31 lug 2016

Alla scoperta degli angoli piu' nascosti della costa di San Vito lo Capo

CALA FIRRIATO



Cala Firriato un luogo amatissimo dagli arrampicatori che possono praticare il "deep water climbing"; una volta famosa per la coltivazione di alberi da sughero, oggi famosa per le sue acque cristalline e le falesie. Cala Firriato è facile da raggiungere e poco affolata, vi sono diversi comodi accessi a mare attraverso gli scogli: www.ymcaclimbingsanvito.it/att…/climbing/deep-water-soloing/


IL LAGO DI VENERE 



Il Lago di Venere a San Vito lo Capo - Un antica frana ha creato il Lago di Venere, uno specchio d'acqua quasi sempre calmo che funziona da barriera per molteplici quantità di pesci, snorkelling al Lago di Venere è indimenticabile. I massi che centinaia di anni fa si sono staccati dalla montagna hanno raggiungo il mare e quasi con una precisione matematica hanno formato un cerchio che ha preso il nome di Lago di Venere. Il percorso per raggiungere questo posto, tra antichi alberi di frassino (da cui si ricavava la manna) e passaggi stretti ma praticabili.


LA TONNARA DEL SECCO



Il lavoro più redditizio in questa zona una volta era quello dei tonni, le Tonnare che sono edifici devoti al mondo del tonno sono sparse ovunque in giro per la Sicilia. La tonnara di San Vito lo Capo sorge a circa 3 km dal centro abitato di San Vito, resta un edificio di grande importanza e bellezza. L’antica “Tonnara del Secco” ormai non utilizzata più dal 1969, quando l’attività di pesca venne spostata sulla costa antistante l’attuale porto, dove nel 1500 esisteva la primitiva tonnara di “San Vito” protetta dal Torrazzo. Si tratta di una grande costruzione, situata in uno splendido golfo. Accanto agli edifici della tonnara si può ammirare quel che resta degli antichissimi impianti di lavorazione del pesce (specialmente del tonno), come le vasche in coccio-pesto, che risalgono al IV secolo a.C. L’area della Tonnara, compresa la costruzione, è stata acquistata circa quindici anni fa dalla Valtur.
Oggi purtroppo in rovina è comunque un luogo bellissimo da visitare, pieno di mistero. La piattaforma davanti la Tonnara del Secco è comoda per distendersi e il mare è cristallino come pochi.


CALAMANCINA



Calamancina è una piccola baia raggiungibile dal centro di San Vito lo Capo in soli 30 minuti a piedi. Un luogo magico dove passare la giornata, vi sono due piccole spiagge di ciottoli dove poter stendersi e ammirare il panorama, acqua bassa e trasparente. La baia di Calamancina viene utilizzata da piccole barche da pesca per ripararsi in caso di tempesta mentre si cerca di tornare al porto di San Vito lo Capo. La zona di Calamancina è paradisiaca per gli arrampicatori, vi sono vie di tutti i livelli e quando si finisce di arrampicare è consigliato lo snorkelling


CALAZZA


Una delle spiagge più belle della Sicilia è chiamata Calazza! La spiaggia è situata a circa 7km da San Vito lo Capo nel meraviglioso golfo di Makari. La spiaggia è molto piccola ma molto affascinante e durante i periodi estivi potrebbe essere molto affollata ma le panoramiche che offre e la sua acqua cristallina vi faranno dimenticare qualsiasi cosa!


CALA DEL BUE MARINO



Denominata spiaggia più bella d'Italia da TripAdvisor, questo luogo meraviglioso è locato a due passi da Makari, a circa 3 km da San Vito lo Capo. Osserva bene il duro lavoro che madre natura ha fatto nel creare in milioni di anni le falesie lì presenti e i ciottoli che caratterizzano la spiaggia. 


FRASSINO


La contrada Frassino è probabilmente la più tranquilla e pacifica del Golfo di Makari, è possibile trovare spiagge deserte o semi deserte e camminare per ore ammirando il panorama che presenta 180° di mare e 180° di montagna. Locata a circa 8 km da San Vito lo Capo la zona è ideale per un picnic al tramonto.

29 lug 2016

Il viaggio di Enea nel Mediterraneo: da Troia alla Sicilia alla foce del tevere




L'Eneide  è un poema epico della cultura latina scritto dal poeta e filosofo Virgilio tra il 31 a.C. e il 19 a.C., che narra la leggendaria storia di Enea, eroe troiano figlio di Anchise, fuggito dopo la caduta della città di Troia, che viaggiò per il Mediterraneo fino ad approdare nel Lazio, diventando il progenitore del popolo romano

I primi sei libri raccontano la storia del viaggio di Enea da Troia all'Italia, mentre la seconda parte del poema narra la guerra, dall'esito vittorioso, dei Troiani - alleati con i Liguri, con alcuni gruppi locali di Etruschi e con i Greci provenienti dall'Arcadia - contro iRutuli, i Latini e le popolazioni italiche in loro appoggio, tra cui i Volsci e altri Etruschi; sotto il nome di Latini finiranno per essere conosciuti in seguito Enea e i suoi seguaci. 

Enea è una figura già presente nelle leggende e nella mitologia greca e romana, e compare spesso anche nell'Iliade; Virgilio mise insieme i singoli e sparsi racconti dei viaggi di Enea, la sua vaga associazione con la fondazione di Roma e soprattutto un personaggio dalle caratteristiche non ben definite tranne una grande religiosità (pietas in latino), e ne trasse un avvincente e convincente "mito della fondazione", oltre a un'epica nazionale che allo stesso tempo legava Roma ai miti omerici, glorificava i valori romani tradizionali e legittimava la dinastia giulio-claudia come discendente dei fondatori comuni, eroi e dei, di Roma e Troia. 

Enea e il Mediterraneo
La storia di Enea trova maggiore spazio nella mitologia e nella poesia latina che in quella greca: le sue gesta occupavano già una parte notevole nell'Iliade, ma Virgilio ne fece il protagonista assoluto del suo poema, rendendone la personalità unica ed estremamente moderna per il modo con cui l'eroe troiano interpretò l'esistenza e per l'atteggiamento che assunse di fronte ad essa; inoltre l'itinerario del suo viaggio e le tappe sulle coste del Mediterraneo fanno pensare quasi ad una mitica presa di possesso da parte del presunto antenato dei Romani di quel mare che essi amavano chiamare " nostrum ".

Il viaggio di Enea, protagonista dell’Eneide di Virgilio, spazia da Oriente a Occidente, dal mare alla terra al regno degli Inferi. Queste le tappe del viaggio di Enea dalla partenza da Troia sino alla foce del Tevere: 




Nato dall'unione tra Anchise e Afrodite, trascorse l'infanzia e la prima giovinezza sul monte Ida, sul quale si appartò poi a vivere serenamente col padre Anchise, la moglie Creusa e il figlioletto Ascanio, nei primi tempi della guerra di Troia, alla quale egli, amante della pace, era contrario. Ma fu costretto a prendere le armi per difendere se stesso e la vita dei suoi cari il giorno che arrivò sull'IdaAchille con i suoi Mirmidoni, che egli respinse con coraggio e accanimento.
Coinvolto ormai nella guerra, prese parte a diverse azioni, finché Troia cadde ed Enea assistette con estrema angoscia alle ultime ore della città; con un gruppo di compagni tentò di opporsi ai nemici combattendo, finché la madre Afrodite gli mostrò l'inutilità del suo gesto, rivelandogli che il destino gli affidava un compito molto più importante: cercare la salvezza e un futuro in una nuova patria, portandovi i Penati di Troia.
Così l'eroe, vinta - con l'aiuto di un prodigio divino - la resistenza del padre Anchise che, vecchio e stanco, avrebbe preferito non lasciare la terra in cui era sempre vissuto e dove avrebbe voluto esser sepolto, lasciò la città ancora in fiamme.
Caricatosi sulle spalle il padre che recava in mano i sacri Penati, preso per mano il figlioletto Ascanio e seguito dalla moglie Creusa, si avviò al porto di Antandro, che aveva indicato come luogo del raduno ai pochi Troiani superstiti decisi a partire insieme a lui; qui giunto si accorse però che Creusa non c'era più. Disperato tornò indietro a cercarla, a chiamarla, ma tutto fu vano, e infine l'ombra dell'amata moglie gli apparve esortandolo a partire, a mettersi in salvo con il loro figlio e con gli altri; lei sarebbe per sempre rimasta tra le ceneri di Troia, ma col pensiero li avrebbe accompagnati nel viaggio e nelle nuove vicende che li aspettavano.
Molte furono le tappe del viaggio, pieno di avventure, contrattempi, episodi dolorosi, avvenimenti prodigiosi. I profughi furono dapprima in Tracia, dove Enea parlò con l'ombra di Polidoro, l'infelice figlio di Priamo: il padre l'aveva mandato, perché si salvasse insieme con buona parte del tesoro troiano, presso il re del luogo, Polimestore, il quale però, alla notizia della caduta di Troia, l'aveva fatto uccidere per impadronirsi del tesoro.
Lasciato quel luogo infido, dove regnava chi non aveva rispetto né per le leggi divine né per quelle umane, Enea andò a Delo a consultare l'oracolo, che lo esortò a cercare la sua antica patria; pensando che l'oracolo alludesse a Creta, da cui proveniva uno dei più antichi re di Troia, si recò quindi in quell'isola; ma i Penati gli apparvero in sogno avvertendolo che la terra che doveva cercare, l'Enotria o Italia, era più ad ovest.
Si accinse quindi ad attraversare il mare Ionio; ma la dea Giunone, a lui avversa, suscitò una violenta tempesta che spinse le navi sulle isole Strofadi, da cui i profughi furono costretti a ripartire subito dalle mostruose Arpie guidate da Celeno, che si erano gettate in volo sui loro cibi, contaminandoli.
Enea si recò allora in Epiro da Eleno, uno dei figli di Priamo che, come sua sorella Cassandra, aveva il dono della profezia ed era divenuto re in seguito ad una vicenda straordinaria. Il figlio di Achille, Pirro-Neottolemo, lo aveva portato via da Troia come schiavo; del bottino faceva parte anche Andromaca, la vedova di Ettore, che Pirro aveva dato in sposa ad Eleno; quando poi il violento figlio di Achille fu ucciso, gli abitanti del luogo chiesero ad Eleno di diventare il loro re.
Enea fu lieto di sapere che un troiano di stirpe regale avesse avuto una buona sorte, ma fu profondamente afflitto quando vide Andromaca: impietrita nel dolore e lontana nella mente, rievocava ogni giorno, con offerte e preghiere presso un falso sarcofago di Ettore che era stato eretto a Butroto, la sua tragedia di donna cui avevano ucciso il marito ed il figlio.
Lasciata Butroto Enea, seguendo il consiglio di Eleno, si diresse verso la Sicilia, la circumnavigò per evitare Scilla e Cariddi e si fermò ad Erice, dove ebbe il dolore di perdere il padre Anchise, indebolito dalle fatiche del viaggio; sepolto il padre riprese il mare ma di nuovo una violenta tempesta fece smarrire la rotta alle navi e le sospinse sulla costa dell'Africa.
La nave di Enea approdò in un porto tranquillo, ma egli temeva, insieme ai pochi scampati, di aver perso tutti gli altri compagni; mentre disperato perlustrava il luogo, incontrò sua madre Afrodite in veste di fanciulla, che lo confortò e gli consigliò di presentarsi a Didone, regina del luogo e chiederle ospitalità.
Enea quindi, con pochi compagni e con il figlio, si diresse verso la città indicatagli, nella quale fervevano i lavori di costruzione di edifici, strade, templi; era avvolto da una nube prodigiosa che gli permetteva di non esser visto, e così giunse fino al trono dal quale la regina Didone esercitava la giustizia e impartiva ordini.
Vide allora che erano appena giunti a chiedere ospitalità e aiuto anche i compagni che aveva creduto persi nel naufragio e, dissoltasi la nube che lo avvolgeva, si unì agli amici nella supplica alla Regina, che accolse con benevolenza le preghiere dei naufraghi e ospitò Enea nel suo palazzo insieme al figlio Ascanio.
Anche Didone era una profuga, fuggita dalla patria con alcuni fedeli compagni dopo che le era stato ucciso in una congiura il marito Sicheo; subito attratta dall'eroe troiano, concepì per lui una profonda passione e insieme la speranza che egli rimanesse a dividere con lei il fardello del comando; d'altra parte anche Enea si sentì legato da un fortissimo sentimento a quella donna coraggiosa, che gli fece dimenticare tutto, e in particolare il dovere impostogli dagli dei della ricerca di una nuova patria; Giove allora mandò Mercurio a ricordargli il suo destino, ed egli dovette dire addio alla regina Didone.
Didone tentò in ogni modo di trattenerlo, ma alla fine, di fronte alla sua decisione irrevocabile, presa dalla disperazione al pensiero di un futuro quanto mai triste, si tolse la vita; ed Enea dalla nave già al largo della sponda africana, affranto e impotente, vide il rogo alzarsi dal palazzo reale come un luttuoso segnale.
L'eroe troiano e i suoi compagni, partiti alla volta dell'Italia, fecero prima una breve tappa in Sicilia, ad Erice, per rendere gli onori funebri ad Anchise, colà sepolto, poi arrivarono finalmente in Italia, a Cuma, dove Enea dovette fermarsi per interrogare la Sibilla; ma prima di scendere con lei nel regno dei morti, dette sepoltura al trombettiere Miseno sul promontorio che da lui prese il nome di Capo Miseno: costui aveva osato sfidare gli dei ed era stato precipitato in mare dal dio Tritone. La Sibilla lo accompagnò nell' Averno perché egli ottenesse dal padre notizie sui suoi discendenti e sulle vicende che ad essi sarebbero state legate.
Il viaggio riprese; vi fu un'ultima sosta per rendere onoranze funebri alla nutrice Caieta - dalla quale derivò il nome della città, in seguito chiamata Gaeta - finché le navi approdarono sulle rive del Tevere; e qui avvenne un prodigio: le navi si tramutarono in ninfe e si allontanarono in mare, e da ciò Enea comprese di essere arrivato nel luogo designato dagli dei, dove le sue peregrinazioni sarebbero finite.
Ma non erano finite le difficoltà. Fu accolto con tutti gli onori da Latino, re della città di Laurento, che gli offerse in sposa la figlia Lavinia, seguendo i segni divini che gli avevano profetizzato necessario tale matrimonio; fu tuttavia avversato dalla moglie di Latino, Amata, e dal pretendente di Lavinia, Turno re dei Rutuli, che raccolse molte genti del circondario e mosse guerra a quello che riteneva un usurpatore.
Come sempre era avvenuto da parte di Enea nei riguardi della guerra, egli si batté con onore ma a malincuore e solo per realizzare il disegno divino, e alla fine si compì anche il destino di Turno, che cadde sotto i colpi dell'eroe troiano.
Con la morte di Turno finisce in Virgilio la storia delle peregrinazioni di Enea, ma le leggende antiche tramandavano le sue ultime vicende, raccontando che durante un combattimento contro gli Etruschi, che erano stati alleati di Turno, nel culmine di un'improvvisa tempesta scomparve e Venere lo trasportò nell'Olimpo, dove divenne una divinità, onorata in seguito dai Romani col nome di Giove Indigete. Il figlio di Enea, Ascanio-Iulo fondò poi la città di Albalonga e dalla sua stirpe ebbe origine la famiglia Giulia.
La figura del " pius Aeneas " - di questo eroe che, pur non amando la guerra, combatté per difendere la sua antica e la sua nuova patria, che si mostrò sempre ossequioso verso gli dei, premuroso verso la famiglia, rispettoso delle leggi divine ed umane, e soprattutto affrontò sempre la vita con un grande senso di responsabilità, volendo portare a termine ad ogni costo i compiti che il destino gli aveva affidato - ritorna, durante il Medioevo in tutte le riduzioni, parafrasi, imitazioni che si fecero del poema virgiliano.
Nel Rinascimento essa diventa uno dei modelli ideali della tradizione epico-cavalleresca, e la sentiamo presente all'Ariosto nella figurazione di Ruggero, e al Tasso in quella del "pio" Buglione.

