Bisogna andare in Sicilia per constatare quanto è incredibile l’Italia. Questa frase è di Leonardo Sciascia: la pronuncia il capitano dei carabinieri ne "Il giorno della civetta" dopo essere ritornato a Parma da quella terra.
Naturalmente “incredibile” non è il Belpaese ma il fatto che l’Italia abbia tra le sue regioni la Sicilia. Infatti la gente sbaglia a ritenere che essa sia una delle regioni d’Italia. L’isola più grande del Mediterraneo non è una regione, ma il centro del mondo. «Me la chiami rreggione la Sicilia, me la chiami? Non è mmanco un’isola. La Sicilia è un continente» mi disse iperbolicamente una volta un siciliano. Regione, continente o universo, certo è che l’isola è un groviglio di paradossi.
La Sicilia deve essere pensata con categorie doppie o triple, con qualche modello interpretativo ma anche con il suo duale.
Prima di prendere contatto con l’isola bisognerebbe considerare il nastro di Möbius, superficie nella quale esiste un solo lato, non due, e «dopo aver percorso un giro, ci si trova dalla parte opposta, ma dopo averne percorsi due ci si ritrova al punto di partenza»; considerare anche il moto perpetuo e le cascate di Escher; le geometrie non euclidee; il principio ologrammatico. In Sicilia deve essere facile pensare la luce avente natura contemporaneamente ondulatoria e corpuscolare, naturale concepire “uno, nessuno e centomila”, e forse anche comprendere l’uno e trino.
Nino Taormina, emulo forse dei cuntastorie Busacca, Trinchera, Buttitta, ha scritto: «Cu dici ca Sicilia è mafia e suli / s’havi scurdatu di lu granni onuri / di quanti sunnu ccà morti ammazzati / ma ancora vivi e sempri ringraziati». Ecco il paradosso: la Sicilia è la terra di Riina e Badalamenti, ma anche di Falcone, Borsellino, Impastato, Puglisi, Caponnetto e Cassarà. La Sicilia è la terra del “blocco sociale” di cui parla Umberto Santino del “Centro Impastato”, che condiziona anche la storia d’Italia. Ma pure il “Centro Impastato” e “l’opera antiusura” della diocesi di Palermo, a ben guardare, sono Sicilia.
La Sicilia è una regione d’Italia ma è anche il centro del mondo. È stata il centro del mondo antico, posta com’è nel cuore del Mediterraneo. È stata però anche terra di frontiera, per esempio sotto gli arabi. Per i romani era la prima provincia, un territorio altro rispetto all’Italia. La Sicilia è un’isola che troneggia in mezzo al mare, ma anche un sistema con tanti arcipelaghi: come un sole con numerosi pianeti che gli ruotano intorno; è la regione più grande del paese, più grande della Lombardia, del Piemonte. Visitando l’isola può capitare di chiedersi: se la minuscola Malta è uno stato con Gozo, perché la Sicilia immensa non potrebbe esserlo? In effetti, la Sicilia fu un regno, anzi, con Federico II, nel XIII secolo, fu centro dell’impero. Ma anche per Bisanzio era baricentro del mondo, se Costante II, nel VII secolo, pensò di trasferire la capitale da Costantinopoli a Siracusa.
La Sicilia, come leggiamo nel grande dizionario enciclopedico Utet, nel corso dei secoli, oltre che centro del mondo e “marca” di frontiera, fu anche periferia, per esempio durante il basso medioevo.
Oggi la Sicilia è una regione autonoma a statuto molto speciale: praticamente ha un parlamento, e il presidente della regione partecipa con diritto di voto al consiglio dei ministri del paese, per le questioni che riguardano l’isola: niente male per una regione: ma, l’abbiamo detto, si tratta di un universo. Se un giorno dovesse nascere l’Unione del Mediterraneo, tanto cara a Nicolas Sarkozy, le sue istituzioni dovrebbero essere collocate in Sicilia, come del resto, qualcuno ha già proposto.
Guardate le città della Sicilia. Palermo ha circa settecentomila abitanti ed è la quinta d’Italia, dopo Roma, Milano, Torino e Napoli. Catania, Messina, Siracusa ed Agrigento sono tutte città importanti. Ma anche le cittadine e i paesi hanno nomi molto evocativi, al punto che difficilmente si sbaglia nel collocarli nell’isola: Mazara del Vallo, Noto, Corleone, Canicattì, Bagheria, Marsala, Milazzo, Nicosia, Comiso, Portella della Ginestra, Caltabellotta, Tindari, Carini, Aci Trezza.
