Intendo precisare che quanto scrivo od abbia scritto sull'argomento non ha la pretesa del rigore scientifico. Non sono uno storiografo, né un certosino osservatore del passato, ma semplicemente uno che curiosando su storie e cose espone aiutandosi con la fantasia una realtà che potrebbe non essere quindi completamente veritiera, ma in ogni caso ad essa paragonabile.
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Quando ho chiesto a Pippo Nasca di scrivere delle curiosità sulla nostra Lingua siciliana e sulla Storia della nostra Terra da inserire in una pagina del mio sito web, non se l’è fatto ripetere due volte ed ecco che sono venuti fuori, come per magia, personaggi di un’epoca passata, modi di dire, origini di termini ormai in disuso, riferimenti mitologici, pagani, legati a Santi, espressioni relative a vari comportamenti, curiosità linguistiche e molto altro.
La pagina è stata arricchita, in men che non si dica, da pennellate di aneddoti, considerazioni personali, e notizie storiche.
Anche se asserisce di non essere uno storiografo, Pippo Nasca è sicuramente un certosino osservatore del passato. Le sue curiosità sono dettate dalle conoscenze che traggono origine dalla sua cultura classica, dalla passione per la sua Terra, dal suo modo di vedere le cose, che espone con eleganza e sobrietà, talvolta dettate anche dalla fantasia, una fantasia talmente veritiera che rasenta la realtà stessa.
Una esplosione di fantasia dunque, tra storia e genio, una magnifica illustrazione di nozioni, concetti, avvenimenti, una superba interpretazione della realtà, ora dura e mutevole, ora fantastica e aleatoria, un susseguirsi di sentieri sconosciuti che ci attraggono con tutta la forza della sua sconvolgente originalità.
Dove finisce la storia e inizia la fantasia? Non lo sappiamo. Sappiamo solo che le sue “curiosità” hanno qualcosa di magico che solo la sua penna riesce ad interpretare e a delineare.
Una fonte fluida e godibilissima che ha il privilegio di illustrare curiosità affascinanti che, per noi catanesi e siciliani in genere, costituiscono conoscenze indispensabili per comprendere il passato e il presente di una città e di una Terra che, martoriate da vicende e contrasti, hanno legato il loro destino ai loro figli che hanno sempre scavato tra le macerie, penetrando nel tessuto più profondo per ricavarne l’essenza per una continua rinascita.
“Da noi le pietre parlano” dice Pippo, ma chi riesce a percepire ciò che trasmettono le pietre è solo colui che le ama intensamente, come intensamente ama tutta la sua Terra!!!
(Grazie Pippo per il dono che mi hai fatto!)
Pina Licciardello
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PREMESSA
PREMESSA
Secondo il mio punto di vista il linguaggio umano è in continua evoluzione, alla stessa maniera come è in continua evoluzione il pensiero umano ed in particolare lo stesso sentimento religioso. Anzi possiamo senz'altro dire che l'evoluzione del pensiero umano si ripercuote senza alcun dubbio sul loro linguaggio provocando un'osmosi continua e costante tra le diverse etnie che vengono a contatto. Quando questo reciproco travaso arriverà alla saturazione, si dovrebbe arrivare ad un linguaggio unico tra gli umani. Ma questo non avviene totalmente, perché il pensiero con il progredire della tecnologia e l'acquisizione di nuove scoperte varia indissolubilmente e con una velocità strabiliante. Se si pensa alla nostra epoca, in cui un certo travaso di termini della cultura tradizionale ha fatto pensare che nell'anno 2050 o giù di lì, si sarebbe ad esempio raggiunto l'osmosi completa tra l'italiano ed i vari dialetti della penisola con il raggiungimento di un unico linguaggio omnicomprensibile, non ha calcolato l'introduzione dei nuovi termini imposti dall'elettronica applicata ed allo sviluppo dei PC. In ogni caso bisogna però ammettere che sia i dialetti, che le varie lingue sono in continuo ... contagio. Ecco perché il nostro dialetto siciliano non è quello di una volta, poiché ospita facendoli propri, termini prettamente italiani e di altre lingue. Non solo non può parlarsi di un dialetto siciliano unico, poiché esso varia al variare delle località. Sicché il palermitano ha delle cadenze diverse dal catanese ed il nisseno pure. Non parliamo del dialetto siculo-gallico di Piazza Armerina o di Caltagirone. Qualche linguista (ad esempio il Pitré) ha cercato di stabilire delle regole fisse del parlare siciliano, ma con scarsi risultati. Né c'è da meravigliarsi, poiché le stesse cose avvengono con i dialetti delle altre lingue.
