AGRIGENTO (᾿Akrãcaq, Agràgas, Agragēntum, Agrigēntum). – Città greca della Sicilia sud-occidentale, fondata dagli abitanti della vicina Gela, celebre per i suoi templi nei quali lo stile dorico raggiunse una delle sue più alte espressioni. La città sorgeva tra il fiume Akragas (oggi S. Biagio) e il suo affluente Hypsas (oggi Drago), in località non distante dal mare, già abitata nel periodo preistorico durante la prima Età del Bronzo. Mancano tracce di una civiltà neolitica piena, a differenza degli estesi giacimenti neolitici della Sicilia orientale; tutti i reperti del Neolitico, infatti, furon trovati sempre accompagnati a materiale più progredito. Resti di abitati preistorici sono stati trovati nello stesso recinto dove poi sorse la città (una tomba a forno sul pendio meridionale della Rupe Atenea; un fondo di capanna sicula incavata in roccia, con molti frammenti fittili, a 20 metri dall’Olympieion; vari resti al di sotto del cosiddetto tempio di Esculapio). Come a Siracusa e a Camarina, i coloni greci scelsero per sito della città la sede di un abitato preistorico, e per sito dei loro santuari luoghi forse già precedentemente sacri; e questa continuazione e questo legarsi dei Greci sopravvenuti alla tradizione precedente non è senza significato.
La spiaggia agrigentina era già conosciuta ai navigatori micenei e della loro presenza in queste plaghe è testimonianza un “vaso a calamaio”. In periodo posteriore a questi primi contatti dell’età eroica del mondo greco nasce assai probabilmente anche la leggenda di Minosse ambientata nel territorio agrigentino. Tra questo periodo e quello della colonizzazione greca si formano nella zona i centri indigeni di S. Angelo Muxaro, di Palma Montechiaro (Piano della Città e Castellazzo) e assai probabilmente uno sulla piattaforma di A. Con la prima metà del VII sec. a. C., epoca della fondazione di Gela, s’inizia l’espansione dell’elemento rodio-cretese, dalla collina di Gela, lungo la costa e nell’interno, fino alla zona di A.; la fondazione di A. è perciò la conclusione di una marcia graduale verso O dell’elemento gelòo che arriva sulla Rupe Atenea, senza alcuna presa di possesso della zona in un periodo anteriore, intorno alla data del 582 a. C.
Le fonti indicano la cinquantesima olimpiade (585-58o) come data di fondazione della città: Tucidide (vi, 4) e Strabone (vi, p. 272) ne indicano come fondatori i Gebi, Polibio (ix, 27) i Rodi; ma questa incertezza viene superata poiché sappiamo che i Rodi ebbero buona parte nella fondazione di Gela. La fondazione della città fu la conseguenza di una lunga serie di atti che portarono all’occupazione del territorio, ricco e fertile e in posizione tale da favorire il commercio marittimo e con l’interno. Fu scelta la zona racchiusa tra i due torrenti sopra descritta, che presentava una parte alta e rocciosa adatta alla difesa, e una piana in cui ebbe sede la città. L’area della città era vastissima si che anche nel periodo della massima estensione non ci fu bisogno di quartieri fuori le mura. La città fu cinta da mura poderose già dai primi anni, sotto il tiranno Falaride (dai resti risultano larghe m 3,25, alte m 5) ed il loro tracciato è molto esteso e chiaro: presso di esse sono stati trovati cocci corinzi, frammenti di statuette arcaiche, cocci di vasi a figure nere del primo periodo, che fanno datare la costruzione delle mura nella prima metà del VI sec. a. C. Le mura risultano anteriori ai templi, poiché questi sono stati costruiti tenendo conto delle mura.
Queste, interrotte da rade torri quadrate, seguono la linea di maggiore elevazione (Polyb., ix, 27) e dànno alla città la forma approssimata di un rettangolo il cui lato N è costituito dai due colli rocciosi, il lato S dalle colline parallele al mare ed i lati O ed E da valloni. Nelle mura si aprono nove porte: due sul lato E (porta i, porta ii), tre sui meridionale (porte iii,iv, v), tre sul lato O (vi, vii, viii), una sul lato N (ix). Opere suppletive per la difesa sono cunicoli sotterranei, strade strategiche, ricoveri per i posti di guardia.