Guardate la letteratura. Nessuna regione ha dato i natali a tanti letterati, scrittori, poeti, filosofi, scienziati di levatura mondiale come la Sicilia: Verga, Pirandello, Quasimodo, Borgese, Tomasi di Lampedusa, Bellini, Sciascia, Gentile, Guttuso, D’Arrigo, Bufalino, Cattafi, Consolo, Brancati, Buttitta, Capuana, Ripellino, Vittorini, Majorana, Tornatore, Battiato, Cuticchio. E non si tratta di personalità per lo più concentrate nella capitale, nient’affatto: in Sicilia la semenza del genio l’ha distribuita in ogni contrada il vento.
In questa terra il genio del mondo greco, di un Empedocle, di uno Stesicoro, di un Archimede, fecondato da quello saraceno, di un Ibn Hamdis, di un Al Idrisi, e anche di tutti quei matematici e astronomi arabi che siciliani non furono, ma che dovettero essere conosciuti in Sicilia, arricchito con il contributo dei geni degli impavidi normanni, a un dato momento ha cominciato a produrre frutti copiosi. Dalla scuola poetica siciliana, fiorita sotto Federico II, di cui ricordiamo Cielo D’Alcamo, Jacopo da Lentini e lo stesso Federico, ai giorni nostri, l’isola ha preso a pullulare in ogni angolo, non solo a Messina, Catania, Palermo e Agrigento, di uomini di grandissimo valore, spesso senza eguali al mondo: Sciascia è di Racalmuto, Borgese è di Polizzi Generosa, Guttuso è di Bagheria, don Sturzo di Caltagirone, Bufalino è di Comiso, Quasimodo di Modica, Rosso di San Secondo di Caltanissetta, D’Arrigo di Alì Terme, Brancati di Pachino, Camilleri di Porto Empedocle.
Spiega Giuseppe Bonaviri, medico e scrittore: «Come altre volte ho detto, Mineo, il mio paese, in provincia di Catania, ha sempre favorito la nascita di poeti e pensatori tra contadini e artigiani: per tradizione, per clima, aure, venti, fasce elettromagnetiche terrestri, lunari, solari, metabolizzati per fantasiose spirali di acidi desossiribonucleici…».
Stefano Lanuzza, nel suo Insulari. Romanzo della letteratura siciliana, ci offre un compendio efficace dell’universo letterario vasto e sconfinato della Sicilia. L’autore, dopo aver passato in rassegna narratori e poeti piccoli e grandi, noti e meno noti, chiude il libro con un «paradossale, temerario censimento…» di autori siciliani i quali, pur non essendo famosi, hanno pubblicato qualche opera tra la fine del secondo e l’inizio del terzo millennio: si tratta di un elenco che occupa sei pagine fitte fitte dell’opera. Sarà vero che oggi «più della metà degli scrittori italiani sono siciliani?». Il libro di Lanuzza è una tessera preziosa del mosaico della sicilitudine, degna di stare accanto a La corda pazza e ad Alfabeto pirandelliano di Sciascia. Ma le corde dei siciliani di cui parla Pirandello (la seria, la civile e la pazza), capaci di sprigionare una potenza creatrice straordinaria, non si limitano a produrre opere letterarie: quando vibrano producono anche scienza o congegni che sono il frutto di intrecci, tra lettere e scienze, raffinatissimi.
Crediamo che non sia un caso che il principe Salina, protagonista del romanzo di Tomasi di Lampedusa, si diletti di astronomia. Dal tempo di Archimede gli scienziati siciliani non sono pochi, come Zichichi, fondatore del centro di cultura scientifica di Erice. Ma quello che li supera tutti di molte spanne, non solo i siciliani, è Ettore Majorana, scomparso all’età di 31 anni misteriosamente. Sciascia ha scritto: «Fermi e “i ragazzi” [di via Panisperna] cercavano, mentre lui semplicemente trovava. Per quelli la scienza era un fatto di volontà, per lui di natura. Quelli l’amavano e volevano raggiungerla e possederla; Majorana, forse senza amarla, “la portava”». Majorana ha qualcosa in comune con Ramanujan, geniale matematico indiano privo di una formazione ordinata che, ai primi del Novecento, ha lavorato con grande profitto in Inghilterra con Hardy, un altro genio della matematica, ed è morto a 33 anni. Per questi uomini la scienza non è un cercare con metodo e razionalità, né un costruire una posizione di potere: è un fatto esistenziale, ontologico, metafisico, mistico.
