“Giace de la Sicania al golfo avanti un’isoletta che a Plemmirio ondoso è posta incontro, e dagli antichi è detta per nome Ortigia. A quest’isola è fama che per vie sotto al mare il greco Alfeo vien da Dòride intatto, infin d’Arcadia per bocca d’Aretusa a mescolarsi con l’onde di Sicilia. E qui del loco venerammo i gran numi; indi varcammo del paludoso Eloro i campi opimi. Rademmo di Pachino i sassi alpestri, scoprimmo Camarina, e ‘l fato udimmo, che mal per lei fôra il suo stagno asciutto.
La pianura passammo de’ Geloi, di cui Gela è la terra, e Gela il fiume. Molto da lunge il gran monte Agragante vedemmo, e le sue torri e le sue spiagge che di razze fur già madri famose.
Col vento stesso indietro ne lasciammo la palmosa Seline; e ‘n su la punta giunti di Lilibeo, tosto girammo le sue cieche seccagne, e ‘l porto alfine del mal veduto Drepano afferrammo.”
Eneide, Libro III – Virgilio (70-19 a.C.)
“La favola è alcuna volta un adombramento della storia,
in maniera che sotto gli ornamenti di quella vi stiano
racchiusi dei fatti che si riferiscono o alla storia degli
uomini o della natura.”
L'Eneide è un poema epico della cultura latina scritto dal poeta e filosofo Virgilio tra il 31 a.C. e il 19 a.C., che narra la leggendaria storia di Enea, eroe troiano figlio di Anchise, fuggito dopo la caduta della città di Troia, che viaggiò per il Mediterraneo fino ad approdare nel Lazio, diventando il progenitore del popolo romano. Enea è una figura già presente nelle leggende e nella mitologia greca e romana, e compare spesso anche nell'Iliade; Virgilio mise insieme i singoli e sparsi racconti dei viaggi di Enea, la sua vaga associazione con la fondazione di Roma e soprattutto un personaggio dalle caratteristiche non ben definite tranne una grande religiosità (pietas in latino), e ne trasse un avvincente e convincente "mito della fondazione", oltre a un'epica nazionale che allo stesso tempo legava Roma ai miti omerici, glorificava i valori romani tradizionali e legittimava la dinastia giulio-claudia come discendente dei fondatori comuni, eroi e dei, di Roma e Troia.
INTRODUZIONE
La colonizzazione mitologica della Sicilia, non può prescindere né dalle fonti storiche, né da quelle letterarie o archeologiche. Infatti, i racconti mitici, riscontrati presso scrittori e poeti greci o latini, spesso, non solo trovano riscontro in sede archeologica, ma per tanti versi, costituiscono, essi stessi, una fonte storica in quanto rappresentano il patrimonio culturale che gli antichi, quando non esisteva ancora la scrittura, ebbero del loro passato; insomma, la mitologia è un pezzo della memoria collettiva, che gli uomini conservarono nel corso di vari millenni, tramandata oralmente di generazione in generazione, e sublimatasi, poi, nelle leggende rappresentate mirabilmente nell’Iliade, nell’Odissea, nell’Eneide e in altre fonti letterarie. Per gli antichi la narrazione di quei fatti era la loro storia.
STORIA, MITO E ARCHEOLOGIA
1 La storia
Le prime forme di scrittura furono gli ideogrammi, siamo circa nel 3000 a.C.. Intorno al 1500 a.C., ad opera dei Fenici cominciò l’abbandono degli ideogrammi e l’introduzione della scrittura lineare; nel IX secolo a.C., i Greci introdussero nella loro lingua l’alfabeto. Solo nel V secolo la scrittura greca divenne strumento di produzione storiografica. Al tempo della guerra di Troia, episodio importante nella storia dell’antichità, quindi non esisteva la scrittura di conseguenza nessuno fu in grado di scriverne la storia; i ricordi degli eroi, sia vincitori che vinti, furono tramandati oralmente; ma quando ebbe inizio la colonizzazione greca della Sicilia e dell’Italia meridionale la scrittura greca era conosciuta, anche se praticata da pochissimi addetti, e fu possibile tramandare ai posteri alcune informazioni essenziali che riguardano i primi popoli della Sicilia e i primi coloni greci giunti nell’isola.
I primi storici della Sicilia furono Filisto della cui opera, andata perduta, ci rimane solo quello che riferisce Diodoro Siculo nella sua “Biblioteca”, Plutarco con le sue “Vite”, Tucidide nato e morto in Atene (460-398a.C.). Tucidide scrisse “La guerra del Peloponneso” e non potè non occuparsi anche della fase in cui quella guerra ebbe per teatro la Sicilia, per questo motivo, non si può definire solamente come uno storico della Grecia, perché in quel tempo Grecia non significava solo Ellade, Grecia era il bacino del Mediterraneo, Grecia era anche la Sicilia e gran parte dell’Italia meridionale.