LE TAPPE
1.Troia: dopo dieci anni di guerra, gli Achei entrano in Troia con l’inganno del cavallo e distruggono la città. Enea, con il figlioletto Ascanio, il padre Anchise e altri Troiani, prende il mare verso la nuova patria che il Fato gli ha destinato. Enea porta con sé anche i Penati, dèi protettori della patria. 
2.Tracia: Enea sbarca a Eno, nella Tracia. Qui all’eroe appare un terribile prodigio: da alcuni rami di mirto gocciola il sangue di Polidoro, figlio di Priamo e ucciso in quel luogo. I Troiani, atterriti, lasciano la Tracia. 
3.Delo: a Delo l’oracolo di Apollo indica a Enea di cercare «l’antica madre». Anchise pensa che sia Creta, terra da cui proveniva il loro progenitore Teucro. 
4.Creta: sbarcati nell’isola, i Troiani iniziano a costruire la nuova città, ma una terribile pestilenza e le parole degli dèi Penati, che appaiono in sogno a Enea, rivelano l’errore commesso: non è Creta «l’antica madre», ma l’Italia, la terra d’origine del loro capostipite Dardano. 
5.Isole Strofadi: ripreso il mare, gli esuli sono sospinti da una tempesta nelle isole Strofadi dove vengono attaccati dalle Arpie, mostri con il volto di donna e il corpo di uccello. L’Arpia Celeno profetizza loro un difficile futuro e una terribile fame. 
6.Epiro: a Butroto, nell’Epiro, Enea incontra Andromaca, vedova di Ettore e ora moglie dell’indovino Eleno, fratello di Ettore. Eleno spiega a Enea che la terra assegnatagli dal Fato non si trova sulla vicina costa d’Italia, quella adriatica e ionica occupata dai Greci, ma su quella opposta, cioè su quella tirrenica. Quando Enea vedrà una scrofa bianca con trenta porcellini bianchi da lei partoriti, potrà essere sicuro di aver raggiunto la meta. 
7.Rocca di Minerva: i Troiani approdano in un porto, a sud di Otranto, su cui sovrasta una rocca con un tempio di Minerva e subito invocano la protezione della dea. 
8.Terra dei Ciclopi: i Troiani evitano Scilla e Cariddi e giungono alla Terra dei Ciclopi. Qui trovano Achemenide, uno dei compagni di Ulisse, dimenticato per caso nella spelonca di Polifemo e lo portano con sé. 
9.Drepano: qui muore Anchise, padre di Enea. Ripreso il mare, i Troiani sono assaliti da una tempesta e spinti verso Cartagine. 
10.Cartagine: la regina Didone ospita Enea, ascolta il suo racconto e si innamora di lui. Quando l’eroe riparte, Didone si uccide per il dolore, maledicendo la stirpe troiana (La tragedia di Didone nel Libro IV dell’Eneide clicca qui). 
11.Sicilia: ritornato in Sicilia, un anno dopo la morte del padre Anchise, Enea decide di celebrare in suo onore un rito di commemorazione e giochi funebri. 
12.Cuma: approdato a Cuma, Enea consulta la Sibilla e da lei viene accompagnato negli Inferi, dove incontra il padre Anchise. 
13.Gaeta: qui muore Caieta, l’anziana nutrice di Enea, e l’eroe, dopo averle dato sepoltura, dà al luogo il nome di Gaeta. 
14.Foce del Tevere: superato il promontorio del Circeo, sede della maga Circe, i Troiani arrivano alla foce del Tevere. 


Da Troia a Roma: un riassunto dell’Eneide (libri 1-4)

LIBRO I
Il poeta si propone di narrare le imprese di Enea, l’eroe scampato all’eccidio di Troia, il quale, per volere del Fato, sbarcherà dopo molti travagli sulle coste del Lazio, per fondarvi una nuova città, Lavinio,da cui trarrà origine Roma. Invoca Calliope, la musa della poesia epica, affinché gli renda noti i motivi per cui la regina degli dei, Giunone, perseguitò con implacabile odio un uomo tanto pio. Ed ecco la storia. Dopo la distruzione di Troia, Enea prepara una flotta di venti navi e fugge dalla città distrutta dalle fiamme. Trascorrono sette anni di viaggio, un viaggio avventuroso e difficile, prima che i profughi giungano in vista dell’Italia, la terra che il Fato assegna loro come nuova patria. 
E’ questa l’antica Ausònia, donde era venuto Dàrdano, il capostipite dei Troiani. Qui l’eroe dovrà trapiantare i Penati di Troia e dare origine ad una nuova stirpe che fonderà un nuovo regno.
Ma Giunone protegge Cartagine, città fenicia dell’Africa, e sa che la gente romana, vittoriosa e superba, un giorno la distruggerà. Di qui l’odio per Enea, progenitore di questa gente, che s’aggiunge all’antico rancore per il giudizio di Paride; di qui il proposito d’impedire ad Enea di pervenire alla meta sospirata del suo viaggio. Si reca da Eolo, re dei venti, e lo persuade a scatenare una furiosa tempesta che travolge alcune navi e disperde le altre. Fortunatamente interviene Nettuno che ristabilisce la calma, consentendo ad Enea di sbarcare, con le sette navi superstiti, sulle coste della Libia.
Intanto, nell’alto dei cieli, Venere si accosta a Giove e, piangendo, gli chiede perché mai Enea, suo figlio, sia tanto perseguitato dalla sventura e non riesca a raggiungere la patria promessa. Giove la tranquillizza dicendole che il destino di Enea non è cambiato: da lui discenderà la stirpe Giulia, dominatrice del mondo, e nel Lazio sorgeranno Roma e l’Impero. Poi Venere, travestita da cacciatrice, si presenta al figlio per assicurarlo sugli abitanti del luogo e per esortarlo a recarsi nella vicina Cartagine, dove gli verrà offerta una regale ospitalità. E gli parla della regina Didone che, costretta a fuggire dalla città fenicia di Tiro, sua patria, in seguito all’uccisione del marito Sichèo da parte del fratello di Pigmalione, aveva fondato la città di Cartagine, in Libia, di cui era protettrice Giunone.
Accompagnato dal fido Acate, Enea entra in città non visto, perché avvolto da Venere in una nuvola di nebbia, e giunge al magnifico tempio di Giunone, nel quale vede dipinti episodi della guerra di Troia. Ma ecco che, seguita da un corteo di principi, appare Didone fulgente di meravigliosa bellezza: siede sul trono e dà inizio alla sua attività di regina.
Poco dopo entra nel tempio un gruppo di Troiani, che Enea credeva scomparsi nella tempesta. Sono guidati da Ilioneo, il quale supplica la regina di aiutare gl’infelici naufraghi, desiderosi di salpare verso l’Italia. La regina acconsente e promette di far ricercare il loro re scomparso. A questo punto la nube che nascondeva Enea si dissolve, e l’eroe appare, per forza e bellezza, del tutto simile ad un dio. Saluta i compagni e ringrazia con parole di commossa riconoscenza Didone che, stupita e lieta, invita i Troiani alla reggia, dove fa preparare per loro un sontuoso banchetto.
Enea fa chiamare intanto Ascanio, rimasto di guardia alle navi, ma Venere, trepidante per la sorte del figlio, manda Cupido, dio dell’amore, sotto le forme di Ascanio. E Cupido insinua nell’animo della regina, a poco a poco, una grande passione d’amore per Enea. Alla fine del banchetto Didone prega Enea di narrare le sue straordinarie avventure.


LIBRO II
Fra il silenzio generale l’eroe, con la tristezza nel cuore, inizia il racconto della caduta di Troia. Dopo dieci anni di assedio i Greci, visto inutile l’uso della forza per prendere la città, decidono di ricorrere all’inganno. Ammaestrati da Minerva, costruiscono un enorme cavallo di legno, nel cui ventre racchiudono i più forti guerrieri. Poi fingono di partire e si nascondono con la flotta dietro all’isola di Tenedo, lasciando il cavallo sulla spiaggia per dono votivo a Pallàde. 
I Troiani escono dalla città per festeggiare l’inattesa liberazione, ma anche per ammirare la strana mole del cavallo. Subito Timète propone di trasportarlo dentro le mura, mentre Capo consiglia di gettarlo in mare oppure dargli fuoco. Quand’ecco Laocoonte, sacerdote di Apollo, scendere dall’alta rocca gridando che quel cavallo non era un dono, ma bensì un’insidia dei Greci, per cui bisognava distruggerlo. E, ciò dicendo, vibra l’asta contro la pancia del cavallo, provocando un sinistro rimbombo.
Intanto sopraggiunge una folla di pastori:trascinano un prigioniero che afferma di chiamarsi Sinone, di essere un greco sfuggito ai suoi compatrioti, da lui odiati perché volevano immolarlo agli dei, per ottenere in cambio un felice ritorno in patria. Convinto e impietosito dalle sue menzogne, Priamo gli fa grazia della vita, ma gli chiede precise notizie sul cavallo. E Sinone risponde: il cavallo fu costruito per placare l’ira di Minerva offesa dal ratto del Palladio, e di proporzioni gigantesche perché non venisse introdotto in città, nel qual caso ai Troiani sarebbe toccato l’impero del mondo.
Quasi a conferma delle parole ingannatrici di Sinone, si verifica un terrificante prodigio voluto da Pallade: due spaventosi serpenti, usciti dal mare, s’avventano sui due figli del sacerdote e li divorano; poi avvinghiano il padre accorso in loro aiuto e lo soffocano.
Compiuta la strage, i due mostri si dirigono al tempio di Pallade e si raggomitolano tranquilli ai piedi della statua. A tale vista i Troiani non esitano più: fanno una breccia nelle mura e trascinano sulla rocca il cavallo. Ma, durante la notte, Sinone fa uscire i guerrieri dal cavallo, e costoro, uccise le guardie, spalancano le porte della città. Allora tutto l’esercito greco, ritornato con la flotta da Tenedo, irrompe nelle vie e nelle piazze di Troia immersa nel sonno, saccheggiando, incendiando, trucidando barbaramente gli abitanti. Ad Enea appare in sogno l’ombra dolente di Ettore, che lo esorta a fuggire con i sacri Penati per trapiantarli nella sede voluta dal Fato. Destatosi di soprassalto, l’eroe sale sul tetto e, rendendosi conto della terribile realtà, prende le armi e si getta nella mischia. Ma rimane sopraffatto e, solo con due compagni superstiti, giunge alla reggia. Qui Pirro, penetrato con i suoi nel palazzo, insegue Polite, figlio di Priamo, uccidendolo sotto gli occhi del padre. Poi afferra il vecchio re, che ha tentato inutilmente di colpirlo, e lo sgozza nel sangue del figlio, ai piedi dell’altare.
A tale vista Enea si ricorda dei suoi e, esortato a ciò anche dalla madre Venere, corre senza indugio a casa per condurli in salvo. Quindi, deciso a seguire l’ammonimento di Ettore, prende sulle spalle il padre Anchise, al quale affida i Penati, e col piccolo Ascanio per mano e seguito dalla moglie, fugge dalla città in fiamme. Ad un certo punto della fuga s’accorge, però, che nel trambusto ha smarrito Creusa. Tornato indietro a cercarla, gli appare l’ombra di lei che gli annuncia d’essere stata assunta fra gli dei. E’ l’alba. Enea torna dai suoi e, rimesso il padre sulle spalle, prende la via dei monti.