In Sicilia la scienza non è confinata nei laboratori dei fisici, dei matematici, degli astronomi. In quella terra anche la letteratura impasta sfera razionale e sfera emozionale: il bello, il vero e il buono: dimensione estetica, epistemologica, etica: fides et ratio. Questo impasto troviamo in Pirandello, si pensi soltanto a Il piacere dell’onestà, tutto giocato sul filo della logica. L’opera di Pirandello appare come una gigantesca costruzione simile a una geometria non euclidea, in cui non è abolito affatto il raziocinio (Pirandello stesso ha detto che la sua opera sta tutta nell’atto di riflettere sul vivere; riflettere, serrato ragionare, appunto, sullo scarto inevitabile tra la vita vissuta e le diverse idee personali o sociali che si hanno della vita): anzi proprio confermando tutto, postulati, rigore logico e metodi, e cambiando solo il quinto postulato di Euclide, si ottiene la geometria non euclidea di Riemann o di Lobačevskij. Un intreccio simile di logica e di estetica troviamo in Borgese, per esempio, nella struttura estremamente ragionata del suo Rubè.
Il maestro siciliano dell’impasto di scienza, raziocinio, filologia e letteratura è però Leonardo Sciascia. I suoi romanzi migliori hanno al centro un investigatore-professore o un professore-investigatore. Ne Il giorno della civetta, per esempio, il capitano dei carabinieri che conduce le indagini è un uomo che ha il gusto della filologia; in Todo modo c’è un professore-pittore che orienta le indagini del suo amico, investigatore di professione; in A ciascuno il suo il professore-investigatore, che segue una pista tutta linguistica, ci lascia le penne e viene qualificato come “cretino” dai notabili del paese; in Una storia semplice il caso si risolve grazie all’indizio fornito al brigadiere subalterno, che ha il gusto di usare il raziocinio, da un “punto fermo” posto alla fine della breve frase “Ho trovato” (che è poi l’eureka di Archimede), ma che la vittima non avrebbe potuto apporre.
Stefano D’Arrigo è invece il siciliano che ha celebrato nella sua opera il trionfo del linguaggio. Egli ha scritto un grande romanzo o poema di circa 1200 pagine, Horcynus orca, la cui stesura ha richiesto più di venti anni. Il congegno narrativo di D’Arrigo è straordinario perché basato su una lingua prodotta ad hoc e mai più impiegata: si tratta di uno strumento espressivo costruito a partire dal siciliano antico, tenendo d’occhio l’italiano e aggiungendo all’occorrenza lemmi e stilemi coerenti con le regole di produzione delle lingue di base utilizzate, ma interamente inventati. Si tratta di una lingua artificiale, imparentata con le lingue neolatine, costruita come i linguaggi artificiali per computer, spesso pensati dagli ingegneri informatici per un certo scopo e non per un uso veramente generale. Forse i siciliani hanno intuito meglio di chiunque altro che l’uomo è parola, linguaggio, testo e che la vita dovrebbe essere analizzata con i metodi della filologia e dell’ermeneutica.