È assai probabile che la fortificazione contro la quale urtò l’esercito cartaginese nel 406 a. C. sia, nelle sue linee generali, la stessa che fu ideata da Falaride. Nulla sappiamo del suo stato subito dopo la battaglia del 406; conosciamo soltanto, per l’età timoleontea e subito dopo, che la fortificazione subì diversi rifacimenti, come l’arretramento e la costruzione delle torrette con scale per accedere al cammino di ronda, come nel caso verificatosi a N del c. d. tempio di Giunone. Nei difficili momenti del 311-310 a. C. è da fissare un’altra serie di rifacimenti lungo la linea meridionale, mentre alla conquista romana si può attribuire il grande danno che si verifica alle porte. Con il 252 a. C. tutto il sistema difensivo viene abbandonato per essere rimesso in efficienza, con molta probabilità, durante l’azione di Genserico nei dintorni di A. (456 d. C.).
Pur avendo un’estensione di circa 1.817 ettari, il centro abitato si è concentrato, già dalla seconda metà del VI sec. a. C., nella parte meridionale, sul pendio che si affaccia alla grande linea dei templi meridionali. Già da quest’epoca è da presupporre un piano urbanistico in cui domina una grande arteria, il decumanus maximus dell’età romana, corrispondente, con poche varianti, all’attuale strada di accesso dalla porta iv (Porta Aurea), con i suoi cardines minoressul lato orientale ed edifici pubblici su quello occidentale. Per quanto è possibile stabilire in seguito ai nuovi scavi, la pianta di tipo ortogonale della parte orientale della collina bassa potrebbe risalire fino alla prima metà del V sec. a. C., mentre con la seconda metà del IV sec. (età timoleontea) l’impianto rimane quello seguito fino alla tarda età romana. Se nulla si conosce finora di sicuro sul tipo della casa arcaica, i recenti scavi hanno messo in luce molti edifici di età romana, con pavimenti a mosaico e con tracce di pittura parietale. Sotto questo strato sono apparse le case ellenistiche e quelle della seconda metà del IV sec. a. C. con pianta simile a quella ben conosciuta di Olinto, assai probabilmente con lo stesso tipo di alzato: la parte inferiore in blocchi regolari e con una sovrastruttura in mattoni crudi.
I templi. – Sino alla fine del VI sec., A. ebbe luoghi di culto all’aperto o piccoli sacelli provvisori: un tempietto arcaico è stato scoperto sotto l’attuale chiesa di S. Nicola; un altro fra i templi cosiddetti di Eracle e della Concordia; terrecotte policrome denunciano un tempietto ad E dell’Olympieion, un altro sacello è all’interno del cosiddetto tempio di Efesto. Indici di culto all’aperto sono i due grandi altari presso il cosiddetto tempio dei Dioscuri: dei due altari uno è rotondo, formato da due anelli concentrici di conci, l’altro, rettangolare, è formato da due strati di conci disposti alternativamente, entrambi chiusi da un recinto nel quale sono state trovate molte statuette fittili che confermano trattarsi di un culto a divinità ctonie.
(L. Rocchetti)
I templi sono tutti, secondo la stirpe degli abitanti e la loro sensibilità costruttiva, di stile dorico; se nella parte maggiore sono artisticamente canonici, alcuni tuttavia ci mostrano innovazioni non lievi.
Più antico, costruito verso la fine del sec. VI, è il cosiddetto Herakleion, perittero esastilo (6 × 15 colonne), l’unico che conservi un sapore arcaico, negli pterà (colonnati laterali) di notevole ampiezza, nelle linee curve dei profili di capitelli e colonne, e nella pianta notevolmente allungata (m 73,99 per m 27,78; proporzione tra larghezza e lunghezza 1 : 2,66); esso ebbe all’inizio una cornice fittile, verso il 450 mutata con una in pietra, fornita di belle maschere leonine alle grondaie.