LIBRO III
L’eroe trova scampo ad Antandro, ai piedi del monte Ida, dove si sono rifugiati altri Troiani. Qui, durante l’inverno, fa costruire una flotta di venti navi sulle quali, al principio della primavera, s’imbarcano tutti i profughi di Troia. Hanno inizio così le lunghe peregrinazioni alla ricerca di una nuova patria.
Dapprima i Troiani approdano in Tracia, terra amica di Troia, dove, mentre Enea s’accinge a fondare una città, da chiamarsi Eneade, si verifica un fatto raccapricciante: dai rami di un mirto sgorga del sangue ed esce una voce lamentosa. E’ Polidoro, l’ultimo figlio di Priamo, che il padre aveva mandato presso Polinestore, re di Tracia, per sottrarlo alla guerra.
Ma il re, vista la cattiva sorte toccata a Troia, lo aveva ucciso per impadronirsi delle sue ricchezze. Ed ora Polidoro, trasformato in arbusto, esorta Enea a lasciare quella terra maledetta. Data solenne sepoltura a Polidoro, i Troiani riprendono il mare dirigendosi verso Delo, l’isola sacra ad Apollo.
Sono accolti benevolmente dal re Anio, vecchio amico di Anchise, e si recano ad interrogare l’oracolo del dio, il quale li ammonisce a “cercare l’antica Madre”. Seguendo il consiglio di Anchise, i profughi si recano a Creta, da cui era partito Tèucro, progenitore dei Troiani. Subito si mettono al lavoro per fondare una nuova città da chiamarsi Pergamèa, quando scoppia una terribile pestilenza che danneggia uomini, animali e mèssi. Convinti d’avere sbagliato, gli esuli decidono di abbandonare anche quel luogo. 
Durante la notte, i Penati appaiono in sogno ad Enea e gli additano l’Italia come la terra degli avi: l’Italia, donde venne il progenitore Dardano. Ripresa la navigazione, una furiosa tempesta sospinge i Troiani alle Stròfadi, le isole delle Arpie, creature dal volto di donna e dal corpo di uccello. Le quali, insozzando le mense, impediscono loro di magiare, mentre una di esse, Celeno, li atterrisce con funesti presagi. Fuggono di là e, risalendo il mar Ionio, sbarcano sul lido di Azio, dove celebrano giuochi e compiono sacrifici in onore di Apollo. Quindi, rimessisi in mare, giungono a Burtroto, nell’Epiro, dove regna Eleno, figlio di Priamo, che ha sposato Andromaca, la vedova di Ettore.
Essendo indovino, Eleno predice ad Enea le sue future peregrinazioni prima di giungere alla terra promessa dal Fato. Lo istruisce sul percorso da seguire e gli indica i segni per riconoscere il luogo dove dovrà fermarsi e fondare la città. Dopo uno scambio di preziosi doni, i Troiani sono nuovamente in mare e, al mattino seguente, vedono profilarsi all’orizzonte le coste dell’Italia. Prima Acate, e poi tutti gli altri la salutano con un grido di gioia: “Italia!Italia!”. Per evitare gli scogli di Scilla e Cariddi, girano attorno alla Sicilia, approdando ai piedi dell’Etna, nel paese dei Ciclopi dove raccolgono Achemenide, un greco dimenticato a terra da Ulisse.
Avvertiti del pericolo cui possono andare incontro, i Troiani hanno appena il tempo di fuggire, che Poliremo urlando si spinge nel mare per inseguirli. Sbarcano quindi a Drepano, l’odierna Trapani e là il vecchio Anchise muore. Salpano di nuovo, ma una violenta tempesta li sbatte sulle coste dell’Africa. E qui finisce il racconto di Enea.


LIBRO IV
Didone, ormai innamorata di Enea, trascorre la notte pensando a lui, senza mai trovar riposo. Al mattino si confida con la sorella Anna, che la incoraggia ad assecondare il nuovo sentimento, anche per i vantaggi che deriverebbero al regno dall’unione dei Cartaginesi con i Troiani. 
Confortata da queste parole, Didone accarezza volentieri l’idea di nuove nozze e, intanto fa sacrifici agli dei per renderseli propizi. Cerca di stare spesso in compagnia di Enea e tratta con affetto materno Ascanio, ma trascura i suoi doveri di regina, per cui nella città il fervore di opere cessa del tutto.
Giunone contenta di tenere Enea lontano dall’Italia, favorisce questa passione. D’accordo con Venere, fa si che durante una battuta di caccia, indetta dalla regina per onorare l’ospite scoppi un violento temporale: tutti si sparpagliano in cerca di riparo, mentre Didone ed Enea si ritrovano soli nella stessa grotta, e lì, col favore di Giunone pronuba, l’unione matrimoniale dei due si compie.
Preso la notizia si divulga. Jarba, re dei Getuli, che era stato respinto da Didono, si rivolge sdegnato al padre suo, Giove Ammone, chiedendo vendetta per l’affronto subito. E Giove manda Mercurio da Enea per ricordargli la missione che gli è stata affidata dagli dei, per ingiungergli di salpare alla volta dell’Italia.
Enea rimane atterrito, ma capisce che deve ubbidire al comando divino. Non trovando il modo di parlare con Didone, decide di partire all’insaputa di lei e, per tanto, ordina ai suoi di allestire in segreto la flotta. Didone però s’accorge dei preparativi e, sdegnata e pazza di dolore investe Enea con parole di rimprovero e di minaccia, ma pure di preghiera e di scongiuro. Enea, irremovibile nel suo proposito, le risponde tergiversando che non voleva partire segretamente, ma che neppure le aveva promesso di rimanere per sempre a Cartagine. Ed aggiunge che, suo malgrado, deve rispettare la volontà del Fato che, avendogli tolto la patria, lo spinge a fondarne una nuova in Italia. Allora Didone, guardandolo torva, gli manifesta tutto il suo disprezzo. Vada pure verso il proprio destino: lei morrà e, ombra implacata, lo seguirà ovunque per maledirlo.
Il “pio” Enea sebbene tormentato anche lui dalla passione d’amore, rimane saldo nel suo proposito ed affretta la partenza delle navi. Invano la regina, in un estremo tentativo, manda la sorella Anna a supplicarlo di trattenersi ancora un po’ di tempo, nell’attesa che spirino venti più propizi, per modo che Didone possa abituarsi all’idea del distacco. Allora l’infelice decide di morire. Persuasa da funesti presagi e torturata da sogni minacciosi, studia come attuare il triste proposito senza destare sospetti nella sorella.
Dice di voler ricorrere alle arti magiche per liberarsi dalle sofferenze dell’amore. Fa costruire a cielo aperto, un’alta pira di legna resinose e vi fa mettere sopra il letto nuziale, la spada, le vesti e l’effigie dell’eroe amato. Poi, assieme ad una maga, vi gira intorno celebrando rituali magici. Intanto Enea dorme tranquillo sull’alta poppa della nave, quand’ecco Mercurio apparirgli in sogno e, con parole concitate, sollecitarlo a partire perché Didone potrebbe, nella sua furia, dar fuoco alle navi. L’eroe sveglia subito i compagni e taglia con la propria spada gli ormeggi.
Allorquando Didone, sul far dell’alba, vede la flotta troiana navigare nel mare aperto, cade in preda alla più cupa disperazione. Invoca dagli dei una tremenda maledizione su Enea: che trovi nella nuova patria guerra e dolori; che muoia anzi tempo; e che perpetua sia la rivalità tra i suoi discendenti ed il popolo dei Tiri, cioè fra Roma e Cartagine. Poi, impaziente di morire, sale sul rogo e si trafigge con la spada avuta in dono da Enea. Pianti ed urli echeggiano nella reggia Anna sale sul rogo in tempo per raccogliere l’estremo respiro della sorella. La morente cerca con gli occhi tremanti la luce che fugge, poi manda un gemito e giace senza vita.


LIBRO V
Mentre la flotta veleggia in alto mare, Enea vede i bagliori del rogo di Didone e, benché non sappia la causa di quel fuoco, è contristato da foschi presentimenti.
Anche il mare è cupo e, intorno alle navi, sta addensandosi una minacciosa tempesta, sicchè Palinuro, il nocchiero della nave di Enea, suggerisce di puntare verso la Sicilia, dove potranno contare sull’ospitalità del troiano Aceste, re di Segesta. Lo stesso re, infatti, visto dall’alto l’arrivo delle navi amiche, si reca sul lido per riceverli ed offrire ad essi ospitalità e ristoro. La mattina seguente, ricorrendo l’anniversario della morte di Anchise, colà sepolto l’anno prima, Enea indice giochi funebri in suo onore. Poi muove verso la tomba del padre, dove immola vittime e fa libagioni di latte, vino e sangue. All’alba del nono giorno da inizio ai giochi, ai quali prende parte anche la gioventù del luogo.
Quattro sono le gare con ricchi premi per i vincitori: la regata, vinta dalla nave “Scilla” comandata da Clonato; la corsa a piedi, vinta da Eurialo col favore di Niso; la lotta del cesto (pugilato), vinta dal siciliano Entello sul troiano Darete; la prova dell’arco, vinta da Eurizione, ma il premio viene consegnato al vecchio Aceste, la cui freccia, volando tra le nubi, ha preso fuoco lasciando dietro di sé una scia luminosa. Si svolge, poi, un torneo di fanciulli a cavallo: tre squadre, di dodici giovinetti ciascuna, compiono una specie di danza equestre o di finta battaglia. S’impone tra tutti, per bellezza e bravura, Ascanio, il quale cavalca un destriero donatogli da Didone.
La giornata sta per concludersi lietamente, quando Giunone manda Iride ad istigare le donne troiane che, stanche del continuo peregrinare, appiccano il fuoco alle navi. Al divampare del fuoco tutti corrono al porto, ed Enea, in preda ad un profondo scoraggiamento, invoca l’aiuto di Giove, il quale, impietosito, rovescia dal cielo una violenta pioggia che spegne l’incendio.
Purtuttavia, quattro navi sono andate perdute. Enea, ora, è incerto sul da farsi. Ma nella notte gli appare l’ombra del padre, che lo esorta a seguire il consiglio del vecchio Naute, il quale propone di fondare in Sicilia una città dove lasciare le donne, i vecchi e i malati, e di continuare il viaggio solo con i più giovani e forti.
Anchise aggiunge che, prima di sbarcare nel Lazio, l’eroe dovrà discendere nell’Averno per incontrarsi con colui che gli svelerà i suoi destini gloriosi. Il “pio” Enea, determinato a seguire la volontà degli dei, traccia i solchi della nuova città per coloro che rimangono: essa si chiamerà Acesta ed avrà come re l’amico Aceste. Inoltre, sul monte Erice getta le fondamenta di un tempio a Venere, sua madre.
Dopo nove giorni di feste e sacrifici, viene il momento della partenza. Abbracci e pianti a non finire, quindi le navi salpano per l’Italia col vento in poppa. Venere ha ottenuto una felice navigazione per il figlio.
Ma il dio del mare ha preteso in cambio il sacrificio di una vittima umana: sarà Palinuro, il nocchiero della nave di Enea, il quale, ingannato dal Sonno, s’addormenta e precipita in mare insieme al timone. Enea, svegliatosi presso gli scogli delle Sirene, avverte la mancanza del nocchiero: corre subito a prendere il posto dell’amico e ne piange amaramente la morte.


LIBRO VI
Le navi approdano finalmente a Cuma. Mentre i compagni vanno a tagliare legna e a cercare acqua, Enea sale sulla rocca, dov’è il tempio di Apollo, vicino alla grotta della Sibilla. L’eroe si sofferma a contemplare il tempio costruito da Dedalo, sulle porte del quale sono raffigurate le tragiche vicende di Androgeo e del Minotauro. Ma ecco che avanza la Sibilla: la sacerdotessa invita Enea a celebrare i sacrifici ad Apollo e, compiuto il rito, ad entrare nella sua grotta. Qui Enea invoca il potente dio, protettore dei Troiani, perché ponga fine al suo lungo peregrinare e gli conceda finalmente di fondare il regno promesso. Allora la Sibilla, invasa dallo spirito profetico di Apollo, tutta agitata e tremante, pronuncia l’atteso vaticinio:” I Troiani giungeranno nel Lazio, però vi troveranno guerra e sangue. Ma alla fine, anche per l’aiuto di una città greca, saranno salvi e vincitori”. Placatasi la sacerdotessa. Enea la prega di condurlo nei Campi Elisi perché possa incontrarsi col padre, ed ella risponde che prima dovrà cogliere un ramoscello d’oro, sacro a Proserpina, e dare sepoltura al compagno Miseno. Infatti Miseno, il trombettiere di Enea, giaceva cadavere sul lido. Avendo osato sfidare Tritone nel suono della tromba, il dio sdegnato lo aveva fatto cadere nell’acqua e morire annegato. Si decide di rendere onori funebri al morto.
Tutti vanno nel bosco a raccogliere legna per il rogo; anche Enea, il quale, guidato da due colombe messaggere di Venere, giunge presso un albero che ha un ramoscello d’oro. Subito lo stacca e corre dalla Sibilla. Dopo aver compiuto le esequie di Miseno, cui dà sepoltura sul promontorio che da lui prese nome, Enea offre sacrifici agli dei infernali, perché gli concedano di entrare nel regno dei morti.
All’ordine della Sibilla, Enea si inoltra con lei nell’oscurità di un vestibolo, dove s’aggirano fantasmi spaventosi che personificano i peggiori mali che tormentano l’umanità: le Malattie, la Fame, la Miseria, la Paura, la Guerra, la Morte, e così via. Nel mezzo sorge l’albero dei Sogni, mentre i mostri mitologici (Centauri, Scilla, Briareo, Idra, Gorgona, Chimera…) sono a guardia delle porte. Enea, spaventato, impugna la spada, ma la Sibilla lo ammonisce che sono vane ombre.
Sulla riva dell’Acheronte, fangoso e torbido, l’eroe vede le anime degli insepolti, condannati a vagare per cent’anni prima di essere accolti nella barca di Caronte. Fra essi Enea scorge Palinuro, il nocchiero caduto in mare, che gli racconta come venne assalito ed ucciso da gente crudele che lasciò abbandonato il suo corpo sulla spiaggia. Ma quella stessa gente crudele – la Sibilla lo rassicura – gli darà solenne sepoltura e chiamerà col suo nome il promontorio dove morì. Caronte,intanto, scorge Enea e gli intima di fermarsi: non lo traghetterà, perché è vivo. Ma le parole della Sibilla e la vista del ramoscello d’oro fanno sì che il nocchiero s’acquieti e li trasporti entrambi. Sull’altra sponda trovano, a guardia dell’Antinferno, Cerbero che latra rabbiosamente.
La Sibilla gli getta una focaccia soporifera ed il mostro si addormenta. I due entrano così, senza difficoltà, nel regno dei morti. Appena dentro odono un confuso suono di voci e di vagiti infantili: sono le anime dei bambini morti anzitempo, quelle dei condannati a morte ingiustamente, dei suicidi e dei guerrieri caduti. Giudice di tutte queste anime è Minosse.
Nei campi del pianto, fra le anime dei suicidi per amore, Enea scorge Didone. Le si avvicina e, piangendo, le rivolge parole affettuose, ma la regina non risponde e, guardandolo biecamente, s’allontana da lui per accostarsi all’ombra del marito Sicheo. Fra i guerrieri Enea incontra molto Troiani, e tutti si affollano intorno a lui desiderosi di parlare, mentre i Greci fuggono atterriti. Enea si intrattiene a lungo con Deifobo, figlio di Priamo, che gli narra la sua tristissima fine. Il colloquio è interrotto dalla Sibilla che mostra ad Enea un bivio: di qua c’è il Tartaro, dove sono puniti eternamente i malvagi, di là i Campi Elisi.
Nel Tartaro i giusti non possono entrare, sicchè ad Enea non è permesso vederlo. Dall’alto di una torre vigila Tisifone, una delle tre Furie. All’interno vi è il giudice Radamanto che, dopo aver giudicato le anime, le precipita giù nell’abisso. Attorno al Tartaro, cinto da una triplice muraglia, scorre la corrente infuocata del Flegetonte. Ripreso il cammino i due giungono ai Campi Elisi. Enea appende sulla porta il ramoscello d’oro in omaggio a Proserpina ed entra nei luoghi ameni – verdi prati, boschi, ruscelli- dove i buoni conducono una beata esistenza.
Il poeta Museo guida Enea da Anchise che muove incontra al figlio, felice di rivederlo sano e salvo. Enea, piangendo di commozione, vorrebbe abbracciare il padre, ma per tre volte l’ombra sfugge al suo amplesso. Poco distante da lì, presso la riva del fiume Lete, s’aggira una folla leggera di anime simili a sciami d’api sui fiori. Quelle anime -spiega Anchise- sono destinate a trasmigrare in altri corpi, dopo aver bevuto nel Lete l’oblio della precedente vita terrena. Fra di esse, Anchise addita al figlio le anime che, rinnovando la prole dardania, diventeranno i suoi gloriosi discendenti.
Ecco Silvio, che nascerà da Enea e da Lavinia, poi i re di Albalonga, e Romolo fondatore di Roma, e via via, fino a Cesare e ad Augusto, che porterà l’impero ai confini del mondo. E la rassegna termina con l’esaltazione della missione civilizzatrice di Roma. Quindi Enea prende commiato dal padre ed esce dall’Averno. Raggiunti i compagni, s’imbarca con essi alla volta di Gaeta, dove, appena giunto, fa ancorare le navi.