La Sicilia vi sorprende sempre. Visitatela in primavera e non crederete ai vostri occhi, tanto è verde e colorata di ginestre, papaveri e oleandri. Visitatela in estate, inoltrandovi nell’entroterra, verso Enna e Caltanissetta, e non crederete ai vostri occhi, tanto è brulla e arsa (arata, appare scura e fertile). Ma se tornate indietro, e percorrete la litoranea da Catania a Messina, crederete di essere in un’altra regione, per via di quei rilievi montuosi nient’affatto nudi o brulli che precipitano ex abrupto nel mare. Da queste parti il viaggiatore resterà stupito non solo per la maestà del Mongibello, con i suoi circa 3340 metri, ma anche dalle gole dell’Alcantara scavate nella nera lava dalle acque. La Sicilia però, anche dove appare brulla e arsa, non è del tutto secca. Il prezioso liquido, dicono gli esperti, scorre sotto terra, nei meandri carsici. Forse nello stesso modo scorre per i siciliani il senso del vivere e del morire: in misteriosi recessi inaccessibili. Scrive Sciascia sul tema Sicilia e sicilitudine: «Alla base di tutto c’è, ovviamente, il fatto geografico: la Sicilia è un’isola al centro del Mediterraneo; ma alla sua importanza in un sistema, per così dire, strategico, cioè come chiave di volta che ha assicurato potenza e dominio ai popoli conquistatori, paradossalmente ha corrisposto una vulnerabilità di difesa, una insicurezza che, accompagnandosi alla tendenza a separarsi dal sistema di potenza da cui è stata di volta in volta conquistata, l’ha resa aperta e disponibile a ogni azione militare e politica». Agli stessi fatti geografici in definitiva gli studiosi fanno risalire la capacità creatrice senza eguali dei siciliani (i dati storici e culturali discenderebbero da quelli geografici): l’isolamento, data la porosità dei confini, lungi dall’emarginare, aprirebbe gli spiriti migliori al mondo intero, alle istanze universali.
Sempre a causa dei fatti geografici di cui parla Sciascia, la Sicilia è un luogo aperto, d’incontro dei tipi umani più disparati. Ho visto siciliani a Caltanissetta che sembravano paracadutati freschi freschi da certi angoli di Francia, Belgio o Paesi Bassi: capelli rossi e lisci, occhi chiari, pelle color del latte, cosparsa di lentiggini: erano normanni. Nello stesso luogo ho visto siciliani alti, magri, capelli ricci e scuri come il corvo, pelle bruna, e sul viso tanti nei: si trattava evidentemente di saraceni. Saraceni e normanni hanno dato il volto alla gente e ai luoghi di Sicilia. Basta guardare i toponimi, l’urbanistica dei centri storici, gli edifici militari e religiosi, le colture, l’abitudine di prendere la granita o il sorbetto al limone a colazione, per rendersene conto.
Il viaggiatore che visita la Sicilia potrebbe chiedersi comunque in quale misura taluni paradossi del carattere dei siciliani siano da porre in relazione con le principali etnie che soprattutto durante il medioevo si sono incontrate e mescolate nell’isola. I normanni, per esempio, erano prodi cavalieri e banditi. Pare che Roberto il Guiscardo arrivasse in Italia con cinque compagni e che, giunto nella penisola, si sia messo alla testa di una banda di predoni. Un’altra banda di normanni si sarebbe guadagnata il pane offrendo la propria protezione dagli altri banditi, ai pellegrini diretti al santuario di San Michele, sul Gargano. Probabilmente si trattava di una forma di racket; insomma, non avendo di meglio, tiravano a campare imponendo il pizzo. Anna Comnena, storica bizantina, scrive del Guiscardo: «Codesto Roberto era discendente dei Normanni, di stirpe minore, di temperamento tirannico, astuto di pensiero e coraggioso nell’azione, estremamente ingegnoso nel pianificare attacchi alle ricchezze di facoltosi possidenti e ancor più ostinato nel metterli in pratica, poiché egli non tollerava alcun ostacolo alla realizzazione dei propri disegni. Era di statura notevole, tale da superare anche i più alti fra gli individui, aveva una carnagione rubiconda, capelli di un biondo chiaro, spalle larghe, occhi come scintille di fuoco, e nel complesso era di bell’aspetto. Si racconta che il grido di quest’uomo avesse messo in fuga intere moltitudini. Siffattamente dotato dalla fortuna, dal fisico e dal carattere, egli era per natura indomabile, mai subordinato ad alcuno».