2 Archeologia e mitologia
La conoscenza archeologica ha il pregio di dare notizie di provata certezza e di spingersi, al tempo stesso, molto indietro nei millenni, addirittura le ultime scoperte archeologiche si addentrano alle soglie della preistoria, accertando i tempi della presenza umana in Sicilia, quando l’isola era ancora unita all’Africa e alla penisola italiana.
A partire dall’Età del Ferro, (fine secondo millennio a.C.) la documentazione archeologica è resa storicamente intellegibile dalla documentazione storico-leggendaria e mitico-favolosa, di conseguenza i reperti archeologici, spesso di per sé, anonimi, acquistano significati se integrati con le conoscenze probabili della letteratura leggendaria e mitico favolosa antica. In sostanza, queste tre fonti sinergicamente adoperate concorrono a darci una rappresentazione dei fatti molto vicina alla verità.
L’archeologia ha provato che tra la Sicilia e il mondo ellenico esistevano rapporti di varia natura almeno cinque secoli prima dell’arrivo dei coloni greci nell’VIII secolo, addirittura i rapporti fra Sicilia e mondo greco e miceneo erano già intensi alla fine del secolo XVIII a.C. cioè prima dell’inizio della guerra di Troia.
La vicenda di Dedalo e Minosse e soprattutto del viaggio di quest’ultimo in Sicilia, dimostra che quel mito oltre ad essere ellenico, cretese e minoico era anche un mio siciliano, ciò significa che tra quei popoli c’era una comunione di credenze religiose, di riti, di culti. Se col Minotauro rimaniamo nel mito, col viaggio di Minosse in Sicilia usciamo fuori dalla mitologia, lo conferma anche la toponomastica; Minoa, chiamata così perché luogo dello sbarco di Minosse, è alle foci del fiume Platani che conduce al sito in cui sorgeva Camico, città fortezza di re Cocalo.
La testimonianza archeologica è importante anche perché dà un fondamento di verità alla letteratura mitico-leggendaria tutta incentrata su racconti favolosi aventi intrecci insieme ellenici e siciliani.
I miti non sono solo fantasia essi rappresentano il patrimonio di valori, trasmesso prima oralmente poi attraverso fonti scritte, su cui si fonda l’identità di un popolo e spesso in essi si riscontrano frammenti di verità.
Oggi noi sappiamo che ci fu un tempo in cui la Sicilia non era un’isola essendo ancora legata all’Africa e all’Italia; questa notizia non è solo moderna, anche i mitografi antichi, evocando millenarie tradizioni trasmesse oralmente, dicevano che la Sicilia fosse in origine una penisola e che poi divenne un’isola perché l’istmo che la univa alla Calabria venne eroso dai venti e dalle acque marine (Virgilio), quella versione raccontata dai mitografi contiene, quindi, una verità storica.
Virgilio, Eneide, libro III, vv. 656 ss.
Quinci partito allor che da vicino
scorgerai la Sicilia, e di Peloro
ti si discovrerà l’angusta foce,
tienti a sinistra, e del sinistro mare
solca pur via quanto a di lungo intorno
gira l’isola tutta, e da la destra
fuggi la terra e l’onde. È fama antica
che di questi or due disgiunti lochi
eran prima uno solo, e che per forza
di tempo di tempeste e di ruine
(tanto a cangiar queste terrene cose cose
Può de’ secoli il corso), un di smembrato
fu poi da l’altro. Il mar fra mezzo entrando
tanto urtò, tanto ròse, che l’esperio
dal sicolo terreno alfin divise:
…………………………………
Nel destro lato è Scilla; nel sinistro
è l’ingorda Cariddi.
I PRIMI POPOLI DELLA SICILIA
Il popolamento preistorico della Sicilia è anteriore alla nascita della scrittura, di conseguenza informazioni in merito le possiamo attingere dalla tradizione orale e dall’archeologia; quest’ultima, in particolare, testimonia che i rapporti tra la Sicilia e il mondo ellenico esistevano almeno cinque secoli prima dell’arrivo dei coloni greci, nell’VIII secolo; i rapporti tra Sicilia e mondo egeo e miceneo erano già intensi alla fine dell’XVIII secolo a.C.
Nel V secolo, con Erodoto e Tucidide, comincia la storia scritta, ma preparare il terreno per la storiografia, erano stati i geografi ad opera soprattutto di Ecateo di Mileto.