LIBRO VII
A Gaeta muore la vecchia nutrice di Enea, Caieta, che viene sepolta in quel golfo e gli dà il nome. Dopo il funerale, Enea si rimette in mare e, costeggiata la terra della maga Circe, approda presso la foce d’un grande fiume. E’ il Tevere, il tanto sospirato Tevere, che scorre nel Lazio dove regna il vecchio re Latino, padre di un’unica figlia, Lavinia, promessa sposa di Turno, re dei Rutili.
La regina Amata, preferendo Turno agli altri principi italici, è lieta di averlo come genero, tanto più che egli è suo nipote. Ma re Lavinio, credendo nel vaticinio di un oracolo, attende un genero straniero, venuto di lontano, la cui stirpe è destinata a dominare il mondo.
Dall’avverarsi di alcune profezie, Enea comprende che quella è la terra assegnatagli dai fati. Offre sacrifici agli dei e manda cento cavalieri con ricchi doni al re Latino, per chiedergli un’accoglienza ospitale.
Intanto, traccia con lieve solco la cinta delle mura per la nuova città, munendola di terrapieni e steccati. Nella sontuosa reggia di Laurento, i Troiani sono accolti favorevolmente dal re, il quale, vedendo avverarsi l’antico presagio, offre ad Enea la sua amicizia e la mano della figlia Lavinia. Ben venga, dunque, da lui ospite da tempo atteso. E, ricambiando i doni, gli manda un occhio ed una coppia di valenti destrieri.
Ma Giunone sta in guardia. Ella sa che i discendenti di Enea fonderanno Roma, e che Roma, un giorno, distruggerà Cartagine, la sua città prediletta. Per questo, traendo profitto dalla situazione, accende gli animi contro Enea. Manda la furia Aletto a suscitar discordie: prima dalla regina Amata e poi da Turno. La regina, eccitata da un insano furore, inveisce contro Latino, ostinato a sposare la figlia ad un esule di Troia, poi si mette a correre come una baccante per le vie della città, trascinandosi dietro altre donne e la stessa figlia Lavinia, che consacra, fra urli e moti scomposti al dio Bacco. A sua volta Turno rompe i patti col re Latino e, spinto da un atroce desiderio di vendetta, chiama a raccolta i Rutili per muovere guerra a Troiani e Latini insieme. Intanto, sempre per opera di Aletto, Ascanio ferisce a morte un cerco che Tirro, pastore del re, aveva addomesticato e custodiva con grande amore. L’episodio suscita l’indignazione dei contadini che, armati di bastoni, si scagliano contro i Troiani.
Ne nasce una zuffa sanguinosa con morti e feriti da entrambe le parti. Amata e Turno, forti delle grida bellicose provenienti dalla folla, ne traggono un valido motivo per indurre Latino a dichiarare guerra ad Enea. Ma il re non cede: piuttosto che macchiarsi di una tal colpa contro i decreti del Fato, egli depone il potere e si ritira. Allora Giunone stessa spalanca le porte del tempio di Giano, la cui apertura precedeva la dichiarazione di guerra, e tutta l’Ausònia, prima pacifica e tranquilla, è percorsa da un solo terribile grido: “Guerra!”. Febbrilmente si fabbricano nuove armi e tutti si addestrano per prepararsi allo scontro imminente.
Il poeta, dopo aver invocato nuovamente le Muse, passa in rassegna i guerrieri italici corsi in aiuto dei Rutili. C’è l’etrusco Mezenzio, spregiatore degli dei, col figlio Lauso; Aventino, figlio di Ercole; i fratelli Cavillo e Cora, con gli abitatori di Tivoli; Messalo, figlio di Nettuno, che guida i Fescenni ed i Falasci; Clauso, con la gente della Sabina; il medico Umbrone con i Marsi; Ebalo con i Campani; e tanti, tanti altri che sosterranno Turno nella rivendicazione dei suoi diritti. Infine, c’è Camilla, regina dei Volsci, donna forte e gentile che guida uno squadrone di cavalieri. Tutti accorrono al suo passaggio per ammirarla.


LIBRO VIII
Turno inalbera sulla rocca di Laurento il vessillo che dà il segnale della guerra: da ogni parte accorrono schiere di guerrieri armati. Per avere altri aiuti contro l’odiato nemico, Turno manda un’ambasceria in Puglia, dove l’eroe greco Diomede ha fondato la città di Arpi. 
Intanto Enea, ammonito in sogno dal dio Tiberino, prepara due biremi con cui salire il corso del fiume: si recherà a Pallanteo, la città fondata dal greco Evandro, per stringere con lui un patto d’alleanza. Ed ecco uscire dalla selva una candida scrofa con trenta porcellini: è questo il segno, come gli aveva predetto Eleno, che là deve stabilire la sua sede. Subito Enea immola quelle vittime a Giunone per propiziarsi la dea nemica e comincia a navigare nel Tevere mentre le acque calme e le selve verdeggianti guardano stupite quell’insolito spettacolo. Quando raggiunge Pallanteo – una piccola città murata sul colle Palatino -, il re Evandro con il figlio Pallante ed i migliori Arcadi stanno celebrando un solenne sacrificio ad Ercole. Nel vedere navi piene di armati, quelli balzano in piedi atterriti, ma Pallante va arditamente incontro agli stranieri e chiede loro chi siano, e se rechino guerra o pace. Enea, tendendo dalla nave un ramo d’olivo, risponde breve e preciso alle domande. Poi, invitato a sbarcare viene condotto da Evandro.
Il re, che un tempo in Arcadia, aveva ospitato Anchise, lo accoglie con affettuosa benevolenza e, dopo averlo ascoltato, gli promette di essere suo alleato contro i Latini. Per cominciare, Enea parteciperà al banchetto preparato in onore di Ercole. Dopo aver mangiato e bevuto, Evandro spiega che l’origine del culto di Ercole in quei luoghi è collegato con l’uccisione, da parte del dio, di Caco, un mostruoso gigante e ladrone sanguinario che spargeva il terrore nella contrada.
Ad Ercole liberatore fu costruita l’Ara massima intorno alla quale, ogni anno, si celebrano riti di ringraziamento. Finita la festa, tutti scendono verso la città, e, cammin facendo, Evandro racconta all’ospite la storia dell’antichissimo Lazio. Un tempo quei boschi erano abitati da Fauni e Ninfe e da uomini selvaggi usciti dai tronchi delle querce. Ma quando Saturno, cacciato dall’Olimpo venne qui a rifugiarsi, diede savie leggi a quelle rozze genti. Fu “l’età dell’oro”: gli uomini vivevano in pace, lavorando la terra e ignorando le ingiustizie.
Ma poi i tempi mutarono e si passò all’età dell’argento e quindi a quella del ferro. Mutarono pure i dominatori: sulla terra chiamata Saturnia giunsero gli Ausoni, che le cambiarono il nome in Ausonia, più tardi i Sicani; quindi il re Tebro, da cui prese il nome il fiume. Ultimo giunse lui, Evandro, insieme con la madre Carmenta, sacerdotessa di Apollo. Ciò detto, Evandro mostra ad Enea i luoghi dove sarebbe sorta un giorno la Città Eterna, dall’asilo di Romolo al Lupercale, dall’Argileto alla Rupe Tarpea, dal Campidoglio al Foro. Arrivano insieme alla modesta dimora di Evandro, sul Palatino, dove Ercole non sdegnò di riposarsi. E l’eroe troiano si sdraia, per riposare, su un mucchio di foglie coperte dalla pelle di un orsa. Durante la notte, Venere si reca dal marito Vulcano e, con vezzi e moine, ottiene che fabbrichi armi belle e robuste per Enea.
All’indomani, sull’alba, Evandro ha un colloquio con l’eroe troiano. Il buon re può offrirgli in aiuto solo quattrocento cavalieri condotti dal figlio Pallante, ma gli dà un buon consiglio: si rechi nella città etrusca di Cere, i cui abitanti hanno cacciato il tiranno Mezenzio, che ora è ospitato e protetto da Turno; chieda alleanza agli Etruschi, i quali, sperando di avere nella mani Mezenzio per dargli la morte, accetteranno volentieri la richiesta, giacchè una profezia ha loro detto che, per ottenere la vittoria, debbono farsi guidare da un duce straniero.
Il consiglio di Evandro lascia commosso e pensoso Enea, ma un segno propizio di Venere lo avverte che le armi sono già pronte per lui.
Compiuto il rito sacrificale, Enea ritorna alle navi e divide i compagni in due schiere: parte dei Troiani tornerà al campo presso Ascanio, parte seguirà lui e Pallante a Cere, presso Tarconte, re etrusco. Enea e i suoi sono quasi giunti alla meta, quando decidono di riposarsi. A questo punto Venere vedendo il figlio solo, in disparte, discende rapidamente dal cielo e gli consegna le splendide armi foggiate da Vulcano.
L’eroe, lieto di tanto onore, ne contempla stupito la straordinaria bellezza, ma soprattutto ammira lo scudo nel quale Vulcano ha raffigurato i più grandi eventi ed i personaggi più illustri della Roma futura, fino al trionfo di Augusto celebrato sullo sfondo dell’Urbe plaudente e festante.


LIBRO IX
Frattanto Giunone, approfittando dell’assenza di Enea, manda Iride da Turno per suggerirgli di attaccare subito il campo troiano. Il prode re dei Rutuli, bramoso com’è di combattere, rompe gli indugi e avanza contro il nemico, scagliando in aria una freccia in segno di sfida; ma i Troiani, obbedienti all’ordine impartito da Enea, non rispondono alla provocazione e rafforzano le difese. Allora Turno s’avventa contro le navi riparate dietro un argine e, con una fiaccola accesa, vi appicca l’incendio. Ma Cibele tramuta in ninfe oceanine quelle navi costruite con il legno del monte Ida, nel bosco a lei sacro. I Rutuli sono atterriti dal prodigio, ma Turno, interpretandolo come un lieto auspicio, rassicura i suoi dicendo che Giove ha voluto privare i troiani di ogni possibilità di fuga e condannarli allo sterminio. Pertanto, sicuro della vittoria, dispone per il mattino seguente l’assalto al campo nemico, ordinando ai Rutuli di accamparsi sul posto ed a Messalo di sorvegliare le porte e di accendere fuochi intorno alle mura. Ma pure i Troiani vegliano per sventare un eventuale aggressione. A custodia delle porte stanno due giovani noti per la loro fraterna amicizia, Eurialo e Niso; costoro decidono di attraversare il campo dei Rutuli per andare da Enea ed avvertirlo del grave pericolo che incombe sui Troiani. Penetrati nottetempo nell’accampamento nemico, uccidono molti valorosi guerrieri, distesi qua e là sull’erba, immersi nel sonno e storditi dal vino. Ma poi, sul far dell’alba, sono avvistati da una schiera di cavalieri latini che, guidati da Volscente, vengono in soccorso di Turno. 
I due giovani fuggono nel bosco vicino: Niso corre più spedito e riesce a mettersi in salvo, ma quando si avvede di non essere seguito dall’amico, torna indietro e scorge Eurialo già circondato dai nemici. Allora scaglia, uno dopo l’altro, due dardi che colpiscono a morte due nemici. Volscente, infuriato, si slancia contro Eurialo per vendicare la morte dei suoi cavalieri. Niso, a tale vista, esce dal folto del bosco e grida :”Me, me uccidete! Io ho colpito! Tutta mia è la colpa!”. Ma la spada di Volscente ha già trafitto Eurialo che cade come un fiore reciso dall’aratro. Allora, pazzo di dolore, Niso si scaglia contro Volscente e l’uccide, ma poi, trafitto da mille dardi, cade morto sul corpo esamine dell’amico.
Le teste dei due giovani, conficcate in cima a due grandi aste, vengono mostrate ai Troiani: spettacolo miserando per tutti, ma crudelissimo per la madre di Eurialo che piange disperatamente il suo bel figliuolo. 
Squilla la tromba di guerra. I Volsci, schierati a testuggine, muovono all’assalto delle mura, ma la strenua resistenza degli assediati li scompiglia. Turno riesce, tuttavia, ad appiccare il fuoco ad una torre di legno, che precipita giù travolgendo i suoi difensori. La mischia divampa feroce e, da una parte e dall’altra, molti sono i caduti. In questa circostanza Ascanio compie il suo primo atto di valore, uccidendo Remolo, cognato di Turno, mentre avanza baldanzoso e lancia insulti sanguinosi e parole di scherno ai Troiani. Pandaro e Bizia, due fratelli di natura gigantesca, aprono la porta che avevano in custodia e, piantandosi ai lati come due torri, massacrano i Latini che irrompono in massa. Si precipita anche Turno, ed uccide Bizia. Allora Pandaro, compiendo uno sforzo erculeo, riesce a chiudere la porta, lasciando dentro alcuni nemici, fra cui lo stesso Turno. Il quale continua a combattere con la ferocia di una tigre, ammazzando Pandaro e quanti gli si parano davanti. Alla fine i Troiani, animati da Mnesteo e Seresto, lo circondano, lo stringono da presso, lo costringono ad arretrare lentamente verso il fiume. Qui Turno, coperto da una pioggia di frecce, si getta armato nel biondo Tevere che, paternamente benigno, lo trasporta incolume in mezzo ai suoi compagni.