Ad esso segue un gruppo di edifici, il cui inizio di costruzione può essere fissato intorno al 480, quando cioè i molti prigionieri di Imera ebbero rafforzata la mano d’opera. Tra essi consideriamo: il tempio di Demetra, in antis, con bella cornice in pietra con policromia e maschere leonine, che, invece dell’altare rettangolare ad O, ne ha due rotondi a N; il tempio di Atena, sull’acropoli, perittero esastilo, in massima parte perduto; e l’Olympieion, colossale opera, misurante m 111 × 56 (dati approssimativi), piena di ardite innovazioni, costituito al centro da una cella semplice; al posto del peristilio esso ha un muro pieno, con mezze colonne all’esterno e corrispondenti pilastri interni, fornito, nel mezzo degli intercolumni esterni, di colossali figure di giganti (alti m 7,65) che concorrono a sostenere la pesantissima cornice; nei lati maggiori le semi-colonne sono 14, nei minori 7, talché, al posto dell’ingresso centrale, vi era una colonna; con probabilità v’erano due ingressi minori negli intercolumni estremi del lato orientale, ed uno nell’intercolumnio mediano del lato meridionale; il tetto era coperto di tegole fittili policromate, e la trabeazione era fornita di rilievi.
Perfettamente canonici sono due dei templi costruiti tra il 450 e il 430, detti di Hera Lacinia (metri 38,15 × 16,90; proporzione 1 : 2,25) e della Concordia (m 39,44 × 16,91; proporzione 1 : 2,33); ambedue esastili e peripteri, hanno ridotta assai la curvatura di capitelli e colonne, e un sottile sistema di proporzioni regola i rapporti dei vari spazi e delle singole masse.
Probabilmente analoghi erano, per quanto poco noi ne sappiamo, i templi detti di Vulcano e dei Dioscuri, costruiti negli ultimi decenni del sec. V; il secondo è fornito di una trabeazione assai ornata e complessa, composta di fasce di ovoli rilevati, di astragali e rosette, che è dubbio se appartenga a una ricostruzione romana, o se piuttosto debba essere attribuita all’adiacente edificio pubblico romano (v. più oltre), avendone il tempio greco avuta un’altra, ora perduta.
Degli ultimi decenni del sec. V è anche il tempio detto di Esculapio, in antis, di piccole dimensioni, fornito di pseudo-opistodomo.
(P. Mingazzini)
La città. – Gli edificî pubblici sorgevano nella zona piana – sino al 1956 non ancora tutta esplorata – a N dell’Olympieion, dove convergevano le vie da molti punti della città. Qui doveva essere il Foro, cui affluivano le strade che entravano dalle porte iii, iv, v. Ben conosciute sono le necropoli, di cui una, sita fuori delle mura, sul Poggio della Annunziata, ha reso vasi a figure nere e rosse; altre necropoli ad O del tempio di Vulcano sul colle a S del tempio di Esculapio; si pensa che queste necropoli siano state usate dal sorgere della città sino alla sua prima distruzione: in esse sono misti i riti dell’incinerazione e dell’inumazione, insieme a rare camere sepolcrali e a sarcofagi in pietra ed in legno. Di tutte le opere di pubblica utilità abbiamo notizia da Diodoro (xi, 25) da cui sappiamo che A. era fornita di una rete di acquedotti molto fitta, che distribuiva l’acqua a tutti i quartieri della città e versava il soverchio in una grande piscina (κολυμβήϑρα).
Dopo l’assalto cartaginese (406 a. C.) A. languí per lungo periodo di tempo e gli abitanti passarono a Leontini; un momento di grande risveglio, uguale a quello delle altre città della Sicilia orientale e centro-meridionale, s’inizia con l’epoca di Timoleonte (345-337). Gli abitanti, rifugiati a Leontini o dispersi nelle campagne, rientrano ad A. segnando così un altro periodo di floridezza. Santuari, come quelli di S. Biagio, vengono rifatti quasi completamente, le fortificazioni vengono rimesse in efficenza e s’incrementa la sistemazione urbanistica della città con i suoi quartieri abitati e con gli edifici pubblici intorno all’agora.