Plutarco ricorda che: “sia i giovani, nelle palestre che gli anziani nelle botteghe o seduti in luoghi di ritrovo disegnavano carte geografiche della Sicilia e del mare che la circondava con i porti e i punti della costa dell’isola che guardavano verso l’Africa”; e Strabone nella sua “Geografia” afferma che l’Odissea, non è un’opera di pura fantasia, ma racchiude un fondo di verità, e si fonda su nozioni geografiche precise. D’altra parte è chiaro che se i rapporti tra mondo egeo-miceneo e Sicilia esistevano già nel XVIII secolo a.C., la Grecia omerica un’idea della Sicilia doveva pur averla. Tucidide scrive: “Sembra che (la Sicilia) in antico non fosse abitata stabilmente e vi avvenissero molte migrazioni. Però, ciascun popolo, costretto a lasciare il proprio paese, situato in varie parti d’Europa o d’Italia, giunto in Sicilia vi rimanesse stabilmente affiancandosi ai popoli che già nell’isola si trovavano o che in seguito vi sarebbero approdati”. Pertanto il il definitivo popolamento storico dell’isola non avvenne una volta e per tutte, ma nel corso di vari secoli.
Comunque le emergenze storico-archeologiche testimoniano che la Sicilia in antico era abitata da Greci, Siculi, Sicani, Elimi, Fenici e dagli Ausoni stanziatisi nelle isole Eolie col loro re Liparo.
Sicani
Tucidide scrive: “si dice che i più antichi (abitatori) siano stati i Ciclopi e i Lestrigoni che abitarono una parte dell’isola, io non potrei dire di che razza fossero, ci si deve accontentare di quello che scrivono i poeti e di quello che si sa di quei popoli”, e ancora in un altro passo si legge: “Pare che i Sicani avrebbero preceduto i Ciclopi e i Lestrigoni, poiché si dice nati sul luogo”, però secondo lo storico, la verità era che i Sicani non erano autoctoni, bensì Iberi scacciati dai Liguri dalle rive del fiume Sicano, in Iberia. Dal loro nome l’isola fu chiamata Sicania, mentre prima era chiamata Trinacria. I Sicani si sarebbero arroccati sulle montagne e sulle alture interne della parte nord- occidentale e settentrionale dell’isola; Camico, sede del re Cocalo, era una città dell’antichissima popolazione dei Sicani.
Siculi
Dopo i Sicani, su zattere, dall’Italia, sarebbero arrivati i Siculi, che costrinsero i Sicani a ritirarsi nelle regioni meridionali e ed orientali dell’isola. Divenuti numerosi, la Sicilia dal loro nome fu chiamata non più Sicania, ma Sicilia. La moderna storiografia ci conferma che i Siculi erano popoli di origine illirica, stanziatisi verso la metà del II millennio a.C. sul litorale adriatico sud occidentale d’Italia. Dionisio di Alicarnasso cita un brano di Ellanico dove, senza indicazione di fonti, conferma l’origine ligure dei Siculi.
Elimi
L’area Elima occupa la parte occidentale dell’isola. Gli Elimi erano concentrati ad Erice e a Segesta. Le tradizioni storiche attribuivano loro due origini: Ellenico di Mitilene li considera provenienti dall’Italia, da dove sarebbero stati cacciati dagli Enotri, Tucidide li ritiene troiani fuggiaschi, unitisi agli indigeni Sicani e più tardi ai Focesi. Le città elime vantavano come eroi fondatori Egesto ed Elimo, quest’ultimo bastardo di Anchise, quindi collegati con la genealogia troiana. La prima testimonianza precisa sull’origine troiana degli Elimi ci è fornita da Tucidide, nella sua introduzione alla “Storia della spedizione in Sicilia”. Dopo la caduta di Ilio, un gruppo di Troiani per sfuggire agli Achei, arrivò per mare in Sicilia e si stabilì in prossimità dei Sicani. Essi presero il nome di Elimi, ed ebbero due città Erice e Segesta. Anche Plutarco afferma l’origine troiana dei segestani,. E’ noto che i romani, quando colonizzarono la Sicilia concessero ai segestani la “immunitas” in memoria della comune origine troiana. (Gli Elimi, sarebbero stati originari dell’Epiro e avrebbero dovuto il loro nome a un certo Elymo “re dei Tirreni”).
I Fenici
I Fenici costituiscono l’altro elemento fondamentale di questa area. Tucidide a proposito scrive: “Prima dell’arrivo dei coloni greci, i Fenici avrebbero stretto rapporti commerciali con le popolazioni di tutta l’isola occupandone promontori sul mare ed isolette presso la costa”, poi nel corso dell’ VIII sce a.C. i loro commerci si estesero lungo le coste settentrionali fino ad Imera e lungo quelle meridionali fino a Selinunte, Solunto e Lilibeo. Dalla metà del VII secolo inizia l’espansione di Cartagine, minacciata dalla pirateria greca.
L’aggressività greca, che trovava la propria giustificazione nella tradizione mitica delle imprese di Eracle e degli eraclidi si rinnova più volte nel corso del VI secolo col tentativo dell’eraclide Dorieo, giunto da Sparta per fondare una colonia eraclea, presso Erice, nel cuore dei possedimenti cartaginesi. (510 a.C.)