LIBRO X
Giove raduna gli dei a concilio e deplora chi contrasta il volere del Fato parteggiando per questo o quel contendente. Venere e Giunoneinsorgono a difendere ciascuna le proprie ragioni, ma Giove, inflessibile, emette la sentenza:” Nessuna differenza tra Troiani e Rutuli: ciascuno sia artefice del proprio destino, senza intervento di dei né pro né contro i combattenti”. E sigilla il comando con un solenne giuramento che fa tremare l’Olimpo. La guerra si riaccende furiosa. 
Da una parte , i Rutuli intensificano l’assedio con incendi e stragi, dall’altra i Troiani, ed Ascanio in mezzo a loro, compiono grandi atti di valore. Intanto giunge Enea che, ottenuta l’alleanza degli Etruschi, è accompagnato da una flotta di trenta navi guidate da prodi guerrieri: vengono da Chiusi, da Populonia, dall’isola d’Elba, da Pisa, da Mantova….Ad affrettarne l’arrivo, gli era corsa incontro una schiera di ninfe: quelle stesse in cui Cibele aveva trasformato le navi per sottrarle al fuoco dei Rutuli. Una di esse, Cimodocea, lo informa di tutto e lo esorta ad attaccare battaglia per primo. Non appena in vista del campo, Enea sale sulla poppa ed inalbera lo scudo fiammeggiante. Da lontano gli assediati lo vedono e levano un grido esultante di gioia. I Rutuli restano per un attimo sgomenti, ma Turno li sprona ad occupare il lido prima che avvenga lo sbarco. Enea riesce a prevenirlo e, con ordini rapidi, fa sbarcare i suoi compagni. Poi attacca per primo uccidendo Terone, un gigante formidabile, e abbattendo numerosi altri nemici. S’accende feroce la lotta con atti di valore da entrambi le parti e reciproca strage. I cavalieri Arcadi, non essendo avvezzi a combattere appiedati, stanno sul punto di sbandarsi quando interviene Pallante che li rimprovera, li rincuora, li sprona con l’esempio gettandosi coraggiosamente nel folto della mischia. Trascinati dall’esempio, i suoi si battono strenuamente riuscendo a tener testa al nemico. Pallante compie prodigi di valore, finchè si trova di fronte Lauso, figlio di Mezenzio. Sono due giovani avversari, entrambi belli e prodi, e Giove non vuole che si azzuffino tra di loro, perché debbono avere l’onore di cadere per mano di più potenti nemici. Allora Turno, ispirato dalla ninfa Diuturna, sua sorella, prende il posto di Lauso e muove superbamente contro Pallante. Il quale, affrontandolo con coraggio, lancia per primo l’asta, ma il colpo cade a vuoto. Turno, invece, colpisce a morte il giovinetto, trapassandogli lo scudo, la corazza e il petto. Poi calpesta col piede il cadavere e lo spoglia del cinto d’oro. La morte di Pallante, fedele alleato ed amico, fa sorgere nell’animo di Enea la brama della vendetta. Con la spada sguainata, corre furente in cerca di Turno e, intanto, uccide quanti nemici gli si parano davanti. Giunone, in cielo, ottiene da Giove di ritardare la morte di Turno e, discesa sulla terra, foggia una finta immagine di Enea che fugge; Turno la vede e, imbaldanzito, si slancia all’inseguimento, incalzandola lungo la riva, fin sopra una nave. Allora Giunone, che non aspettava altro, taglia gli ormeggi e spinge la nave al largo. Il fantasma ora scompare e Turno si accorge dell’inganno: per la vergogna vorrebbe suicidarsi, ma la dea lo trattiene dall’insano proposito. Frattanto è trasportato dalle acque alla città di Ardea, sua patria. Sul campo, il feroce Mezenzio prende il posto di Turno e rialza un po’ le sorti della battaglia che volgono male per i Latini. Furioso come un leone affamato in cerca di preda, ferisce, uccide e spoglia delle armi i nemici che gli impediscono il passo. Enea lo vede di lontano e gli muove contro: il duello è inevitabile. Il dardo lanciato da Mezenzio viene respinto dallo scudo di Enea, opera di Vulcano, e ferisce un altro guerriero. Invece l’asta di Enea, trapassato lo scudo del nemico, si conficca nella coscia di Mezenzio. Il quale cadrebbe sotto la spada dell’eroe se Lauso non proteggesse col proprio scudo il padre. Enea urla minaccioso a Lauso di ritirarsi, ma il giovane non abbandona l’impresa, anzi provoca ed insulta Enea, finchè un colpo di spada dell’eroe troiano lo atterra in un lago di sangue. Enea stesso geme pietoso sul suo cadavere – Lauso è una vittima generosa dell’amor filiale – e consente ai compagni di portarselo via con addosso le care armi. Mezenzio riceve le spoglie del figlio mentre sta sulla riva del Tevere a medicarsi la grave ferita. Pazzo di dolore, impreca contro se stesso e maledice le colpe che lo hanno fatto cacciare dal trono. Ma lui, lui solo doveva espiarle, non l’innocente Lauso. Che gli rimane ora se non morire? Monta faticosamente a cavallo e, lanciandosi fra le schiere, muove alla ricerca di Enea. Il Troiano, che è a piedi, prima gli uccide il cavallo, poi gli punta la spada nella gola. E Mezenzio, pronto a ricevere il colpo mortale, gli chiede solo di essere sepolto accanto al figlio.


LIBRO XI
All’alba Enea, con le armi di Mezenzio, innalza un gran trofeo a Marte. Quindi esorta i suoi a seppellire i cadaveri ed a prepararsi per la nuova battaglia. Il suo pensiero è rivolto in particolare al giovane Pallante, la cui salma è stata vegliata tutta la notte dal vecchio Acete, scudiero di Evandro, e da una folla di Troiani: le donne con le chiome disciolte in segno di lutto. Enea, col pianto che gli sale in gola, rivolge un commosso saluto all’amico morto; poi dispone che si formi un corteo di mille soldati per riportare ad Evandro la salma del figlio. Seguono il feretro, intessuto con rami di quercia e di albatro, i trofei tolti ai nemici uccisi e, con le mani legate dietro la schiena, i prigionieri destinati ad essere immolati sul rogo di Pallante. Da Laurento vengono, intanto, gli ambasciatori latini a chiedere una tregua per poter dare sepoltura ai loro morti. L’eroe accoglie benignamente la richiesta, dichiarando che accorderebbe volentieri la pace anche ai vivi, perché non nutre rancore contro di loro: egli è venuto nel Lazio per volere del Fato, non per combattere i Latini, e sarebbe stato più giusto che Turno, il quale vuole opporsi al destino, avesse combattuto in duello con lui. I Latini si guardano stupiti e il vecchio Drance, irriducibile avversario di Turno, rivela che molti a Laurento non vogliono la guerra e promette che interporrà i suoi buoni uffici per la pace. Si pattuisce così una tregua di dodici giorni, durante i quali Troiani e Latini tagliano liberamente legna nei boschi per gli innumerevoli roghi da costruire. Frattanto il corteo funebre giunge a Pallanteo: il vecchio Evandro, in preda al più straziante dolore, esce dalla reggia e va incontro alla bara. Dopo aver ripetutamente baciato ed abbracciato il figlio, prorompe in angosciosi lamenti. Ormai non gli resta che prolungare l’odiosa vita quel tanto che basta per portare a Pallante, nell’Ade, la notizia della morte di Turno per mano di Enea. A Laurento, capitale dei Latini, si piangono i caduti e si impreca contro la guerra. Ad attizzare il dolore e lo sdegno, il vecchio Drance va ripetendo che la guerra potrebbe terminare subito se Turno fosse disposto ad affrontare Enea in duello. E’ ritornata, intanto, l’ambasceria presso Diomede:: l’esito è negativo, perché l’eroe greco è contrario alla guerra e consiglia di trattare la pace. Allora Latino raduna il consiglio e, udita la relazione di Venulo, capo dell’ambasceria, propone di concludere la pace con Enea: concedendogli un tratto di territorio presso il Tevere, se egli vorrà stabilirsi là, oppure fornendogli le armi necessarie, se vorrà cercare altre terre. Prende la parola Drance che approva la proposta di Evandro, ma esorta il re a concedere ad Enea anche la mano di Lavinia. Quanto a Turno, se vuol risparmiare il sangue di tanti innocenti, decida con un duello chi dei due, Enea o lui, debba sposare Lavinia. Con l’animo colmo di sdegno, Turno risponde che è pronto a combattere da solo, ma che bisogna difendere la patria minacciata da in nemico invasore. Se manca l’aiuto di Diomede, molti altri valorosi combattono al fianco dei Latini. Mentre ancora si discute, giunge la notizia che i Troiani avanzano contro la città. Tutti corrono alle difese. Turno balza fuori per combattere, ma incontra Camilla che gli propone un piano di battaglia: lei stessa, con i suoi cavalieri Volsci, affronterà la cavalleria nemica, mentre Turno s’apposterà con la fanteria sui monti per tendere un agguato ad Enea costretto a passare di là. Ma Diana, vedendo Camilla andare incontro alla morte, chiama una delle sue ninfe, Opi, e le ordina di uccidere chi oserà ferire l’eroina a lei consacrata, ancora bambina, dal padre Metabo e tanto a lei cara. La battaglia infuria sotto le mura di Laurento: lo scontro fra la cavalleria troiano-etrusca e quella latina è tremendo. A ondate, ora l’una ora l’altra cavalleria avanza e si ritrae. E’ strage aperta: la vergine Camilla esulta e lancia dardi o maneggia la bipenne, e tanti sono i colpi, tanti i nemici atterrati. Ma, purtroppo, anche per lei si avvicina l’attimo fatale.. Mentre l’eroina sta inseguendo Cloreo, già sacerdote di Cibele, attratta dalla magnificenza delle sue vesti e delle sue armi, l’etrusco Arrunte, che stava spiando il momento propizio, scaglia un dardo che trafigge il petto di Camilla. La giovane tenta di togliersi la freccia dalla ferita, ma sente la morte avvicinarsi , per cui prega Acca, la più fedele delle sue amiche, di recarsi subito da Turno a dirgli che prenda il suo posto. Qualche istante dopo scivola da cavallo, reclina il capo e muore. Arrunte gioisce, ma solo per poco, giacchè Opi tende l’arco e lo stende morto nella polvere. Caduta Camilla, la cavalleria dei Volsci si disperde nella fuga. Fuggono pure Latini e Rutuli che si dirigono verso la città. Sotto le mura la lotta cresce in accanimento e ferocia: anche le donne si armano e, dall’alto dei bastioni, lanciano dardi e sassi sul nemico. Intanto Turno, che ha ricevuto il messaggio di Camilla morente, lascia precipitosamente il luogo dov’era in agguato per correre verso Laurento. In tal modo Enea, che marcia verso Laurento, trova via libera ed avanza speditamente. Ma sopraggiunge la notte e la battaglia è rimandata all’indomani.


