«Vui mi pare che aviti poco cura a li fatti mei, che haio mandato multi literi, e mai non fu inpissibuli reciviri da voi uno signo di litera». Chi scrive è Giuseppe Sanzica, uno schiavo siciliano che accusa la sorella di non rispondere ai suoi messaggi e la implora di darsi da fare per riscattarlo, uno dei tanti sventurati rapiti dai corsari e trascinati in catene a Tunisi, a Biserta, ad Algeri. Uno come Vito Lucchiu, insomma…
Nelle puntate precedenti abbiamo visto che nel Cinquecento il Mediterraneo era un posto pericoloso. C’erano i corsari islamici, autorizzati dal sultano, c’erano i corsari cristiani, autorizzati dal re, c’erano i pirati di entrambe le parti, senza patente di corsa, tra cui anche schiavi liberati, che mettevano in pratica l’arte della pirateria dopo averla appresa sulla propria pelle. Non è un caso che in quegli anni il mercato dei captivi, cioè dei catturati, è floridissimo, sia a Trapani che in Barberia.
Qualche sovrano provò ad arginare il fenomeno. Carlo V fu uno dei più decisi, ma, a parte momentanee battute d’arresto, il numero dei regnicoli, anche trapanesi, catturati continuava ad aumentare, come testimoniato da numerosi atti notarili che ci sono pervenuti. Citiamo per tutti il patto del 1574 tra Lazarino Garibo e Benedetto Lanzetta, col primo che, davanti al notaio Francesco Amelia, si impegna a redimere mastro Andrea Marino prigioniero a Tripoli, per la somma di 200 ducati napoletani. Riceve in acconto 20 unze siciliane; il saldo sarebbe avvenuto entro un mese dall’avvenuto riscatto. E qualora non avesse trovato o non avesse potuto redimere il detto Andrea, allora il Lazarino avrebbe restituito quanto ricevuto in acconto. E se Andrea fosse invece morto in itinere, fatta la prova documentata, allora il Lanzetta sarebbe stato dispensato dal corrispondere il saldo pattuito, ovvero i 180 ducati.
A causa dei continui rapimenti, il 16 maggio 1585 il Parlamento Siciliano, istituì l’Arciconfraternita per la redenzione dei captivi sul modello di quella già attiva a Napoli con l’obiettivo di agevolare il ritorno degli schiavi dal Nordafrica.
La burocrazia in Sicilia era lenta anche allora e così passarono 11 anni – il 7 maggio 1596 – prima che il Consiglio Comunale di Trapani, “considerato che questa città è maritima vicina a Barbaria, dove vi sono molte persone che patino disagi per essere presi et cattivati da Infedeli”, decise l’istituzione della Santa redemptione dei cattivi. Per una cinquantina di anni l’organizzazione ebbe la sua sede nella Chiesa di S. Giovanni di Via Libertà dove oggi c’è l’Oviesse, per poi trasferirsi nel convento dei padri mercedari in via Mercé.
Vennero così introdotte alcune misure per raccogliere i soldi per i riscatti. Le principali furono una tassa per i nobili della città, una colletta casa per casa, a cui contribuirono generosamente soprattutto i pescatori, essendo i più esposti agli attacchi. I notai ebbero l’obbligo di ricordare ai testatori la possibilità di una donazione alla Confraternita. Infine in ogni chiesa fu istituita la cascia per la redenzione dei cattivi. C’è da dire che in realtà molti di questi provvedimenti erano diffusi anche prima della delibera del consiglio comunale.
I soldi raccolti venivano mandati a Palermo nella chiesa di Santa Maria la Nova, sede centrale dell’Arciconfraternita, che avrebbe provveduto a trattare collettivamente la liberazione coi berberi. In realtà le trattative erano affidate a degli intermediari, esosi più degli stessi padroni turchi, che spesso costruirono la loro fortuna sulle sventure altrui. Infatti il riscatto degli schiavi cristiani in Barberia era un meccanismo complesso e anche se non mancarono motivazioni umanitarie, l’opera misericordiosa si mischiava il più delle volte con fini commerciali.