Liparitani
Sulla base dei dati forniti dagli scavi nelle isole Eolie ed a Milazzo, si può affermare che intorno alla metà del XII secolo a.C., la costa settentrionale della Sicilia fu interessata ad un flusso migratorio proveniente dalla penisola italiana, con caratteristiche culturali simili a quelle dell’are tirrenica. Si tratta di culture poco influenzate dagli apporti greci, che si manifesteranno solo più tardi, con la ripresa dell’attività colonizzatrice.
Greci
Gli ultimi arrivati furono i Greci, prima giunsero i Calcidesi, che approdarono a Naxos, prima colonia greca della Sicilia, occupata allora dai Siculi. Poco dopo Archia, discendente dagli Eraclidi, fondò Siracusa scacciandone i Siculi, seguirono poi i Megaresi.
Comunque Tucidide scrive che i Siculi giunsero in Sicilia 300 anni prima dei greci, i Sicani cento anni prima della guerra di Troia, i tempi dell’originario popolamento siciliano ruotano, quindi, attorno alla guerra di Troia, qualche secolo prima giunsero i Sicani e forse i Fenici; dopo qualche secolo gli Elimi e i Siculi; tre secoli dopo i Greci Quindi il popolamento originario dell’isola avvenne per ondate migratorie in 7/8 secoli. La colonizzazione greca, invece avverrà nell’arco di due secoli e mezzo.
TRA MITO E STORIA
1 Minosse in Sicilia
Diodoro Siculo, narra che Dedalo era un ateniese che superava tutti per ingegno, soprattutto nell’architettura e nella scultura. Costretto a rifugiarsi a Creta, per aver ucciso il proprio nipote, fu accolto da Minosse per il quale costruì il labirinto. Con la sua arte Dedalo costruì una finta vacca permettendo a Parsifae, innamorata del candido toro, donato da Posidone a Minosse, di soddisfare la sua mostruosa passione; allora Dedalo, temendo la vendetta di Minosse, fuggì col proprio figlio Icaro. In Sicilia, Dedalo, fu ospitato dal re sicano Cocalo, che restò stupito ed ammirato della sua geniale versatilità. Dedalo, nei pressi di Megara Iblea, costruì una grande piscina da dove il fiume Alabo usciva per gettarsi in mare. A Camico, che sarebbe divenuto territorio di Agrigento, costruì in una rupe una città fortificata che Cocalo elesse a propria residenza; nel territorio di Selinunte costruì una grotta e vi fece e vi fece sboccare vapori sotterranei il cui calore moderato guariva dalle malattie; ad Erice rinforzò la roccia su cui sorgeva il tempio di Afrodite e dedicò alla dea un favo d’oro.
Il racconto di Diodoro continua così: “Minosse signore dei mari, venne a sapere che Dedalo si era rifugiato in Sicilia, e decise di rintracciarlo. Allestì una flotta e fece sbarcare le sue truppe non lontano da Agrigento, in una località che prese in nome di Minoa (Eraclea Minoa), e ingiunse a Cocalo di consegnargli l’artefice. Cocalo invitò Minosse a un colloquio, in quella occasione lo fece uccidere con un bagno caldo. I cretesi che Minosse aveva condotto in Sicilia, rimasti senza il loro capo e perdute le navi, decisero di rimanere nell’isola e si stanziarono a Minoa”.
La grotta costruita da Dedalo nel territorio di Selinunte, è facilmente riconoscibile in cima alla collina di San Calogero, nei pressi di Sciacca, l’antica terme di Selinunte. Più difficile è localizzare la fortezza costruita da da Dedalo a Camico, non disponiamo di indicazioni in tal senso, si è pensato di poterla identificare ora con la moderna Siculiana, ora con Caltabellotta, ma nessuna delle due ipotesi resta convincente.
2 Eolo signore dei venti. Isole Eolie
Secondo la mitologia greca, Eolo, dio dei venti, figlio di Poseidone ed Arne, ebbe da Zeus, il compito di controllare i venti. Eolo li dirigeva e li liberava custodendoli dentro le caverne e dentro un otre a Lipari, una delle isole Eolie, piccolo arcipelago, a Nord-Est della Sicilia, nella quale aveva la sua reggia. I venti, dopo aver provocato grossi danni tra i quali il distaccamento della Sicilia dal continente dovevano essere tenuti sotto controllo. Nel mito tutta la vicenda si rifà a Liparo, figlio di Ausone, e ad Eolo. Liparo è un re italico che sopraffatto dai fratelli, fugge dall’Italia e giunge in prossimità della Sicilia in un’isola a cui avrebbe dato il suo nome e in cui avrebbe fondato una città. Ormai vecchio, Liparo sente nostalgia per l’Italia, ma approda in quell’isola Eolo, che sposa Ciane, figlia del vecchio re, diventa re dell’isola, e aiuta Liparo a tornare in Italia.