LIBRO XII
Vedendo i Latini ridotti a mal partito, Turno decide di battersi in singolar tenzone con Enea per mettere fine alla guerra. Invano il vecchio re Latino lo prega di accontentarsi del regno paterno e di rinunciare a Lavinia, destinata dal cielo ad un principe straniero. Inutilmente la regina Amata lo supplica di non affrontare con le armi Enea. Esortazioni e lacrime lo infiammano ancora di più, facendolo vibrare di sdegno e di gelosia: egli non intende affatto ritirarsi da una prova in cui è in balli il suo onore. Pertanto, manda un araldo ad Enea per sfidarlo a duello: all’alba si trovi sul campo pronto a disputarsi la mano di Lavinia. Durante la notte, Turno prova le armi e si prepara al prossimo cimento, desideroso di combattere come un toro irato. Enea, da parte sua, è lieto di poter finire la guerra col duello, e conforta i compagni ed Ascanio ricordando loro le profezie dei vati.
Troiani e Rutuli, appena spuntata la luce del giorno, apprestano il campo dove si svolgerà il duello e, nel mezzo, vi innalzano gli altari per i sacrifici comuni. Indi, poggiando a terra lance e scudi, occupano ciascuno il proprio posto, mentre sull’alto dei tetti e delle torri le donne, i vecchi ed i bambini attendono di vedere la lotta. Tutto è pronto per la sfida, Latino e Turno da una parte, Enea ed Ascanio dall’altra hanno giurato il patto: se la vittoria toccherà a Turno i Troiani si ritireranno nella città di Evandro; se vincerà Enea, egli costruirà una nuova città cui darà il nome della sposa Lavinia e Troiani e Latini convivranno insieme sotto uguali e con uguali diritti. Un sacerdote getta sul fuoco le vittime sgozzate il duello comincia. Ma presto dalla parte dei Rutuli, si nota un movimento incomposto: essi già ritenevano ineguale il combattimento ed ora vedono Turno agitato, pallido ed incerto. Ne approfitta la ninfa Diuturna, sorella di Turno, che prende le sembianze di Camerte, un valoroso e nobile guerriero e spinge l’augure Tolumnio a scagliare un dardo che ferisce mortalmente un etrusco. In breve la battaglia divampa di nuovo violenta. Vanamente Enea, ricordando i patti giurati cerca di frenare l’ira e di riportare la calma. Anzi, proprio mentre parla è ferito da una freccia, lanciata non si sa da chi e posto fuori combattimento. Turno se ne accorge e, ridiventato impetuoso, vola tra le schiere troiane seminando strage e spavento. Ma Enea ricompare presto sul campo. Ha pensato a curarlo la madre Venere la quale, servendosi d’un miracoloso rimedio, ha guarito perfettamente la sua ferita al ginocchio. Riarmatosi, l’eroe riprende a combattere con più forza di prima. Uccide chiunque gli si pari davanti, ma cerca Turno, lui solo, e lo chiama a gran voce al duello. Ma Giuturna, preso l’aspetto di Metisco, l’auriga di Turno, conduce il cocchio lontano dalla zuffa, con l’intento di salvare il fratello. Ferve intanto la battaglia. Un’orrenda carneficina viene compiuta da entrambe le parti. A questo punto Venere suggerisce ad Enea di portare l’assalto a Laurento e di appiccare il fuoco alle mura. Alla vista delle fiamme, la regina Amata crede che tutto sia perduto e si impicca nelle sue stanze. 
Latino e Lavinia cadono in preda alla disperazione. Intanto Turno, accortosi dell’inganno di Diuturna, si ribella. Preso da vergogna e furore, balza giù dal cocchio, e aprendosi la via fra le schiere nemiche, corre verso lele mura della città in fiamme. A voce altissima invita Rutuli e Troiani a deporre le armi, perché lui solo combatterà. Enea ode la parole di Turno ed esultante di gioia accoglie la sfida.
Tutti smettono di combattere per assistere la singolare tenzone. I due si lanciano l’uno contro l’altro come tori infuriati. Turno, per il primo, mena un gran fendente, ma la spada, sbattendo sull’elmo di Enea si spezza come se fosse di ghiaccio. Nella fretta, quando era balzato giù dal cocchio, aveva preso la spada si Metisco anziché la sua. Disperato, fugge chiedendo la propria spada ai Rutuli, ma Enea minaccia di morte chiunque osi accostarsi al re. Intanto lo insegue, incalzandolo, e ben cinque volte compiono il giro del campo. Il troiano non può colpire da lontano il fuggiasco, perché l’asta si è conficcata nelle radici d’un ulivo sacro a Fauno, divinità favorevole a Turno, ed egli non trova modo di estrarla. Sennonché avviene che Giuturna porti la spada a Turno e Venere l’asta ad Enea, ragion per cui i due campioni tornano nuovamente l’uno di fronte all’altro, e la lotta riprende con maggiore foga. In cielo, frattanto, Giove e Giunone concludono un accordo: Enea vincerà, Troiani e Latini diventeranno un sol popolo, e il nome di Troia tramonterà per sempre. Il Lazio, invece, non muterà il nome, né i costumi né il linguaggio delle sue antiche genti. Dalla fusione dei due popoli, nascerà la stirpe dei Romani, dai quali Giunone sarà venerata più che da qualsiasi altro popolo. Placata la dea, Giove manda sulla Terra una Furia per affrettare la fine dello scontro. La dea si trasforma in gufo, uccello del malaugurio, e svolazza davanti al volto di Turno, il quale, terrorizzato, comprende che ormai è la fine. A sua volta Giuturna, piena d’angoscia si ritira lacrimando. Enea provoca il suo avversario, lo schernisce, lo sfida. Turno risponde che non teme lui, ma gli dei avversi e tenta vanamente di colpire l’avversario con un macigno, le sue forze sono all’estremo: le ginocchia vacillano, la mente di offusca. Del suo smarrimento approfitta Enea per conficcargli l’asta nella coscia. Abbattuto e vinto, Turno supplica il vincitore di rendere il suo corpo al vecchio padre. Enea, commosso, sta per lasciargli la vita, ma vede luccicare sulla spada di Turno il cinto d’oro di Pallante. Allora, infiammato d’ira e furore gli immerge la spada nel petto dicendo: ”Muori. Questo colpo ti da Pallante, e da Pallante il prendi”. L’anima di Turno sdegnata contro il suo crudele destino, fugge gemendo verso il regno delle ombre.

IL VIAGGIO DI ENEA LUNGO LE COSTE DELLA SICILIA



“Giace de la Sicania al golfo avanti un’isoletta che a Plemmirio ondoso è posta incontro, e dagli antichi è detta per nome Ortigia. A quest’isola è fama che per vie sotto al mare il greco Alfeo vien da Dòride intatto, infin d’Arcadia per bocca d’Aretusa a mescolarsi con l’onde di Sicilia. E qui del loco venerammo i gran numi; indi varcammo del paludoso Eloro i campi opimi. Rademmo di Pachino i sassi alpestri, scoprimmo Camarina, e ‘l fato udimmo, che mal per lei fôra il suo stagno asciutto.

La pianura passammo de’ Geloi, di cui Gela è la terra, e Gela il fiume. Molto da lunge il gran monte Agragante vedemmo, e le sue torri e le sue spiagge che di razze fur già madri famose.

Col vento stesso indietro ne lasciammo la palmosa Seline; e ‘n su la punta giunti di Lilibeo, tosto girammo le sue cieche seccagne, e ‘l porto alfine del mal veduto Drepano afferrammo.”
Eneide, Libro III – Virgilio (70-19 a.C.)

“La favola è alcuna volta un adombramento della storia,
in maniera che sotto gli ornamenti di quella vi stiano
racchiusi dei fatti che si riferiscono o alla storia degli
uomini o della natura.”

L'Eneide è un poema epico della cultura latina scritto dal poeta e filosofo Virgilio tra il 31 a.C. e il 19 a.C., che narra la leggendaria storia di Enea, eroe troiano figlio di Anchise, fuggito dopo la caduta della città di Troia, che viaggiò per il Mediterraneo fino ad approdare nel Lazio, diventando il progenitore del popolo romano. Enea è una figura già presente nelle leggende e nella mitologia greca e romana, e compare spesso anche nell'Iliade; Virgilio mise insieme i singoli e sparsi racconti dei viaggi di Enea, la sua vaga associazione con la fondazione di Roma e soprattutto un personaggio dalle caratteristiche non ben definite tranne una grande religiosità (pietas in latino), e ne trasse un avvincente e convincente "mito della fondazione", oltre a un'epica nazionale che allo stesso tempo legava Roma ai miti omerici, glorificava i valori romani tradizionali e legittimava la dinastia giulio-claudia come discendente dei fondatori comuni, eroi e dei, di Roma e Troia.

INTRODUZIONE
La colonizzazione mitologica della Sicilia, non può prescindere né dalle fonti storiche, né da quelle letterarie o archeologiche. Infatti, i racconti mitici, riscontrati presso scrittori e poeti greci o latini, spesso, non solo trovano riscontro in sede archeologica, ma per tanti versi, costituiscono, essi stessi, una fonte storica in quanto rappresentano il patrimonio culturale che gli antichi, quando non esisteva ancora la scrittura, ebbero del loro passato; insomma, la mitologia è un pezzo della memoria collettiva, che gli uomini conservarono nel corso di vari millenni, tramandata oralmente di generazione in generazione, e sublimatasi, poi, nelle leggende rappresentate mirabilmente nell’Iliade, nell’Odissea, nell’Eneide e in altre fonti letterarie. Per gli antichi la narrazione di quei fatti era la loro storia.

STORIA, MITO E ARCHEOLOGIA
1 La storia
Le prime forme di scrittura furono gli ideogrammi, siamo circa nel 3000 a.C.. Intorno al 1500 a.C., ad opera dei Fenici cominciò l’abbandono degli ideogrammi e l’introduzione della scrittura lineare; nel IX secolo a.C., i Greci introdussero nella loro lingua l’alfabeto. Solo nel V secolo la scrittura greca divenne strumento di produzione storiografica. Al tempo della guerra di Troia, episodio importante nella storia dell’antichità, quindi non esisteva la scrittura di conseguenza nessuno fu in grado di scriverne la storia; i ricordi degli eroi, sia vincitori che vinti, furono tramandati oralmente; ma quando ebbe inizio la colonizzazione greca della Sicilia e dell’Italia meridionale la scrittura greca era conosciuta, anche se praticata da pochissimi addetti, e fu possibile tramandare ai posteri alcune informazioni essenziali che riguardano i primi popoli della Sicilia e i primi coloni greci giunti nell’isola.
I primi storici della Sicilia furono Filisto della cui opera, andata perduta, ci rimane solo quello che riferisce Diodoro Siculo nella sua “Biblioteca”, Plutarco con le sue “Vite”, Tucidide nato e morto in Atene (460-398a.C.). Tucidide scrisse “La guerra del Peloponneso” e non potè non occuparsi anche della fase in cui quella guerra ebbe per teatro la Sicilia, per questo motivo, non si può definire solamente come uno storico della Grecia, perché in quel tempo Grecia non significava solo Ellade, Grecia era il bacino del Mediterraneo, Grecia era anche la Sicilia e gran parte dell’Italia meridionale.

2 Archeologia e mitologia
La conoscenza archeologica ha il pregio di dare notizie di provata certezza e di spingersi, al tempo stesso, molto indietro nei millenni, addirittura le ultime scoperte archeologiche si addentrano alle soglie della preistoria, accertando i tempi della presenza umana in Sicilia, quando l’isola era ancora unita all’Africa e alla penisola italiana.
A partire dall’Età del Ferro, (fine secondo millennio a.C.) la documentazione archeologica è resa storicamente intellegibile dalla documentazione storico-leggendaria e mitico-favolosa, di conseguenza i reperti archeologici, spesso di per sé, anonimi, acquistano significati se integrati con le conoscenze probabili della letteratura leggendaria e mitico favolosa antica. In sostanza, queste tre fonti sinergicamente adoperate concorrono a darci una rappresentazione dei fatti molto vicina alla verità.
L’archeologia ha provato che tra la Sicilia e il mondo ellenico esistevano rapporti di varia natura almeno cinque secoli prima dell’arrivo dei coloni greci nell’VIII secolo, addirittura i rapporti fra Sicilia e mondo greco e miceneo erano già intensi alla fine del secolo XVIII a.C. cioè prima dell’inizio della guerra di Troia.
La vicenda di Dedalo e Minosse e soprattutto del viaggio di quest’ultimo in Sicilia, dimostra che quel mito oltre ad essere ellenico, cretese e minoico era anche un mio siciliano, ciò significa che tra quei popoli c’era una comunione di credenze religiose, di riti, di culti. Se col Minotauro rimaniamo nel mito, col viaggio di Minosse in Sicilia usciamo fuori dalla mitologia, lo conferma anche la toponomastica; Minoa, chiamata così perché luogo dello sbarco di Minosse, è alle foci del fiume Platani che conduce al sito in cui sorgeva Camico, città fortezza di re Cocalo.
La testimonianza archeologica è importante anche perché dà un fondamento di verità alla letteratura mitico-leggendaria tutta incentrata su racconti favolosi aventi intrecci insieme ellenici e siciliani.
I miti non sono solo fantasia essi rappresentano il patrimonio di valori, trasmesso prima oralmente poi attraverso fonti scritte, su cui si fonda l’identità di un popolo e spesso in essi si riscontrano frammenti di verità.
Oggi noi sappiamo che ci fu un tempo in cui la Sicilia non era un’isola essendo ancora legata all’Africa e all’Italia; questa notizia non è solo moderna, anche i mitografi antichi, evocando millenarie tradizioni trasmesse oralmente, dicevano che la Sicilia fosse in origine una penisola e che poi divenne un’isola perché l’istmo che la univa alla Calabria venne eroso dai venti e dalle acque marine (Virgilio), quella versione raccontata dai mitografi contiene, quindi, una verità storica.

Virgilio, Eneide, libro III, vv. 656 ss.
Quinci partito allor che da vicino
scorgerai la Sicilia, e di Peloro
ti si discovrerà l’angusta foce,
tienti a sinistra, e del sinistro mare
solca pur via quanto a di lungo intorno
gira l’isola tutta, e da la destra
fuggi la terra e l’onde. È fama antica
che di questi or due disgiunti lochi
eran prima uno solo, e che per forza
di tempo di tempeste e di ruine
(tanto a cangiar queste terrene cose cose
Può de’ secoli il corso), un di smembrato
fu poi da l’altro. Il mar fra mezzo entrando
tanto urtò, tanto ròse, che l’esperio
dal sicolo terreno alfin divise:
…………………………………
Nel destro lato è Scilla; nel sinistro
è l’ingorda Cariddi.

I PRIMI POPOLI DELLA SICILIA 
Il popolamento preistorico della Sicilia è anteriore alla nascita della scrittura, di conseguenza informazioni in merito le possiamo attingere dalla tradizione orale e dall’archeologia; quest’ultima, in particolare, testimonia che i rapporti tra la Sicilia e il mondo ellenico esistevano almeno cinque secoli prima dell’arrivo dei coloni greci, nell’VIII secolo; i rapporti tra Sicilia e mondo egeo e miceneo erano già intensi alla fine dell’XVIII secolo a.C.
Nel V secolo, con Erodoto e Tucidide, comincia la storia scritta, ma preparare il terreno per la storiografia, erano stati i geografi ad opera soprattutto di Ecateo di Mileto.
Plutarco ricorda che: “sia i giovani, nelle palestre che gli anziani nelle botteghe o seduti in luoghi di ritrovo disegnavano carte geografiche della Sicilia e del mare che la circondava con i porti e i punti della costa dell’isola che guardavano verso l’Africa”; e Strabone nella sua “Geografia” afferma che l’Odissea, non è un’opera di pura fantasia, ma racchiude un fondo di verità, e si fonda su nozioni geografiche precise. D’altra parte è chiaro che se i rapporti tra mondo egeo-miceneo e Sicilia esistevano già nel XVIII secolo a.C., la Grecia omerica un’idea della Sicilia doveva pur averla. Tucidide scrive: “Sembra che (la Sicilia) in antico non fosse abitata stabilmente e vi avvenissero molte migrazioni. Però, ciascun popolo, costretto a lasciare il proprio paese, situato in varie parti d’Europa o d’Italia, giunto in Sicilia vi rimanesse stabilmente affiancandosi ai popoli che già nell’isola si trovavano o che in seguito vi sarebbero approdati”. Pertanto il il definitivo popolamento storico dell’isola non avvenne una volta e per tutte, ma nel corso di vari secoli.
Comunque le emergenze storico-archeologiche testimoniano che la Sicilia in antico era abitata da Greci, Siculi, Sicani, Elimi, Fenici e dagli Ausoni stanziatisi nelle isole Eolie col loro re Liparo.