Della città romana (A. fu conquistata dai Romani nel 250 a. C.) fonte principale di notizie è per noi Cicerone (Verr., ii, iii,iv); per parte sua, la ricerca archeologica ha potuto accertare che, in tale periodo, l’estensione della città ed il tracciato urbanistico non cambiano: solo le case sono ispirate a motivi di maggiore comodità, costruite più ampie. Al periodo romano risalgono necropoli e tombe monumentali, tra cui il cosiddetto Oratorio di Falaride al centro della città, formato da un podio rettangolare contenente la camera sepolcrale, e, sopra, da un tempietto prostilo tetrastilo destinato al culto del defunto; e la cosiddetta Tomba di Terone simile all’altra, su un podio di colonne ioniche, fuori le mura. Fra i principali monumenti imperiali va citato il sarcofago con il mito di Fedra (v.) di età adrianea-antonina.
Plastica. – Se l’arte di A. ha lasciato nell’architettura un’ eccezionale testimonianza sia per altezza di espressione che per quantità di monumenti, scarsissimi sono i resti di opere plastiche; all’infuori di parti decorative, non abbiamo alcun resto di sculture ed opere a tutto tondo: unica eccezione, e di altissimo valore, è la statua marmorea di un giovinetto ignudo conosciuto sotto il nome di Efebo di Agrigento. Trovata a poca distanza dal tempio di Demetra, l’opera deve ritenersi importata dall’Attica; malgrado la rigidità ancora arcaica del tronco, un leggero movimento delle gambe ed una certa sobrietà nell’indicazione delle masse muscolari richiamano alla mente opere di scuola attica e particolarmente l’Efebo dell’Acropoli attribuito a Kritios e ne fanno datare la creazione tra il 485 ed il 470 circa.
La plastica architettonica ha lasciato resti piuttosto cospicui, ma limitati per la maggior parte alle protomi leonine che decoravano le docce delle gronde dei templi. Le protomi più antiche provengono dal tempio di Demetra e sono datate tra il 480 ed il 470; sono tagliate dure e forti, senza alcun modellato e come tipo (muso in atto di offesa, fauci semiaperte attraverso le quali passava l’acqua, criniera sconvolta ed irta) si richiamano all’arte orientale. Il tempio di Eracle ha lasciato due diverse serie di queste teste leonine fra le quali si può ritenere che passi l’intervallo di un venticinquennio, dopo il quale si riscontrerebbe un’accresciuta padronanza tecnica ed una maggiore morbidezza di modellato. Colossali le protomi leonine dell’Olympieion, databili intorno al 450 a. C.
Negli occhi infossati nell’orbita, nel movimento della massa plastica, nell’atteggiamento come ammansito delle protomi leonine del tempio di Esculapio, troviamo la pateticità propria del IV sec. a. C. In quelle di altri edifici si nota un modellato più molle e più raffinato: per cui nella serie delle protomi leonine di A. possiamo pensare a due correnti d’influenza: una, la più importante e maestosa, che si riallaccia alle sculture peloponnesiache e di cui moltissimi esemplari sono in Sicilia; l’altra, più raffinata, e di mole minore, che è di pretta influenza ionica. L’opera plastica più importante di A. è costituita dai telamoni del tempio di Zeus Olimpio: data la loro funzione strutturale sopra descritta, essi non possono offrire un modellato accurato e minuto e vanno pertanto apprezzati essenzialmente come elementi architettonici del tempio; tuttavia ha un interesse più propriamente scultoreo il modo in cui l’immensa superficie del corpo è divisa in poche linee principali che mettono in evidenza le masse muscolari più importanti. Data la loro mole, essi furono lavorati separatamente pezzo per pezzo, per cui si nota un certo squilibrio tra alcune parti. Alcuni caratteri stilistici fanno pensare al pieno VI sec. ed alla scuola peloponnesiaca, altri appaiono già sotto l’influenza dell’arcaismo maturo. L’impressione che deriva dalla visione di questi colossi è quella della solidità e dell’essenzialità doriche, un senso di corporeità e di forza derivanti da una misurata e necessaria robustezza di struttura. Anche i volti con tratti ora più, ora meno arcaici, pur denunciando influenze diverse il cui riscontro più diretto è con le sculture dei templi di Selinunte e con quelle attribuite alla scuola di Egina, denunciano il dorismo fondamentale della visione. Sono stati trovati resti di altre sculture, tra cui gli scarsissimi frammenti della Gigantomachia e dell’Iliupersis che, come attesta Diodoro, ornavano i frontoni del tempio.