Diodoro Siculo nella sua “Biblioteca”, racconta che Eolo, signore dei venti, andò a stabilirsi presso Liparo, re italico, che sopraffatto dai fratelli aveva lasciato l’Italia e si sarebbe trasferito nel piccolo arcipelago. Eolo avrebbe spostato Ciana figlia di Liparo, e avrebbe regnato Eolo sulla costa settentrionale della Sicilia; Sicani e Siculi si sarebbero sottomessi spontaneamente ad essi.
Eolo, Odissea, libro X, vv 1-25
Quando Ulisse, reduce dalla guerra di Troia, approdò alle isole Eolie, Eolo lo ospitò e, commosso dal racconto dell’eroe greco, gli fece dono di un otre di pelle dentro la quale erano rinchiusi i venti contrari alla navigazione.
E giungemmo all’isola Eolia. Qui dimorava
Eolo, caro agli dei, figlio di Ippota.
L’ isola errava nuotando. Un muro la cinge
bronzeo; e liscia s’innalza una rupe.
Dodici figli con lui nel palazzo vivevano.
……………………………………………………..
La casa odorosa riecheggia
al suono dei flauti finchè il giorno dilegua;
……………………………………………………..
Poi quando licenza gli chiesi di andarmene
non rifiutò, ma prese a cuore il mio viaggio;
spogliò delle cuoia un bove novenne
un otre ne fece, e dentro vi chiuse
dei venti ululanti le vie: custode l’aveva
dei venti fatto il cronide, e poteva
quieti tenerli o incitarli a sua voglia.
Nella concava nave con lucida fune,
argentea, l’otre legò, di guisa che fuori
neppure un alito uscisse; ma solo
il soffio di Zefiro per me liberò
che la nave benigno spingesse per noi.
3 I Ciclopi
I racconti mitici non sono racconti storici, però quando essi narrano leggende che hanno per protagonisti eroi umani o a volte divinizzati, che compiono le loro imprese in luoghi ben precisi, sono pur sempre racconti di fatti umani, sia pure fantastici, collocati in contesti precisi.
Figure favolose della mitologia greca, i Ciclopi vengono rappresentati di statura gigantesca e forniti di un solo occhio, situato in mezzo alla fronte.
Nell’Odissea sono una collettività di giganti spregiatori degli dei, che vivono nelle caverne allo stato pressoché di natura e antropofagi; sono pastori, il loro capo è Polifemo, figlio di Posidone. Esiodo nella Teogonia, nomina tre ciclopi come figli di Urano e Gaia: Caronte, Sterope e Arge, i cui nomi richiamano i più violenti fenomeni meteorici, e che la tradizione presenta come fabbri costruttori dei fulmini di Zeus.
Tucidide scrive: “Si dice che i più antichi popoli della Sicilia fossero i Ciclopi e i Lestrigoni che abitarono una parte dell’isola, io non potrei dire di che razza fossero, ci si deve accontentare di quello che scrivono i poeti e di quello che si sa di quei popoli”.
Nella tradizione greca classica e post-classica si riscontrano versioni discordanti in merito alla identificazione dei luoghi sede dei Ciclopi.
Secondo uno di questi filoni, i Greci avevano capito che il Ciclope fosse soltanto la trasfigurazione poetica di un vulcano che essi collocavano in Sicilia ed identificavano con l’Etna. Oltre a Tucidide anche Virgilio continua a localizzare in Sicilia l’avventura di Ulisse e Polifemo; non a caso a tre isolotti nei dintorni di Catania fu dato, nell’antichità, il nome di Scogli dei Ciclopi rimasto ancora oggi.
Polifemo Ciclope, figlio di Posidone e della ninfa Toosa, nel IX libro dell’Odissea è un rozzo e bestiale pastore monocolo, che, dopo aver divorato alcuni compagni di Ulisse, è da questo ubriacato ed accecato con un palo aguzzo; non riesce perciò a prendere Ulisse e i compagni, che fuggono dalla sua grotta aggrappati al ventre di alcuni montoni, né a far capire ai Ciclopi, chiamati in aiuto, il nome di chi lo aveva accecato, perché Ulisse, nel precedente colloquio, si era nominato ùtis (nessuno).
Polifemo nell’Odissea
Libro IX, vv. 105 ss.
…e avanti di là navigammo turbati nell’animo,
finchè dei Ciclopi selvaggi e protervi
giungemmo alla terra. Questi si affidano
ai numi immortali: non piantano alberi,
non arano campi…
non hanno assemblee né sanno leggi,
ma vivono in alte cime di monti in antri
fondi…
e c’è un porto di agevole ormeggio, dove superflue
son le funi, né servono pietre per àncora
alle navi, né corde a fermarle a riva…
E quando alla terra vicina approdammo
una grotta vedemmo sull’orlo roccioso del mare
………………………………………..
Quivi un uomo abitava di enorme grandezza
che solo e da tutti lontano pasceva le greggi….