Sicani
Tucidide scrive: “si dice che i più antichi (abitatori) siano stati i Ciclopi e i Lestrigoni che abitarono una parte dell’isola, io non potrei dire di che razza fossero, ci si deve accontentare di quello che scrivono i poeti e di quello che si sa di quei popoli”, e ancora in un altro passo si legge: “Pare che i Sicani avrebbero preceduto i Ciclopi e i Lestrigoni, poiché si dice nati sul luogo”, però secondo lo storico, la verità era che i Sicani non erano autoctoni, bensì Iberi scacciati dai Liguri dalle rive del fiume Sicano, in Iberia. Dal loro nome l’isola fu chiamata Sicania, mentre prima era chiamata Trinacria. I Sicani si sarebbero arroccati sulle montagne e sulle alture interne della parte nord- occidentale e settentrionale dell’isola; Camico, sede del re Cocalo, era una città dell’antichissima popolazione dei Sicani.


Siculi
Dopo i Sicani, su zattere, dall’Italia, sarebbero arrivati i Siculi, che costrinsero i Sicani a ritirarsi nelle regioni meridionali e ed orientali dell’isola. Divenuti numerosi, la Sicilia dal loro nome fu chiamata non più Sicania, ma Sicilia. La moderna storiografia ci conferma che i Siculi erano popoli di origine illirica, stanziatisi verso la metà del II millennio a.C. sul litorale adriatico sud occidentale d’Italia. Dionisio di Alicarnasso cita un brano di Ellanico dove, senza indicazione di fonti, conferma l’origine ligure dei Siculi.

Elimi
L’area Elima occupa la parte occidentale dell’isola. Gli Elimi erano concentrati ad Erice e a Segesta. Le tradizioni storiche attribuivano loro due origini: Ellenico di Mitilene li considera provenienti dall’Italia, da dove sarebbero stati cacciati dagli Enotri, Tucidide li ritiene troiani fuggiaschi, unitisi agli indigeni Sicani e più tardi ai Focesi. Le città elime vantavano come eroi fondatori Egesto ed Elimo, quest’ultimo bastardo di Anchise, quindi collegati con la genealogia troiana. La prima testimonianza precisa sull’origine troiana degli Elimi ci è fornita da Tucidide, nella sua introduzione alla “Storia della spedizione in Sicilia”. Dopo la caduta di Ilio, un gruppo di Troiani per sfuggire agli Achei, arrivò per mare in Sicilia e si stabilì in prossimità dei Sicani. Essi presero il nome di Elimi, ed ebbero due città Erice e Segesta. Anche Plutarco afferma l’origine troiana dei segestani,. E’ noto che i romani, quando colonizzarono la Sicilia concessero ai segestani la “immunitas” in memoria della comune origine troiana. (Gli Elimi, sarebbero stati originari dell’Epiro e avrebbero dovuto il loro nome a un certo Elymo “re dei Tirreni”).



I Fenici
I Fenici costituiscono l’altro elemento fondamentale di questa area. Tucidide a proposito scrive: “Prima dell’arrivo dei coloni greci, i Fenici avrebbero stretto rapporti commerciali con le popolazioni di tutta l’isola occupandone promontori sul mare ed isolette presso la costa”, poi nel corso dell’ VIII sce a.C. i loro commerci si estesero lungo le coste settentrionali fino ad Imera e lungo quelle meridionali fino a Selinunte, Solunto e Lilibeo. Dalla metà del VII secolo inizia l’espansione di Cartagine, minacciata dalla pirateria greca.
L’aggressività greca, che trovava la propria giustificazione nella tradizione mitica delle imprese di Eracle e degli eraclidi si rinnova più volte nel corso del VI secolo col tentativo dell’eraclide Dorieo, giunto da Sparta per fondare una colonia eraclea, presso Erice, nel cuore dei possedimenti cartaginesi. (510 a.C.)

Liparitani
Sulla base dei dati forniti dagli scavi nelle isole Eolie ed a Milazzo, si può affermare che intorno alla metà del XII secolo a.C., la costa settentrionale della Sicilia fu interessata ad un flusso migratorio proveniente dalla penisola italiana, con caratteristiche culturali simili a quelle dell’are tirrenica. Si tratta di culture poco influenzate dagli apporti greci, che si manifesteranno solo più tardi, con la ripresa dell’attività colonizzatrice.

Greci
Gli ultimi arrivati furono i Greci, prima giunsero i Calcidesi, che approdarono a Naxos, prima colonia greca della Sicilia, occupata allora dai Siculi. Poco dopo Archia, discendente dagli Eraclidi, fondò Siracusa scacciandone i Siculi, seguirono poi i Megaresi.
Comunque Tucidide scrive che i Siculi giunsero in Sicilia 300 anni prima dei greci, i Sicani cento anni prima della guerra di Troia, i tempi dell’originario popolamento siciliano ruotano, quindi, attorno alla guerra di Troia, qualche secolo prima giunsero i Sicani e forse i Fenici; dopo qualche secolo gli Elimi e i Siculi; tre secoli dopo i Greci Quindi il popolamento originario dell’isola avvenne per ondate migratorie in 7/8 secoli. La colonizzazione greca, invece avverrà nell’arco di due secoli e mezzo.


TRA MITO E STORIA
1 Minosse in Sicilia
Diodoro Siculo, narra che Dedalo era un ateniese che superava tutti per ingegno, soprattutto nell’architettura e nella scultura. Costretto a rifugiarsi a Creta, per aver ucciso il proprio nipote, fu accolto da Minosse per il quale costruì il labirinto. Con la sua arte Dedalo costruì una finta vacca permettendo a Parsifae, innamorata del candido toro, donato da Posidone a Minosse, di soddisfare la sua mostruosa passione; allora Dedalo, temendo la vendetta di Minosse, fuggì col proprio figlio Icaro. In Sicilia, Dedalo, fu ospitato dal re sicano Cocalo, che restò stupito ed ammirato della sua geniale versatilità. Dedalo, nei pressi di Megara Iblea, costruì una grande piscina da dove il fiume Alabo usciva per gettarsi in mare. A Camico, che sarebbe divenuto territorio di Agrigento, costruì in una rupe una città fortificata che Cocalo elesse a propria residenza; nel territorio di Selinunte costruì una grotta e vi fece e vi fece sboccare vapori sotterranei il cui calore moderato guariva dalle malattie; ad Erice rinforzò la roccia su cui sorgeva il tempio di Afrodite e dedicò alla dea un favo d’oro.
Il racconto di Diodoro continua così: “Minosse signore dei mari, venne a sapere che Dedalo si era rifugiato in Sicilia, e decise di rintracciarlo. Allestì una flotta e fece sbarcare le sue truppe non lontano da Agrigento, in una località che prese in nome di Minoa (Eraclea Minoa), e ingiunse a Cocalo di consegnargli l’artefice. Cocalo invitò Minosse a un colloquio, in quella occasione lo fece uccidere con un bagno caldo. I cretesi che Minosse aveva condotto in Sicilia, rimasti senza il loro capo e perdute le navi, decisero di rimanere nell’isola e si stanziarono a Minoa”.
La grotta costruita da Dedalo nel territorio di Selinunte, è facilmente riconoscibile in cima alla collina di San Calogero, nei pressi di Sciacca, l’antica terme di Selinunte. Più difficile è localizzare la fortezza costruita da da Dedalo a Camico, non disponiamo di indicazioni in tal senso, si è pensato di poterla identificare ora con la moderna Siculiana, ora con Caltabellotta, ma nessuna delle due ipotesi resta convincente.

2 Eolo signore dei venti. Isole Eolie
Secondo la mitologia greca, Eolo, dio dei venti, figlio di Poseidone ed Arne, ebbe da Zeus, il compito di controllare i venti. Eolo li dirigeva e li liberava custodendoli dentro le caverne e dentro un otre a Lipari, una delle isole Eolie, piccolo arcipelago, a Nord-Est della Sicilia, nella quale aveva la sua reggia. I venti, dopo aver provocato grossi danni tra i quali il distaccamento della Sicilia dal continente dovevano essere tenuti sotto controllo. Nel mito tutta la vicenda si rifà a Liparo, figlio di Ausone, e ad Eolo. Liparo è un re italico che sopraffatto dai fratelli, fugge dall’Italia e giunge in prossimità della Sicilia in un’isola a cui avrebbe dato il suo nome e in cui avrebbe fondato una città. Ormai vecchio, Liparo sente nostalgia per l’Italia, ma approda in quell’isola Eolo, che sposa Ciane, figlia del vecchio re, diventa re dell’isola, e aiuta Liparo a tornare in Italia.
Diodoro Siculo nella sua “Biblioteca”, racconta che Eolo, signore dei venti, andò a stabilirsi presso Liparo, re italico, che sopraffatto dai fratelli aveva lasciato l’Italia e si sarebbe trasferito nel piccolo arcipelago. Eolo avrebbe spostato Ciana figlia di Liparo, e avrebbe regnato Eolo sulla costa settentrionale della Sicilia; Sicani e Siculi si sarebbero sottomessi spontaneamente ad essi.

Eolo, Odissea, libro X, vv 1-25
Quando Ulisse, reduce dalla guerra di Troia, approdò alle isole Eolie, Eolo lo ospitò e, commosso dal racconto dell’eroe greco, gli fece dono di un otre di pelle dentro la quale erano rinchiusi i venti contrari alla navigazione.
E giungemmo all’isola Eolia. Qui dimorava
Eolo, caro agli dei, figlio di Ippota.
L’ isola errava nuotando. Un muro la cinge
bronzeo; e liscia s’innalza una rupe.
Dodici figli con lui nel palazzo vivevano.
……………………………………………………..
La casa odorosa riecheggia
al suono dei flauti finchè il giorno dilegua;
……………………………………………………..
Poi quando licenza gli chiesi di andarmene
non rifiutò, ma prese a cuore il mio viaggio;
spogliò delle cuoia un bove novenne
un otre ne fece, e dentro vi chiuse
dei venti ululanti le vie: custode l’aveva
dei venti fatto il cronide, e poteva
quieti tenerli o incitarli a sua voglia.
Nella concava nave con lucida fune,
argentea, l’otre legò, di guisa che fuori
neppure un alito uscisse; ma solo
il soffio di Zefiro per me liberò
che la nave benigno spingesse per noi.

3 I Ciclopi
I racconti mitici non sono racconti storici, però quando essi narrano leggende che hanno per protagonisti eroi umani o a volte divinizzati, che compiono le loro imprese in luoghi ben precisi, sono pur sempre racconti di fatti umani, sia pure fantastici, collocati in contesti precisi.
Figure favolose della mitologia greca, i Ciclopi vengono rappresentati di statura gigantesca e forniti di un solo occhio, situato in mezzo alla fronte.
Nell’Odissea sono una collettività di giganti spregiatori degli dei, che vivono nelle caverne allo stato pressoché di natura e antropofagi; sono pastori, il loro capo è Polifemo, figlio di Posidone. Esiodo nella Teogonia, nomina tre ciclopi come figli di Urano e Gaia: Caronte, Sterope e Arge, i cui nomi richiamano i più violenti fenomeni meteorici, e che la tradizione presenta come fabbri costruttori dei fulmini di Zeus.
Tucidide scrive: “Si dice che i più antichi popoli della Sicilia fossero i Ciclopi e i Lestrigoni che abitarono una parte dell’isola, io non potrei dire di che razza fossero, ci si deve accontentare di quello che scrivono i poeti e di quello che si sa di quei popoli”.
Nella tradizione greca classica e post-classica si riscontrano versioni discordanti in merito alla identificazione dei luoghi sede dei Ciclopi.
Secondo uno di questi filoni, i Greci avevano capito che il Ciclope fosse soltanto la trasfigurazione poetica di un vulcano che essi collocavano in Sicilia ed identificavano con l’Etna. Oltre a Tucidide anche Virgilio continua a localizzare in Sicilia l’avventura di Ulisse e Polifemo; non a caso a tre isolotti nei dintorni di Catania fu dato, nell’antichità, il nome di Scogli dei Ciclopi rimasto ancora oggi.
Polifemo Ciclope, figlio di Posidone e della ninfa Toosa, nel IX libro dell’Odissea è un rozzo e bestiale pastore monocolo, che, dopo aver divorato alcuni compagni di Ulisse, è da questo ubriacato ed accecato con un palo aguzzo; non riesce perciò a prendere Ulisse e i compagni, che fuggono dalla sua grotta aggrappati al ventre di alcuni montoni, né a far capire ai Ciclopi, chiamati in aiuto, il nome di chi lo aveva accecato, perché Ulisse, nel precedente colloquio, si era nominato ùtis (nessuno).

Polifemo nell’Odissea
Libro IX, vv. 105 ss.
…e avanti di là navigammo turbati nell’animo,
finchè dei Ciclopi selvaggi e protervi
giungemmo alla terra. Questi si affidano
ai numi immortali: non piantano alberi,
non arano campi…
non hanno assemblee né sanno leggi,
ma vivono in alte cime di monti in antri
fondi…
e c’è un porto di agevole ormeggio, dove superflue
son le funi, né servono pietre per àncora
alle navi, né corde a fermarle a riva…
E quando alla terra vicina approdammo
una grotta vedemmo sull’orlo roccioso del mare
………………………………………..
Quivi un uomo abitava di enorme grandezza
che solo e da tutti lontano pasceva le greggi….
Polifemo nell’Eneide

Secondo Virgilio Enea lascia Troia in fiamme, portando con sé il padre Anchise, il figlio, i penati e gli dei della città. Dopo aver toccato la Tracia, Creta, l’Epiro costeggia l’Italia fino allo stretto di Messina. Sfuggendo a Scilla e Cariddi i Troiani si spingono fino ai piedi dell’Etna dove abitano i Ciclopi.