Il primo diretto erede del latino è il dialetto; successivamente è nata la lingua, che altro non è se non un dialetto ... evoluto. Per restare nell'ambito italiano, il primo dialetto assurto all'onore di lingua ufficiale è quello siciliano, nato a Palermo per l'opera di Federico II, oriundo tedesco, ma siciliano per nascita ed educazione. Oggi forse parleremmo come Jacopone da Todi e lo stesso Federico II, se non fosse sopravvenuto il movimento di pensiero del Dolce Stil Novo, che impose all'Italia tutta il dialetto toscano, divenuto lingua ufficiale italiana. Tale movimento letterario fu importantissimo, poiché produsse quei grossi colossi letterari che furono Guinizzelli, Dante, Petrarca e Boccaccio, i quali costituirono le vere colonne della lingua italiana.
ALCUNE CURIOSITA’ LINGUISTICHE SICILIANE
Io ricordo ancora mia nonna che diceva: sta casa è nu zimmu! Questo termine corrisponde al tedesco "zimmer", ovvero stanza, abitazione.
Adesso ne aggiungo un altro che quando l'ho ascoltato sono rimasto di stucco. Avevo un collega che era di Canicattì ed un giorno, parlando del più e del meno mi rispose di rimando: "jù midemma!"- Lo guardai, ma capii che mi diceva semplicemente: "io pure", poiché quel midemma stava per il latino "idem" ( lo stesso) Chi si ricorda di " idem eadem idem", che si declinava regolarmente come il nome a cui era riferito?
Un'altra curiosità linguistica siciliana che mi viene in mente è il prosaico "scopare" utilizzato anche in italiano per indicare determinati rapporti sessuali. Ebbene, mi sono sempre chiesto che c'entrasse la scopa. Alla fine, ho scoperto che il termine esatto utilizzato in prima istanza era "scoppare" successivamente declassato a "scopare" per attutirne forse l'immagine un poco volgare. In effetti il termine sopra detto deriva dall'inglese "scoop", che oggi è diventato quasi un termine italiano per indicare un fatto sensazionale. Se andate a Lentini questo termine scoppare lo sentirete pronunziare con altre finalità Provate a chiedere ad un lentinese se la strada che porta alla stazione va verso la matrice. Vi risponderà a tono: nonsi, sta sbagghiannu, sta strata scoppa a stazioni; di l'autru latu scoppa invece a Sant'Affiu.
Adesso parliamo un po' di termini dialettali siciliani particolari. In una delle mie poesie dialettali alla dea Ciprigna, ossia Venere o Afrodite che chiamar si voglia, metto in bocca una frase : " A matula lu figghiu me' Cupidu ..." Ecco , dico questo per evidenziare la parola a matula. Che significa questo termine? Da dove deriva? Ebbene quel matula è la deformazione della parola latina "mentula", che stava ad indicare l'organo di riproduzione maschile Quindi, dire a matula significa dire a ... (omissis) per significare che si dicono parole vane, proprio perché vano e momentaneo è un certo stato di tale organo.
Sempre per restare in questo ambito... sessuale, esaminiamo la parola ormai diventata internazionale ed inserita anche nel vocabolario italiano, che costituiva un intercalare degli uomini, ma adesso anche delle donne che ostentano tale parola per mostrarsi ... evolute! Mi riferisco alla classica parola "minchia". Ebbene questa parola altro non è che la derivazione del verbo latino "mingere", che in termini prosaici significa spremere, orinare, mungere.
Passiamo ad un altro termine che viene molto spesso utilizzato nella nostra Catania. Ecco una frase: jù fazzu 'nsoccu mi piaci fari". Evidenzio la parola 'nsoccu. Ebbene siamo in presenza di una derivazione puramente latina. il termine originariamente può essere scritto un ‘ssu hoccu, dove ‘ssu sta per stesso ed hoccu per questo. Chi si ricorda del latino hic, haec, hoc, che al genitivo faceva huius, huius, huius? Esso altro non è che la traduzione in italiano dell'aggettivo "questo".
Un altro termine che sentiamo spesso dire nella nostra Catania è "bazzariotu" per indicare una persona non costante specialmente nella dirittura morale. Non deriva tale epiteto dal termine arabo "bazar, che indica negozio di cose molto varie?" .
Un altro termine ancora: "pruvuligghia" (polverina). Non è abbastanza chiaro che questa parola deriva dal latino "pulvis, che si traduce in italiano "polvere"?
