Cosa succedeva ai turchi catturati dai trapanesi? Il loro destino non era meno triste di quello dei cristiani schiavi in terra di Maometto, ma di sicuro è meno conosciuto e quindi oggi cercheremo di colmare questa lacuna della nostra pubblicistica.
Prima di tutto ricordiamo ancora una volta che ad andare per mare il rischio di essere attaccati era alto per tutti e a quei tempi non si distingueva tra pirati e corsari era come facciamo noi oggi. Poteva succedere quindi che cristiani attaccassero altri cristiani, o musulmani altri musulmani. Specialmente in tempo di carestia non si stava a guardare certo la religione… Famosi e temibili corsari erano i Cavalieri di Malta e i Cavalieri di Santo Stefano. Ma neanche i trapanesi scherzavano. Salamone Marino ricorda gli «audaci marinai di Trapani, che coi loro minuscoli liutelli e la primitiva arma dei ciottoli, non solamente sanno vincere e predare le fuste e le galeotte dei corsari barbareschi, ma tengono rispettate le spiagge trapanesi e paventati e indisturbati esercitano la pesca fin nei lidi africani»
Mercati dove si vendevano e compravano gli schiavi sorgevano nelle principali città costiere. Ce n’erano un po’ dappertutto. A Livorno, Pisa, Napoli, Messina, Palermo e Trapani, alla Valletta, a Siviglia, Palma di Maiorca, Almeria e Valencia, a Segna, Fiume, Valona e Durazzo in Adriatico, a Tripoli, Tunisi, Biserta, Algeri, Tétuan nella sposta mediterranea del Maghreb e a Larache e Salé sull’Oceano Atlantico.
Non stiamo parlando di fiction. A Trapani a quei tempi si poteva davvero andare al mercato acomprare uno schiavo, più o meno come oggi si compra la verdura. Il mercato si teneva nel rione Casalicchio, l’odierno San Pietro, di fronte al porto. Nella toponomastica cittadina quel luogo si chiama ancora oggi la Via dei Saraceni. Successivamente venne spostato nella Rua Grande, il Corso Vittorio Emanuele.
Il destino più duro era riservato ai giovani robusti che finivano al remo a bordo delle galee, da cui difficilmente uscivano vivi. I più fortunati erano invece quelli che potevano essere scambiati con altri schiavi in Nordafrica. Come succedeva anche ai cristiani, chi si convertiva aveva qualche possibilità di ottenere la libertà, ma la decisione finale spettava al padrone che nel caso avrebbe perso i soldi dell’acquisto.
Ma uno che se ne faceva di uno schiavo? Giuseppe Bonomo racconta che a Trapani tra il 1590 e il 1610 molti personaggi possedevano o avevano in affitto schiavi e schiave addetti ai lavori casalinghi. Ma non sempre l’acquirente li impiegava direttamente: per alcuni mercanti erano semplicemente un investimento e li davano in affitto, individualmente o a gruppi, per impiegarli nei campi, nelle masserie, nelle cave, nella costruzione di case, strade o altro.
I proprietari di schiavi erano tenuti a registrali.Era il rivelo, una sorta di redditometro dell’epoca, che serviva a pagare la corrispondente “gabella degli schiavi e bestie erranti”.
Ufficialmente a Trapani all’inizio del ‘600 gli schiavi non arrivavano al centinaio, molti dei quali cristiani, su una città di circa 18000 abitanti. Ma, se i nostri antenati erano bravi a eludere il fisco come lo sono i contemporanei, il numero reale doveva essere molto più alto. A un certo punto, oltre al possesso, venne tassata anche la compravendita, in misura del 20 per cento del prezzo di vendita. Si chiamava quinta, ed era in pratica l’IVA sulla schiavitù. In questo business si distinguevano gli ecclesiastici. Moltissimi di questi, quasi tutti, possedevano schiavi. Sempre lo stesso Trasselli ritiene che a Trapani nel XVII secolo quasi metà degli esportatori di schiavi erano sacerdoti.
Il numero delle schiave superava dell’80 per cento quello degli schiavi. Le schiave venivano impiegate per lo più nei lavori di casa, ma non solo. Le ragazze più avvenenti costituivano un piccante diversivo alla noiosa routine domestica e, come ci racconta sempre il Trasselli, nelle case dove vivevano era frequente la presenza di figli naturali. Le altre invece erano avviate alla prostituzione per conto del padrone.
Gli schiavi si compravano a buon prezzo perché i musulmani raramente pagavano per riscattarli e quindi l’abbondanza dell’offerta manteneva basso il prezzo. Uno schiavo giovane e in buona salute costava 40-60 unze e non c’era grande differenza tra il prezzo di un uomo e di una donna. Per fare un confronto, dopo la terribile carestia del 1671, una salma di frumento, corrispondente a circa due quintali e mezzo, costava 4 unze e 8 tarì e un cantaro di olio, che era circa ottanta litri, 3 unze e 10 tarì.
(da rumpiteste.wordpress.com)
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