Tra le storie dei tanti trapanesi catturati o caduti in mare in quei secoli, ci limitiamo a raccontare due episodi. Il primo riguarda ventuno trapanesi, tutti tra i venti e i trenta anni, catturati nel 1689 nel Canale di Sicilia e portati a Dulcigno, sulle coste adriatiche dell’Impero Ottomano, da cui sarebbero dovuti partire per Costantinopoli. Se liberare un gruppo di schiavi prigionieri in Nordafrica, non era facile, liberare quelli trattenuti in posti più lontani, con minore conoscenza del luogo e minor numero di contatti tra i cristiani, era impresa veramente ardua. Con grande ostinazione il sacerdote Francesco Giannetto convinse la Deputazione palermitana a farsi carico del riscatto. E così dopo due anni di trattative serrate venti trapanesi furono liberati. Il ventunesimo purtroppo morì in cattività. Il tutto costò ben 1076 zecchini veneziani, cifra elevata per i tempi, buona parte dei quali finirono nelle tasche del mercante dalmata Giovanni Giacomo Lalich e dei faccendieri veneziani Giuseppe e Tommaso Meratti.
Il secondo episodio riguarda una flotta di 36 barche di corallisti che il 13 giugno 1776 stavano pescando presso l’isola tunisina della Galita quando a un tratto 4 galee e molte galeotte di algerini catturarono il padrone dei bastimenti Gaspare Previto e altri 28 membri dell’equipaggio, tra cui il barbiere Vito Bascone e il cappellano Alberto Gaetani. Riportiamo la lettera che quest’ultimo scrive ai familiari.
Tunisi 17 giugno 1776
“Sorella e nipote sfortunatissimi, venerdi del 14 corrente, alle ore 13 fummo assaltati da 4 galere ed uno scampavia, ed havendo chiamato padron Vito Bonanno e padron Giuseppe Garofalo con la mano si mostrarono surdi do mentre il bastimento grosso s’imbattagliava, ed io sul detto bastimento per assistere all’ammalati… alla fine doppo lungo combattimento fummo forzati a renderci, senza nessuna disgrazia, solamente fu ammazzato un maltese. Sorella non so cosa scrivere, basta dirvi che se volete vedere me, andate in S.Michele, osservate la Flagellazione e vedrete me: ignudo con la sola camicia, tremante di freddo e quasi spirante, miserere mei. Vi devo solamente aggiungere che ni lasciaro soli. Addio, sorella, addio. Il tuo sfortunatissimo fratello e povero scavo Alberto Gaetani.”
Non conosciamo la sorte del cappellano e degli altri, ma sappiamo che 10 navi riuscirono a fuggire e a riparare nel porto di Trapani con 150 quintali di corallo, che fruttarono un incasso superiore a 6000 unze.
Quello raccontato è uno degli ultimi episodi di attacchi ai pescatori trapanesi. Per sconfiggere i pirati, gli stati del Mediterraneo, oltre all’impiego di navi militari equipaggiate coi moderni motori a vapore, usarono proprio i corsari. Ma i corsari dal canto loro sin dal Settecento non se la passavano bene neanche loro, a causa della debolezza dell’Impero Ottomano e dell’espansione europea, soprattutto francese, in Nordafrica. Ricordiamo pure che gli Stati Uniti effettuarono la loro prima guerra fuori del territorio nazionale nel 1802-1805 proprio contro il pascià di Tripoli,Yusuf Karamanli, che era proprio un corsaro. La guerra, fortemente voluta dal pacifista Thomas Jefferson, si concluse con la sconfitta del turco che, come consolazione, rimase nella storia per essere stato il primo capo di stato a dichiarare guerra agli Stati Uniti d’America. Il trattato di Utrecht del 1713, e poi la Conferenza di Parigi del 1856, hanno messo al bando le lettere di corsa. Curiosamente tra i firmatari di tali dichiarazioni non figurano gli Stati Uniti, la cui Costituzione, articolo 1 sezione 8 comma 11, ancora oggi assegna al Congresso il potere di rilasciare lettere di marca.
Ma stiamo divagando troppo. Ormai la l’Arciconfraternita aveva fatto il suo tempo e non aveva più ragione di esistere. Venne sciolta ufficialmente nel 1860 anche se aveva cessato ogni attività già da molti anni. Alcuni storici stimano Il numero di prigionieri della guerra di corsa nel Mediterraneo in oltre un milione. Il maggior tributo di sangue fu pagato dalla città di Trapani.
(da rumpiteste.wordpress.com)
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