Eneide, Libro 3°, vv 890 ss.
…Del viaggio incerti
disavvedutamente a le contrade de’ Ciclopi approdammo.
E’ per se stesso a’ venti inaccessibile e capace
di molti legni il porto ove giungemmo;
ma sì d’Etna vicino, che i suoi tuoni
e le sue spaventevoli ruine
lo tempestano ogn’ora. Esce talvolta
di questo monte a l’aura un’atra nube
mista di fumo nero e di roventi
faville, che di cenere e di pece
fan turbi e groppi, ed ondeggiando a scosse
vibrano ad ora ad or lucide fiamme
che van lambendo a scolorir le stelle.

L’ipotesi storica più accreditata è quella che vede nei Ciclopi un popolo non ancora dedito all’agricoltura “tutto vien su inseminato e inarato”, che si nutre di tutto quanto spontaneamente offre la terra.

4 Enea in Sicilia
Dell’origine troiana degli Elimi scrive Dionisio di Alicarnasso, a proposito della partenza di Elimo ed Egesto dalla Troade.
Come Virgilio, ma con qualche variante, Dionisio fa approdare Enea presso i troiani di Sicilia.
Secondo Virgilio, Enea lascia Troia in fiamme e dopo un viaggio avventuroso, costeggiando l’Italia fino allo stretto di Messina, evitando le zone abitate dai Greci, e sfuggendo a Scilla e Cariddi, i Troiani si spingono ai piedi dell’Etna, dove abitano i Ciclopi, si lasciano dietro la baia di Megara e il capo Pachino, a questo punto Enea scorge da lontano Camarina, Gela, Gela. Agrigento e Selinunte, poi tocca il porto di Drepanon (Trapani) e qui Anchise muore.

Eneide libro III, vv 1092 ss.
Morte di Anchise
Giace de la Sicania al golfo avanti
un’isoletta che a Plemmirio ondoso
è posta incontro, e dagli antichi è detta
per nome Ortigia.
A quest’isola è fama
che per vie sotto al mare il greco Alfeo
vien da Doride intatto, infin d’Arcadia
per bocca d’Aretusa a mescolarsi
con l’onde di Sicilia. E qui del loco
venerammo i gran numi; indi varcammo
del paludoso Eloro i campi opimi.
Rademmo di Pachino i sassi alpestri,
scoprimmo Camarina, e’l fato udimmo
che mal per lei fora il suo stagno asciutto.
La pianura passammo de’ Geloi,
di cui Gela è la terra e Gela il fiume.
Molto da lunge il gran monte Agragante
vedemmo, e le sue torri e le sue spiagge
che di razze fur già madri famose.
Col vento stesso indietro ne lasciammo
la palmosa Seline; e ‘n su la punta
giunti di Lilibeo, tosto girammo
le sue cieche seccagne, e il porto alfine
del mal veduto Drepano afferrammo.
Qui, lasso me! Da tanti affanni oppresso,
a tanti esposto, il mio diletto padre.
Il mio padre perdei.

Una tempesta sbatterà Enea sulle coste di Cartagine, dove avviene l’episodio di Didone, in seguito fuggendo dall’Africa Enea torna in Sicilia, dal re Aceste, che lo accoglie festoso. Era trascorso un anno dalla morte di Anchise, ed Enea bandì sacrifici e banchetti in onore del padre e al nono giorno i ludi. Enea torna in Sicilia.

Eneide, libro V, vv 35 ss.
Vedi il vento mutato, vedi il mare
di ver ponente, che s’nnera e gonfia:
……………………….
Or poi ch’a forza
così ne spinge, noi per nostro scampo
assecondiamla; che già presso i porti
ne son de la Sicilia e ‘l fido ospizio
d’Erice tuo fratello, s’abbastanza
de l’arte mi rammento e de le stelle.
…………………………………………………..
… E qual più grata altrove,
o più comoda riva, o piùsicura
aver mai ponno le mie stanche navi,
di quella che ne serba il caro Aceste,
e l’ossa accoglie del buon padre mio!
Enea indice i ludi in memoria di Anchise.
….
Ed io quando l’aurora
tranquillo e queto il nono giorno adduca,
a solenni spettacoli v’invito
di navi, di pedoni e di cavalli,
al corso, a la palestra, al cesto a l’arco.
Enea segna la meta della gara (Scoglio Scialandro?)

Eneide, libro V, vv. 180
… e lunge incontra
a la spumosa riva un basso SCOGLIO (scoglio in corsivo)
che, da’ flutti percorso, è talor tutto
inondato e sommerso. Il verno i venti
vi tendon sopra un nubiloso velo
che ricuopre le stelle, e quando è il tempo
tranquillo, ha ne l’asciutto una pianura
ch’è dei marini uccelli aprica stanza.
Qui d’un elce frondoso il segno pose
Il padre Enea, fin dove il corso avanti
stender pria si dovesse, e poi dar volta.
Indi sortiti i lochi, al suo ciascuno
si pose in fila. I capitani in poppa,
addobbati di bisso e d’ostro e d’oro
risplendean di lontano..
Uno squillo di tromba da’ inizio alla gara
…Avea la tromba
squillato appena, che in un tempo i remi
si tuffar tutti, e tutti i legni insieme
si spiccar da le mosse. I gridi al cielo
n’andar de’ marinai. Il mar di schiuma,
s’aperse intorno, e’n quattro solchi eguali
fu con molto stridor da’ rostri aperto
e da’ remi stracciato
Nel primo uscire, il primo avanti a tutti
si vide Gìa… mentre la gente freme, (la gente freme in corsivo)
e dopo di lui Cloanto
indi il Centauro e la Pistri
……
vv. 225
Eran del sasso già presso la meta (sasso in corsivo)
……………………….
E di buon tratto vincitore avanti
Gìa sen gia, quand’ei sen vide in alto
da la ripa più lunge; onde rivolto
al suo nocchiero: e dove- disse- andrai,
Menete? Attienti al lio e radi il sasso: (sasso corsivo)
vadano gli altri in alto” Ei tuttavia
d’urtar temendo, in pelago si mise,
e Gìa di nuovo: “in qua, Menete, al sasso,
al sasso, a la sinistra, a la sinistra”
dicea gridando; e volto indietro, vide
ch’avea Cloanto addosso. Era Cloanto
già tra lo scoglio e la Chimera entrato,
e via radendo a la riva sinistra,
tenne giro si breve e sì propinquo
che lui tosto e la meta anco varcando,
si vide avanti il mare ampio e sicuro (230-240)
La buffa caduta di Menete
Menete che di veste era gravato,
e via più d’anni, infino all’imo fondo
ricevè il tuffo, e risorgendo a pena
rampicossi a lo scoglio, e sì com’era
molle e guazzoso, de la rupe in cima
qual bagnato mastino al sol si scosse.
Rise tutta la gente al suo cadere (In corsivo tutto il verso)
rise al notare; e più rise ancor allora
ch’a flutti vomitar gli vide il mare.
Memmo ratto s’avanza e vince il sasso (sasso corsivo)
e via vogando ed invocando i venti
fende a la china ed a l’aperto il mare.

Ipotesi archeologica sulla identificazione del sito in cui Virgilio colloca la gara del V libro dell’Eneide (Prof. G. Purpura)
Lungo la costa del trapanese si riscontra un’insenatura dominata dal monte Cofano, al largo della quale si trova lo scoglio dello Scialandro.
Il sito, annota l’archeologo G. Purpura in “Sicilia archeologica” anno XVIII, 1985, richiama alla mente le famose gare navali di Enea, che si svolgono partendo da terra dinanzi ad un dolce declivio rinserrato tra rupi ed attorno ad un scoglio posto come meta in mezzo al mare. Nel V libro dell’Eneide, la gara navale in onore di Anchise, è seguita con attenzione costante dagli spettatori; a questo punto, il prof. Purpura si chiede: “come poteva Virgilio immaginare che fosse seguita momento per momento una gara che si svolgeva lungo un percorso all’incirca perpendicolare alla linea di costa?” Questo interrogativo ha indotto l’archeologo ad ipotizzare un percorso di gara lungo una punta o un promontorio proteso verso il largo, che creava un’ansa tale da offrire riparo al vento d’occidente che aveva spinto Enea in Sicilia.
Al tempo stesso tale promontorio dovrebbe presentare uno scoglio assai distaccato dalla terraferma. Sono tutti questi requisiti che solo l’insenatura del Cofano ha nel trapanese ed è possibile che la situazione attuale di questa località non sia molto dissimile dall’antica, viste la conformazione e la natura dei luoghi.
Se si ipotizza una partenza dalla parte interna del golfo, una virata verso occidente intorno allo scoglio ed un percorso di ritorno parallelo alla riva del monte, diversi particolari diventano comprensibili e addirittura convincenti, visti i ritrovamenti archeologici di epoca greca e romana in quel sito.

Eracle
Il mito di Eracle è uno tra i più interessanti, in quanto ricco di contenuti storici.
Nella tradizione leggendaria, si annoverano tantissimi eroi di nome Eracle, citati da Cicerone e da Diodoro Siculo. Ma importante non è tanto l'identità di Eracle, quanto il fatto che quel mito è insieme greco e siciliano.
La Sicilia di cui si parla nel mito è abitata dai Sicani, dai Siculi e dagli Elimi, ciò significa che il viaggio di Eracle avvenne prima della colonizzazione greca.
La leggenda di Eracle è collegata a quella troiana, in particolare a quella narrata da Laomedonte e da Virgilio, che sostengono l'origine troiana degli Elimi. l'Eracle greco, nel suo peregrinare, secondo Diodoro Siculo, compie un viaggio in Sicilia giugendo fin nell'estremo lembo occidentale dell'isola. Durante questo viaggio, le ninfe del luogo, perchè si ristorasse, avrebbero fatto sprizzare dal suolo le acque termali di Imera e Segesta. Ma l'episodio più importante del suo viaggio avviene ad Erice.
Erice, eponimo del monte a cui aveva dato il nome, sarebbe stato re di una parte della sicilia, alcuni storici, però, lo considerano re degli Elimi, altri dei Sicani.
Nella decima fatica di Eracle, si legge che mentre il dio-eroe riposava, un toro si sarebbe staccato dalla sua mandria e tuffatosi in mare avrebbe nuotato fino alla costa occidentale della Sicilia, Eracle inseguendo il toro lo avrebbe rintracciato tra il bestiame di Erice, figlio di di Afrodite e di Posidone, ottimo pugile, che sfidò Eacle in un combattimento alla condizione che Erice avrebbe messo in palio il suo regno contro il toro fuggito dalla mandria. Eracle ne uscì vincotore, uccise Erice e si impadronì del regno, che però avrebbe lasciato agli abitanti del luogo, perchè ne godessero fino a quando uno dei suoi discendenti non sarebbe venuto a rivendicarlo. così avvenne, secondo Diodoro Siculo, quando lo spartano Dorieo arrivò in quella regione per fondare una colonia.
Alcuni storici suppongono che la leggenda abbia preso forma solo in occasione dell'impresa di Dorieo e che fosse servita da pretesto, a quest'ultimo, per impadronirsi di quel territorio, altri, invece, sono convinti che la leggenda fosse nota in Sicilia, già da tempo, tanto che secondo alcuni l'Eracle greco presenta affinità con Melkart fenicio. Problema dibattuto è quello dell'origine fenicia del culto e delle leggenda di Eracle, non si può negare che l'Ercole greco è strettamente imparentato col Melkart fenicio e non bisogna dimenticare che la Beozia, patria dell'eroe, si dice fosse stata colonizzata dal fenicio Cadmo. In particolar modo, in Sicilia, il culto e la leggenda di di Eracle non poterono sottrarsi agli influssi semitici dovuti ai Fenici, tuttavia non si può negare che gli influssi ellenici sul culto dell'Eracle italo-siciliota siano stati anche notevoli. Nel suo viaggio in Sicilia Eracle si sarebbe fermato a Siracusa, dove saputa la leggenda del ratto di Kore, avrebbe sacrificato alla dea uno dei suoi tori più belli, gli indigeni impararono da lui il rituale dei sacrifici, che da allora furono celebrati ogni anno.
Diodoro poi racconta, senza precisare il luogo, di una battaglia scoppiata in una regione dell'interno della Sicilia fra l'eroe e un grosso esercito di Sicani, in quella battaglia caddero Pediacrate, Bitea ed altri eroi indigeni.
Diodoro Siculo scrive: "Egli con i buoi passò attraverso l'interno, e poichè i Sicani indigeni gli si opponevano con grandi armate, li vinse in una celebre battaglia, ne uccise molti, fra i quali, come raccontano alcuni nei miti, erano anche celebri strateghi..."
Il centro principale della leggenda di Eracle si trovava all'interno della Sicilia, fuori dai territori aperti alla colonizzazione ellenica ed esattamente ad Agiro moderna Agira, città natale di Diodoro, il quale racconta che ad Agiro Eracle ricevette onori divini (l'Eracle, onorato ad Agiro città sicula fu forse l'antenato che guidò i Siculi dall'Italia alla Sicilia verso il 1050 a.C. (Tucidide VI, 2, 5). In segno di riconoscenza l'eroe scavò vicino alla città un laghetto, accanto al laghetto si trovava un recinto consacrato da Ercole al nipote Ioalo, era usanza che tutti i bambini di Agiro votassero fin dalla prima infanzia, i propri capelli a Iolao e glieli offrissero, altrimenti diventavano muti. Questa offerta avveniva ogni anno, era accompagnata da feste e da giochi in cui servi e padroni insieme onoravano Iolao davanti una porta della città detta Porta Eraclea.

(da www.ilportaledelsud.org - di Rosa Casano Del Puglia)



Nota di post-scriptum

La colossale decima fatica di Ercole conferma l'antica usanza ellenica di comprare la sposa col sistema sbrigativo di una razzia di bestiame. Nella Grecia omerica le donne erano valutate a tanti capi di bestiame l'una.