I normanni combattevano usualmente come mercenari al servizio dei longobardi o dei bizantini, ma a quanto pare non disdegnavano affatto di compiere imprese criminose. Erano coraggiosi, astuti, spregiudicati e senza scrupoli e, non avendo nulla da perdere, si trovavano nelle condizioni ideali per rischiare tutto nella speranza di guadagnare terre, ricchezza e gloria; e ci riuscirono. Pare che fossero estremamente abili nel tenere i longobardi della Campania sulla corda, in condizione di dipendenza, aiutandoli quando occorreva ma senza impegnarsi a fondo per risolvere le diatribe che scoppiavano tra duchi e conti. Essi con i longobardi si imparentarono, sposando le loro donne. Roberto il Guiscardo ripudiò la prima moglie per sposare Sichelgaita, figlia di Guaimario IV, principe di Salerno. A nulla valse l’opposizione del fratello di Sichelgaita, Gisulfo II, il quale forse intuiva quale piega avrebbero preso i futuri eventi. Il fratello del Guiscardo, Drogone, aveva già sposato Gaitelgrima, altra figlia dello stesso principe. Quando Roberto inizierà la conquista della Calabria, allora in mano bizantina, voleva forse solo fare bottino, razziando e distruggendo. Egli aveva combattuto come mercenario a fianco dei bizantini anche in Sicilia e conosceva i loro metodi e le risorse del territorio. Il pretesto che darà il via nel 1061 alla guerra che porterà i fratelli Roberto e Ruggero d’Altavilla a strappare la Sicilia ai musulmani è l’invito rivolto loro da un signore arabo per un contrasto sorto col califfo di un’altra città dell’isola. Come dicono saggiamente i calabresi: «China int¥ra ti puorti fora ti caccia». In verità l’ambizione dei due era smisurata, tanto che esisteva già un accordo con il papa in tal senso, e, del resto, Mileto, in Calabria, stava stretta a Ruggero: solo così poté diventare Gran Conte di Sicilia. In definitiva, le modalità con cui nell’827 gli arabi sbarcarono a Mazara, e quelle con cui i normanni approdarono a Messina nel 1061, sono quasi identiche (Sciascia addirittura accosta lo sbarco degli arabi a Mazara allo sbarco degli alleati durante la Seconda guerra mondiale). Il regno dei normanni, come accade spesso nella fondazione dei regni, nacque con qualche peccatuccio d’origine. Più tardi essi ricattarono due papi, facendoli prigionieri. Nel frattempo si allearono con un antipapa, Anacleto II, il che fece dire a Bernardo di Chiaravalle, suo avversario, che i normanni erano pagani. Tuttavia costoro, anche grazie a una potente flotta, riuscirono a scacciare dall’Italia meridionale i bizantini dell’impero d’Oriente, i longobardi che li avevano sfamati e, più tardi, gli arabi dalla Sicilia. Essi costruirono un regno potente che ha sfidato gli imperi; si imparentarono con i regnanti d’Inghilterra e d’Ungheria, e, da ultimo, attraverso un ramo quasi secco della famiglia, con gli imperatori. Ciò accadde quando Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero II, sposò il ventiseienne Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, determinando la fine del regno costato sudore e sangue. Si tratta di una storia di coraggio, di genio militare, di abilità diplomatica, di forza e d’inganni; di sangue, di intrighi, di ambizione, di guerre di religione, di discordie, divisioni, scomuniche, scismi; talvolta di saggezza, di grazia e di splendore: quello della corte di Palermo, della Cappella Palatina, di Monreale, del parco del Genoardo e del palazzo della Zisa, con i suoi geniali sistemi di condizionamento del clima inventati dagli arabi.
Forse quel Mongibello-Etna che erutta fuoco, che scorre come fiume incandescente, splendido e tremendo ad un tempo, che minaccia e travolge gli abitati, è la migliore immagine della Sicilia, più del sole, più del mare. L’Etna che erutta può essere pure la sintesi del carattere dei siciliani: fuoco, lava, cenere, lapilli: passione, genio, fecondità, vita e morte (abbiamo detto “immagine” e “sintesi” non “causa” del carattere dei siciliani, come qualcuno ha ipotizzato – l’idea che il carattere dei siciliani possa dipendere dalla presenza del grande vulcano è menzionata e confutata da Leopoldo Franchetti in Condizioni politiche e amministrative della Sicilia).
