della valle dell’Agro.
La discesa da Monte Erice, lungo il versante dei Runzi, è iniziata dal Quartiere Spagnolo, passando per l’antichissimo sentiero di porta Castellammare e arrivando così a Caposcale e quindi a Valderice. Da qui il gruppo si è diretto verso Misericordia, entrando nel parco di questo suggestivo promontorio, nel cuore dell’Agroericino. Sicuramente uno dei punti più affascinanti dell’escursione, che ha regalato un particolare senso di “immersione” nella natura e panorami bellissimi tra il mar Tirreno e le montagne di Erice e Cofano.
Dopo essere passati dall’Arco del Cavaliere, storico punto di sosta durante i trasporti dell’immagine della Madonna, la passeggiata è proseguita verso Custonaci, passando prima dal pozzo della Madonna per terminare l’itinerario all’interno del Santuario e del museo “Arte e Fede” dove è custodita la vara anticamente usata per i trasporti, fatti fino al 1936. Sotto le cui aste per secoli uomini forti e carichi di fede hanno retto il peso di quell’immagine meravigliosa capace, con il suo sguardo rassicurante, di dare sollievo e speranza. Scaldandone i cuori.
E superando cosi ogni fatica e difficoltà.

di Mario Torrente