Allegro, vitale, caleidoscopio di colori e voci urlanti. Descrivere Ballarò non è facile, bisogna viverlo, e se si viene a Palermo farsi fagocitare è d’obbligo. Solo così si riesce a comprendere una parte dell’anima della città. Situato nel cuore dell’Albergheria, nei pressi della stazione centrale, si allarga dal Corso Tukory fino a Casa Professa, con l’uso di origine araba di inondare la strada di mercanzia: le innumerevoli cassette di legno contengono frutta, verdura, carne, pesce, spezie e tanto altro. Merce che viene continuamente abbanniata (in siciliano gridata) in cantilene dalle cadenze orientali, per lodare la buona qualità del prodotto. La gente si accalca in un groviglio di braccia che si tendono verso i banchi stracolmi e di gambe che si affrettano negli acquisti. Il tutto risulta un crogiuolo dal sapore di tanti secoli addietro.
Il nome Ballarò viene da Bahlara, l’antico villaggio mussulmano ai piedi di Monreale, da dove provenivano i commercianti che lo frequentavano. Ballarò, che nell’immaginario italiano richiama una famosa trasmissione televisiva, è invece il soffio vitale di una Palermo, che pur proiettandosi nella modernità, non rinuncia al suo modo di vivere. Il mercato o meglio il suk di Ballarò, che ha una sua propria dimensione spazio-dimensionale e relazionale, funge da moderna agorà, luogo eletto dal popolo per incontrarsi, scambiarsi conoscenze e per far nascere nuove idee.
(da http://www.blogsicilia.eu)
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