La Sicilia è l’universo dei paradossi. Ne Il giorno della civetta, di Leonardo Sciascia c’è un capitano di Parma che, chiamato a operare in Sicilia, rinuncia a trarre le conseguenze delle sue meticolose indagini. In Una storia semplice, dello stesso autore, c’è un personaggio del Nord, un rappresentante di commercio con una Volvo, che rimane sconcertato dall’amministrazione della giustizia nell’isola. Scrive Franchetti: «La violenza va esercitandosi apertamente, tranquillamente, regolarmente; è nell’andamento normale delle cose»; e più avanti: «Qui l’amministrazione governativa è come accampata in mezzo a una società che ha tutti i suoi ordinamenti fondati sulla presunzione che non esista autorità pubblica». D’altra parte la Sicilia è terra di geni indiscussi. L’opera di un Pirandello, come ha sostenuto energicamente Sciascia, non si spiegherebbe senza il riferimento all’universo linguistico, culturale e umano della sua terra. Vincenzo Consolo ne L’olivo e l’olivastro ci fornisce una sintesi efficace della realtà della Sicilia stratificata e multipla, mediante una lingua ruvida, piena d’increspature come il mare quando è sollecitato da venti contrastanti e forma brevi corrugazioni che si spezzano in scaglie spumose. Egli scrive: «E vide un giorno distruggere la casa dov’era cresciuto con i fratelli numerosi, sradicare gli alberi in giardino, abbattere i muri dai bulldozer, spazzare dalle ruspe pietre calcinacci tegole porte persiane. Vide nel luogo dov’era la sua casa sorgere un palazzo di banche, uffici, studi di dentisti, di notai, intorno intorno fitto altri palazzi che hanno cancellato ogni sènia, giardino, chiuso la vista della spiaggia, del mare, delle Eolie all’orizzonte. In una Finisterre, alla periferia e confluenza di province, in un luogo dove i segni della storia – chiese bizantine, conventi basiliani, romitori arroccati su picchi inaccessibili – s’erano fatti labili, sfuggenti, dove la natura placata – immemore qui dei ricorrenti terremoti dello Stretto, immemore delle eruzioni del vulcano – s’era fatta benigna – nelle piane, nelle valli, sopra i monti erano agrumeti oliveti noccioleti, erano boschi di querce elci cerri faggi –, in un paese ai piedi dei Nèbrodi, in vista delle Eolie vaganti e trasparenti era nato e cresciuto. In tanta quiete, in tanto idillio, o nel rovesciamento d’essi, ritrazione, malinconia, nella misura parca dei rapporti, nei sommessi accenti di parole, gesti – erano qui pescatori d’alici e sarde assolti da condanne del fato, alieni da disastrosi negozi di lupini (narrava la favola, il Vangelo ricreato, che la secca pianta, sonante, rivelò ai soldati il nascondiglio della famiglia in fuga nell’Egitto: Maria la maledisse); erano contadini, proprietari minimi, ortolani, innestatori e potatori, erano carrettieri e carretti disadorni, monocromi, gialli o verdi–, in tanta sospensione di natura, storia, il rischio era di scivolare nel sonno, perdersi, perdere il desiderio e il bisogno di cercare le tracce intorno più significanti per capire l’approdo casuale, il limbo in cui si trovava».
La Sicilia è paradossale, bella e crudele. Considerate i casi di bambini disciolti negli acidi. Considerate il caso della facoltà di farmacia dell’università di Catania, ricostruito attraverso i diari del povero ricercatore Emanuele Patanè, che ha lasciato la pelle nel laboratorio di ricerca, da lui ribattezzato “laboratorio della morte”. Si tratta di una storia che fa accapponare la pelle: nel laboratorio si maneggiavano sostanze tossiche senza le misure di sicurezza necessarie. I superiori, i baroni professoroni ordinari, minimizzavano, ma sapevano benissimo quali gravi rischi quotidianamente correvano i ricercatori, gli studenti e i professori. Infatti periodicamente qualcuno si ammalava di tumore o di leucemia e ne moriva: loro avevano trovato un modo, criminale ma efficacissimo, per eliminare scomodi concorrenti. I generali, in tempo di guerra, fanno lo stesso: mandano i loro collaboratori scomodi là dove più infuria la battaglia. Lo ha fatto perfino Davide con Uria, sposo della bella Betzabea. Evidentemente per taluni uomini la vita, tutti i giorni, è guerra. Una guerra troppo impari, perché la maggioranza silenziosa e innocente, contro la quale questa mostruosa guerra viene combattuta, è ignara e disarmata. Fuoco, lava, cenere, lapilli: passione, genio, fecondità, vita e morte è la Sicilia.
(di Tommaso Cariati)
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