Polifemo nell’Eneide
Secondo Virgilio Enea lascia Troia in fiamme, portando con sé il padre Anchise, il figlio, i penati e gli dei della città. Dopo aver toccato la Tracia, Creta, l’Epiro costeggia l’Italia fino allo stretto di Messina. Sfuggendo a Scilla e Cariddi i Troiani si spingono fino ai piedi dell’Etna dove abitano i Ciclopi.
Eneide, Libro 3°, vv 890 ss.
…Del viaggio incerti
disavvedutamente a le contrade de’ Ciclopi approdammo.
E’ per se stesso a’ venti inaccessibile e capace
di molti legni il porto ove giungemmo;
ma sì d’Etna vicino, che i suoi tuoni
e le sue spaventevoli ruine
lo tempestano ogn’ora. Esce talvolta
di questo monte a l’aura un’atra nube
mista di fumo nero e di roventi
faville, che di cenere e di pece
fan turbi e groppi, ed ondeggiando a scosse
vibrano ad ora ad or lucide fiamme
che van lambendo a scolorir le stelle.
L’ipotesi storica più accreditata è quella che vede nei Ciclopi un popolo non ancora dedito all’agricoltura “tutto vien su inseminato e inarato”, che si nutre di tutto quanto spontaneamente offre la terra.
4 Enea in Sicilia
Dell’origine troiana degli Elimi scrive Dionisio di Alicarnasso, a proposito della partenza di Elimo ed Egesto dalla Troade.
Come Virgilio, ma con qualche variante, Dionisio fa approdare Enea presso i troiani di Sicilia.
Secondo Virgilio, Enea lascia Troia in fiamme e dopo un viaggio avventuroso, costeggiando l’Italia fino allo stretto di Messina, evitando le zone abitate dai Greci, e sfuggendo a Scilla e Cariddi, i Troiani si spingono ai piedi dell’Etna, dove abitano i Ciclopi, si lasciano dietro la baia di Megara e il capo Pachino, a questo punto Enea scorge da lontano Camarina, Gela, Gela. Agrigento e Selinunte, poi tocca il porto di Drepanon (Trapani) e qui Anchise muore.
Eneide libro III, vv 1092 ss.
Morte di Anchise
Giace de la Sicania al golfo avanti
un’isoletta che a Plemmirio ondoso
è posta incontro, e dagli antichi è detta
per nome Ortigia.
A quest’isola è fama
che per vie sotto al mare il greco Alfeo
vien da Doride intatto, infin d’Arcadia
per bocca d’Aretusa a mescolarsi
con l’onde di Sicilia. E qui del loco
venerammo i gran numi; indi varcammo
del paludoso Eloro i campi opimi.
Rademmo di Pachino i sassi alpestri,
scoprimmo Camarina, e’l fato udimmo
che mal per lei fora il suo stagno asciutto.
La pianura passammo de’ Geloi,
di cui Gela è la terra e Gela il fiume.
Molto da lunge il gran monte Agragante
vedemmo, e le sue torri e le sue spiagge
che di razze fur già madri famose.
Col vento stesso indietro ne lasciammo
la palmosa Seline; e ‘n su la punta
giunti di Lilibeo, tosto girammo
le sue cieche seccagne, e il porto alfine
del mal veduto Drepano afferrammo.
Qui, lasso me! Da tanti affanni oppresso,
a tanti esposto, il mio diletto padre.
Il mio padre perdei.
Una tempesta sbatterà Enea sulle coste di Cartagine, dove avviene l’episodio di Didone, in seguito fuggendo dall’Africa Enea torna in Sicilia, dal re Aceste, che lo accoglie festoso. Era trascorso un anno dalla morte di Anchise, ed Enea bandì sacrifici e banchetti in onore del padre e al nono giorno i ludi. Enea torna in Sicilia.
Eneide, libro V, vv 35 ss.
Vedi il vento mutato, vedi il mare
di ver ponente, che s’nnera e gonfia:
……………………….
Or poi ch’a forza
così ne spinge, noi per nostro scampo
assecondiamla; che già presso i porti
ne son de la Sicilia e ‘l fido ospizio
d’Erice tuo fratello, s’abbastanza
de l’arte mi rammento e de le stelle.
…………………………………………………..
… E qual più grata altrove,
o più comoda riva, o piùsicura
aver mai ponno le mie stanche navi,
di quella che ne serba il caro Aceste,
e l’ossa accoglie del buon padre mio!
Enea indice i ludi in memoria di Anchise.
….
Ed io quando l’aurora
tranquillo e queto il nono giorno adduca,
a solenni spettacoli v’invito
di navi, di pedoni e di cavalli,
al corso, a la palestra, al cesto a l’arco.
Enea segna la meta della gara (Scoglio Scialandro?)
