L'approdo di Drepana (Trapani) era frequentato ed inserito «nel complesso sistema di rotte che collegavano i centri di produzione con quelli di commercializzazione dei metalli e che nel corso delle fasi finali della preistoria, da oriente ad occidente univano tutto il Mediterraneo».
La documentazione sulle antiche popolazioni dell’area della laguna nei dintorni di Trapani è costituita da frammentari ritrovamenti archeologici di superficie. Questi piccoli ritrovamenti confermerebbero, come aveva previsto lo storico Trasselli, una rete di minuscoli insediamenti diffusi nel territorio.
Al sud del porto di Trapani, che è poi l’area di cui maggiormente c’interesseremo, sono stati trovati frammenti d’ossidiana all’interno dell’isola della Calcara, e poi anche strumenti in selce sull’isola del Ronciglio, l’antica isola di Santa Margherita.
Queste sono alcune delle isole che si erano create quasi all’interno del porto, fin dalla preistoria. Per la verità, le mappe antiche dei portolani francesi, ma anche stampe raffiguranti la falce drepanea, riportavano sempre un’altra isola, «la basse», vicina alle altre due ora citate, mentre di fronte ad esse viene raffigurata sempre «la tour de salines», sicuramente la «raisidebbi» delle cartografie medievali, la torre di Nubia, destinata in un primo tempo a guardia di una tonnara che poi non si creò più e che divenne torre di guardia, delle saline, a difesa dai corsari barbareschi.
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Le due piccole isole, sostiene l’archeologo Filippi, «sono caratterizzate da una bassa piattaforma calcarenitica, costituiscono una sorta di barriera naturale fra il mare e la zona lagunare interna».
L’identica particolare situazione morfologica si ripresenta più a sud nella zona di capo San Teodoro, un promontorio che chiude la parte più settentrionale dello Stagnone di Marsala, dove sono stati ritrovati numerosi manufatti in ossidiana.
E poi fin dagli anni quaranta del novecento, gli studiosi avevano accertato la presenza di numerosi strumenti di ossidiana in molti luoghi dell’entroterra del trapanese, ma soprattutto, nei dintorni di Paceco, lungo la valle del Baiata, nei pressi di Malummeri, insieme alla presenza di fittili in ceramica dell’età del Neolitico antico e medio.
I ritrovamenti erano stati effettuati nella Grotta Maiorana come riferiva la Bovio Marconi, ma anche recentemente il Filippi in contrada Costa Chiappera di Dattilo.
Comunque è da segnalare il ritrovamento di alcuni pani di rame, anche senza alcuna documentazione purtroppo del contesto archeologico di provenienza. I pani di rame costituirebbero tuttavia un primo segnale sicuro sul fatto che l’approdo di Trapani era frequentato ed inserito «nel complesso sistema di rotte che collegavano i centri di produzione con quelli di commercializzazione dei metalli e che nel corso delle fasi finali della preistoria, da oriente ad occidente univano tutto il Mediterraneo».
Dicono gli archeologi, come Antonino Filippi, che particolarmente complesso si presenta il problema relativo all’antica morfologia del porto e di tutto il territorio circostante la città ed a tal proposito allega alle sue ricerche la pianta della città e del porto dell’anno 1872.
Ad est ed a sud nella area lagunare della città sono avvenute modificazioni ambientali consistenti e nella zona portuale sono da imputare in primo luogo alla attività di sfruttamento delle saline, ma anche alla canalizzazione dell’alveo dei torrenti Lenzi (il dolce) e Baiata (il salso), i quali nell’ultimo secolo hanno prodotto un differente apporto di sedimenti, conclude l’archeologo, in tutta l’area.
Ad esempio, «nella zona lagunare che si estendeva intorno a Trapani e fino alle pendici del Monte Erice, queste trasformazioni antropiche sono rilevabili anche attraverso la lettura delle fonti storiche e delle rappresentazioni iconografiche degli ultimi secoli (mappe, topografie, portolani etc..)».
Il territorio ad est della città, pertanto, era caratterizzato da estesi cordoni dunali intervallati da pantani, come quello famoso del cosiddetto Lago Cepeo che venne bonificato verso la fine dell’ottocento, e da campi coltivati.
Il geografo e storico Massa, nella sua “Sicilia in prospettiva”, agli inizi dell’ottocento evidenziava la presenza a Nord Est della città di un lungo litorale sabbioso che veniva denominato in quel tempo la spiaggia “delli fungitelli”, ma che certamente è l’attuale San Giuliano.
Il litorale separava il mare dalla zona detta dei Cavallacci che era stata raffigurata nelle celebre stampa dell’Orlandi, della fine del cinquecento, con le senie e gli orti e poi più avanti con saline.
Mentre dovendo interessarci noi del profilo delle costa dell’area a sud del porto fino al promontorio di Nubia, che viene definito il Raisidebbi delle fonti medievali, evidenziate di recente dal Maurici nel suo “Medioevo trapanese”, possiamo affermare che questo litorale era composto da diversi isolotti che sono oggi scomparsi a causa dell’azione eolica e della erosione dovuta all’acqua marina.
Ad esempio, di fronte la torre di Nubia, vi era l’isolotto di Raisidebbi, ormai inghiottito dalle acque, che in certe mappe del secolo XVI appare descritto, che nel secolo XX serviva ai cacciatori di anatre per la posta notturna.
Questi isolotti sono scomparsi, inoltre, anche a causa dell’ampliamento delle saline, dice Filippi, ma nell’area rimangono a memoria diversi toponimi come l’isola della Zavorra, l’isola del Ronciglio (antico “recilio o regilio dei portolani) o di santa Margherita e l’isola della Calcara (detta anche di Sant’Alessio per la presenza della chiesetta dedicata al santo alla fine del XVI secolo).
Testo:
di Alberto Barbata
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