Gli ultimi scavi, oltre alla ricca messe di statuette fittili di produzione locale, hanno restituito anche qualche esemplare della grande coroplastica, come è, per esempio, la testa di koùros, databile intorno al 520 a. C., prezioso documento dell’arte siceliota, oppure la testa di Atena, altro documento dell’originalità della plastica agrigentina.
Maschere femminili d’argilla sono state trovate in tutto il territorio agrigentino, ma specialmente presso gli altari arcaici ed il tempio delle divinità ctonie: data la canonicità della rappresentazione (“sorriso arcaico”, bocca ferma e dritta, capo rigido) l’analisi stilistica non fornisce chiari elementi di cronologia; evidentissima è l’affinità di queste maschere con quelle rodiote, sì da farci pensare che questo tipo, formatosi a Rodi, sia pervenuto ad A. con i coloni che fondarono la città e la sua madrepatria, Gela. Numerosa pure la serie di statuette femminili del VI sec., delle quali le più arcaiche denunciano influssi cretesi e peloponnesiaci, che però vanno addolcendosi sotto l’influsso ionico: esse rappresentano donne sedute o stanti, con il corpo rigido coperto di chitone aderente, con molte file di pendagli sul petto. Meno originale il gruppo di testine del V sec., che ripete schemi precedenti; dal IV sec. in poi l’originalità è sempre più scarsa; si notano influssi delle scuole di Prassitele e di Skopas.
Dal santuario delle divinità ctonie provengono grandi busti (cinque dei quali al museo di Siracusa, quattro al museo di Palermo), che risalgono al 470-65: in essi il busto, per motivi tradizionali, è privo di modellato, il capo è coperto dalkàlathos. Sono certamente ricavati da stampi, poiché sono spesso identici tra loro, tuttavia documentano una certa ricerca stilistica e in quelli a Siracusa si è riconosciuta una corrente di atticismo e precisamente il ricbrdo di rappresentazioni di divinità ctonie opera di Agorakritos, scultore della scuola di Fidia. Poche le statuette virili.
I rilievi fittili sono la manifestazione più genuina della plastica agrigentina ed appaiono sui labbri di grandipiatti, dipìthoi, mense, pìnakes, antefisse, ecc. e rappresentano scene diverse, come lotte di animali, cacce, corse di quadrighe, danze orgiastiche. Su due pìnakes è la figurazione, molto pesante e geometrizzata, della medusa alata; un altro pìnaxha la figurazione di Eracle ed Euristeo che per certi particolari ricorda il Perseo delle metope di Selinunte.
Uno sguardo di insieme a tutta la plastica agrigentina ci fa vedere sempre, accanto ad accenti locali, le derivazioni esterne: il che è dovuto alla tarda età della fondazione della città, quando la visione del mondo ellenico era ormai già delineata. Le tendenze prevalentemente accolte sono del repertorio ionico, mediato dai Rodioti, alle quali si affianca una tendenza più rozza ed elementare, ma costruttiva ed ordinatrice: la tendenza dorica.
Ceramica. – I vasi trovati nelle necropoli sono moltissimi: dai protocorinzi a quelli ellenistici dell’Italia meridionale: i vasi a figure nere e a figure rosse sono provenienti dall’Attica. Elemento prettamente ionico, frequente a Rodi, è dato dai vasi a figurine femminili ed a forma di animali di cui vari esemplari sono stati trovati ad Agrigento. La ceramica locale è documentata nella necropoli arcaica del VII sec.: trattasi di vasi cinerari di grande dimensione, a forma di anfora con due manici e a collo largo, ventre ingubbiato in giallo e decorazioni geometriche in color bruno; di vasetti a forma di bicchiere conico o di tazza su largo piede, rinvenuti nello strato superiore del santuario delle divinità ctonie (IV sec.). I motivi della decorazione vegetale stilizzata risentono echi della necropoli di Shatbi, in Egitto.
Monete. – La città adottò il sistema monetale attico e le monete di A. apparvero negli ultimi decenni del VI sec. I simboli che vi troviamo sono l’aquila (simbolo di Zeus) ed il granchio (allusione all’acqua); pur mutando nella figurazione, questi simboli dominano incontrastati nelle monetazioni posteriori. Tra le monete rare in Sicilia, A. coniò il decadracma, con una locusta e due aquile che artigliano un leprotto.
fonte:Treccani
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