Eneide, libro V, vv. 180
… e lunge incontra
a la spumosa riva un basso SCOGLIO (scoglio in corsivo)
che, da’ flutti percorso, è talor tutto
vi tendon sopra un nubiloso velo
che ricuopre le stelle, e quando è il tempo
tranquillo, ha ne l’asciutto una pianura
ch’è dei marini uccelli aprica stanza.
Qui d’un elce frondoso il segno pose
Il padre Enea, fin dove il corso avanti
stender pria si dovesse, e poi dar volta.
Indi sortiti i lochi, al suo ciascuno
si pose in fila. I capitani in poppa,
addobbati di bisso e d’ostro e d’oro
risplendean di lontano..
Uno squillo di tromba da’ inizio alla gara
…Avea la tromba
squillato appena, che in un tempo i remi
si tuffar tutti, e tutti i legni insieme
si spiccar da le mosse. I gridi al cielo
n’andar de’ marinai. Il mar di schiuma,
s’aperse intorno, e’n quattro solchi eguali
fu con molto stridor da’ rostri aperto
e da’ remi stracciato
Nel primo uscire, il primo avanti a tutti
si vide Gìa… mentre la gente freme, (la gente freme in corsivo)
e dopo di lui Cloanto
indi il Centauro e la Pistri
……
vv. 225
Eran del sasso già presso la meta (sasso in corsivo)
……………………….
E di buon tratto vincitore avanti
Gìa sen gia, quand’ei sen vide in alto
da la ripa più lunge; onde rivolto
al suo nocchiero: e dove- disse- andrai,
Menete? Attienti al lio e radi il sasso: (sasso corsivo)
vadano gli altri in alto” Ei tuttavia
d’urtar temendo, in pelago si mise,
e Gìa di nuovo: “in qua, Menete, al sasso,
al sasso, a la sinistra, a la sinistra”
dicea gridando; e volto indietro, vide
ch’avea Cloanto addosso. Era Cloanto
già tra lo scoglio e la Chimera entrato,
e via radendo a la riva sinistra,
tenne giro si breve e sì propinquo
che lui tosto e la meta anco varcando,
si vide avanti il mare ampio e sicuro (230-240)
La buffa caduta di Menete
Menete che di veste era gravato,
e via più d’anni, infino all’imo fondo
ricevè il tuffo, e risorgendo a pena
rampicossi a lo scoglio, e sì com’era
molle e guazzoso, de la rupe in cima
qual bagnato mastino al sol si scosse.
Rise tutta la gente al suo cadere (In corsivo tutto il verso)
rise al notare; e più rise ancor allora
ch’a flutti vomitar gli vide il mare.
Memmo ratto s’avanza e vince il sasso (sasso corsivo)
e via vogando ed invocando i venti
fende a la china ed a l’aperto il mare.
Ipotesi archeologica sulla identificazione del sito in cui Virgilio colloca la gara del V libro dell’Eneide (Prof. G. Purpura)
Lungo la costa del trapanese si riscontra un’insenatura dominata dal monte Cofano, al largo della quale si trova lo scoglio dello Scialandro.
Il sito, annota l’archeologo G. Purpura in “Sicilia archeologica” anno XVIII, 1985, richiama alla mente le famose gare navali di Enea, che si svolgono partendo da terra dinanzi ad un dolce declivio rinserrato tra rupi ed attorno ad un scoglio posto come meta in mezzo al mare. Nel V libro dell’Eneide, la gara navale in onore di Anchise, è seguita con attenzione costante dagli spettatori; a questo punto, il prof. Purpura si chiede: “come poteva Virgilio immaginare che fosse seguita momento per momento una gara che si svolgeva lungo un percorso all’incirca perpendicolare alla linea di costa?” Questo interrogativo ha indotto l’archeologo ad ipotizzare un percorso di gara lungo una punta o un promontorio proteso verso il largo, che creava un’ansa tale da offrire riparo al vento d’occidente che aveva spinto Enea in Sicilia.
Al tempo stesso tale promontorio dovrebbe presentare uno scoglio assai distaccato dalla terraferma. Sono tutti questi requisiti che solo l’insenatura del Cofano ha nel trapanese ed è possibile che la situazione attuale di questa località non sia molto dissimile dall’antica, viste la conformazione e la natura dei luoghi.
Se si ipotizza una partenza dalla parte interna del golfo, una virata verso occidente intorno allo scoglio ed un percorso di ritorno parallelo alla riva del monte, diversi particolari diventano comprensibili e addirittura convincenti, visti i ritrovamenti archeologici di epoca greca e romana in quel sito.
Eracle
Il mito di Eracle è uno tra i più interessanti, in quanto ricco di contenuti storici.
Nella tradizione leggendaria, si annoverano tantissimi eroi di nome Eracle, citati da Cicerone e da Diodoro Siculo. Ma importante non è tanto l'identità di Eracle, quanto il fatto che quel mito è insieme greco e siciliano.
La Sicilia di cui si parla nel mito è abitata dai Sicani, dai Siculi e dagli Elimi, ciò significa che il viaggio di Eracle avvenne prima della colonizzazione greca.
La leggenda di Eracle è collegata a quella troiana, in particolare a quella narrata da Laomedonte e da Virgilio, che sostengono l'origine troiana degli Elimi. l'Eracle greco, nel suo peregrinare, secondo Diodoro Siculo, compie un viaggio in Sicilia giugendo fin nell'estremo lembo occidentale dell'isola. Durante questo viaggio, le ninfe del luogo, perchè si ristorasse, avrebbero fatto sprizzare dal suolo le acque termali di Imera e Segesta. Ma l'episodio più importante del suo viaggio avviene ad Erice.
Erice, eponimo del monte a cui aveva dato il nome, sarebbe stato re di una parte della sicilia, alcuni storici, però, lo considerano re degli Elimi, altri dei Sicani.
Nella decima fatica di Eracle, si legge che mentre il dio-eroe riposava, un toro si sarebbe staccato dalla sua mandria e tuffatosi in mare avrebbe nuotato fino alla costa occidentale della Sicilia, Eracle inseguendo il toro lo avrebbe rintracciato tra il bestiame di Erice, figlio di di Afrodite e di Posidone, ottimo pugile, che sfidò Eacle in un combattimento alla condizione che Erice avrebbe messo in palio il suo regno contro il toro fuggito dalla mandria. Eracle ne uscì vincotore, uccise Erice e si impadronì del regno, che però avrebbe lasciato agli abitanti del luogo, perchè ne godessero fino a quando uno dei suoi discendenti non sarebbe venuto a rivendicarlo. così avvenne, secondo Diodoro Siculo, quando lo spartano Dorieo arrivò in quella regione per fondare una colonia.
Alcuni storici suppongono che la leggenda abbia preso forma solo in occasione dell'impresa di Dorieo e che fosse servita da pretesto, a quest'ultimo, per impadronirsi di quel territorio, altri, invece, sono convinti che la leggenda fosse nota in Sicilia, già da tempo, tanto che secondo alcuni l'Eracle greco presenta affinità con Melkart fenicio. Problema dibattuto è quello dell'origine fenicia del culto e delle leggenda di Eracle, non si può negare che l'Ercole greco è strettamente imparentato col Melkart fenicio e non bisogna dimenticare che la Beozia, patria dell'eroe, si dice fosse stata colonizzata dal fenicio Cadmo. In particolar modo, in Sicilia, il culto e la leggenda di di Eracle non poterono sottrarsi agli influssi semitici dovuti ai Fenici, tuttavia non si può negare che gli influssi ellenici sul culto dell'Eracle italo-siciliota siano stati anche notevoli. Nel suo viaggio in Sicilia Eracle si sarebbe fermato a Siracusa, dove saputa la leggenda del ratto di Kore, avrebbe sacrificato alla dea uno dei suoi tori più belli, gli indigeni impararono da lui il rituale dei sacrifici, che da allora furono celebrati ogni anno.
Diodoro poi racconta, senza precisare il luogo, di una battaglia scoppiata in una regione dell'interno della Sicilia fra l'eroe e un grosso esercito di Sicani, in quella battaglia caddero Pediacrate, Bitea ed altri eroi indigeni.
Diodoro Siculo scrive: "Egli con i buoi passò attraverso l'interno, e poichè i Sicani indigeni gli si opponevano con grandi armate, li vinse in una celebre battaglia, ne uccise molti, fra i quali, come raccontano alcuni nei miti, erano anche celebri strateghi..."
Il centro principale della leggenda di Eracle si trovava all'interno della Sicilia, fuori dai territori aperti alla colonizzazione ellenica ed esattamente ad Agiro moderna Agira, città natale di Diodoro, il quale racconta che ad Agiro Eracle ricevette onori divini (l'Eracle, onorato ad Agiro città sicula fu forse l'antenato che guidò i Siculi dall'Italia alla Sicilia verso il 1050 a.C. (Tucidide VI, 2, 5). In segno di riconoscenza l'eroe scavò vicino alla città un laghetto, accanto al laghetto si trovava un recinto consacrato da Ercole al nipote Ioalo, era usanza che tutti i bambini di Agiro votassero fin dalla prima infanzia, i propri capelli a Iolao e glieli offrissero, altrimenti diventavano muti. Questa offerta avveniva ogni anno, era accompagnata da feste e da giochi in cui servi e padroni insieme onoravano Iolao davanti una porta della città detta Porta Eraclea.
(da www.ilportaledelsud.org - di Rosa Casano Del Puglia)
Nota di post-scriptum
La colossale decima fatica di Ercole conferma l'antica usanza ellenica di comprare la sposa col sistema sbrigativo di una razzia di bestiame. Nella Grecia omerica le donne erano valutate a tanti capi di bestiame l'una.
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