ORIGINI LATINE DI ALCUNI TERMINI
A proposito del verbo latino mingere un altro termine che ne deriva nel nostro gergo è “ minna”, ossia mammella, in quanto si tratta di un organo che va spremuto o munto. Altri termini derivano da questa parola prettamente siciliana, con riferimento alla forma (sicché abbiamo l’uva “minnedda”) oppure, in senso figurato, una fonte di ricchezza a poco prezzo. Chissà quante volte avete sentito dire: “chi bedda minna, si dura …”, oppure: “chi bedda minnedda.” Tanto per restare sempre con questo termine, avrete sentito anche dire a qualcuno il termine “sminnatu” od anche “sminchiatu”; entrambi i termini sono riferiti ad un oggetto od organo ormai fuori uso perché sfruttato al massimo. Un altro uso che si fa per illazione del verbo latino mingere è a proposito di premere un bottone od un tasto. Il catanese vi dirà sempre: “’mungivu u buttuni” oppure “mi misi a mungiri a tastera”, attribuendo al verbo mungiri anche il significato di premere o pressare.
Se mai vi capiterà di andare in Grecia ed avete il desiderio di mangiare delle gustosissime albicocche, non avete la necessità di cercare come si dice tale frutto in greco, basta semplicemente parlare in dialetto catanese e chiedere un bel Kg di “piricoco”. In greco l’albicocca è chiamata piricoco, esattamente come da noi a Catania.
Un termine latino che ha avuto molta fortuna in Sicilia è “canna (genitivo cannae)”. I latini per indicare questa pianta usavano anche il termine “calamus”, da cui deriva il siciliano “calamaru” per indicare il calamaio oppure un tipo di pesce dei nostri mari. Ma il termine “canna” ha avuto più fortuna, tanto da passare interamente nel linguaggio siciliano ed anche italiano. Non solo questo, poiché molti altri termini traggono origine da questa parola utilizzando la radice “can” che diventa sinonimo di oggetto rotondo, a forma, appunto, di canna. Così abbiamo il termine “cannata”(tazza a tubo con manico per il vino) ed ancora il termine “cannolu”, passato anche all’italiano “cannolo”, così chiamato poiché la buccia di questo tipico dolce è ottenuta appunto avvolgendo una spoglia di pasta frolla ad un tubetto di canna che viene reso croccante immergendolo nell’olio bollente. Un altro derivato è “u cannulicchiu”, usato per indicare il cannolo più piccolo oppure un tipo di crostaceo marino gustosissimo a forma di tubo , completamente sconosciuto al Nord. Sempre per restare in tema, sottopongo all’attenzione il termine “cantru”, quel famoso vaso in ceramica a forma di cilindro rovesciato, che una volta serviva alle nostre nonne per i bisogni corporali notturni ed oggi costituisce un richiamo artistico del calatino che ne ha fatto quasi un simbolo. Ebbene tale termine altro non è che la fusione dei due termini latini “canna” ed “antrum”, che tradotto significa esattamente “antro a forma di canna” ossia recipiente cavo a forma di tubo.
Non so se ci avete fatto caso, ma un catanese non si siede, ma “s’assetta” Il verbo sedere nel nostro dialetto viene tradotto in “assittarisi”. In questo abbiamo preferito fare nostro il termine inglese (to sit), forse molto più elegante di altre allocuzioni. Forse il termine “sedere” , che fra l’altro è anche indicato per indicare il lato B di una persona, è sembrato troppo … volgare!
Vi hanno mai dato del “Babbasuni”? Se sì, non offendetevi; vi hanno semplicemente detto in tono scherzoso che siete un ingenuo, poiché questa parola trae origine dall’arabo” babago”, che ciò significa.
Con l’avvento dei nostri emigranti nell’America del Nord, ossia negli Stati Uniti, il nostro dialetto si è arricchito di altri termini italo-amircani, quali, ad esempio, “businessu” (affare vantaggioso” ), richmmennu (uomo ricco), “jobba” (lavoro), “mistressa “ (padrona di casa), ganghisteri (gangster).
Una tendenza caratteristica di noi siciliani è quella di appioppare alle persone il cosiddetto “péccuru”, ossia un nomignolo che stigmatizza una pecca, un difetto, un pregio o comunque un qualcosa che ci dà un suo quadro espressivo tale da individuarlo meglio che con il nome. Ebbene a tale tendenza nei confronti delle persone, non sfuggono nemmeno le cose ed al punto tale che alcuni oggetti hanno assunto definitivamente come nome tali caratteristiche.
Una volta era uso nei teatrini di periferia ed anche poi nei cinema dei rioni, vendere della frutta secca in coppi di carta oltre alla famosa “acqua e anice”. Il venditore, con a tracolla una capace borsa piena di merce, negli intervalli, passava tra gli spettatori e con cadenza sistematica gridava : “calia, calacusi e simenza”. A parte “calia” (ceci abbrustoliti nella sabbia), di facile comprensione (rammento che calia viene dall’arabo haliah) e “simenza” (semi di zucca anch’essi abbrustoliti nella sabbia), la parola “calacausi” ha bisogno di una più esauriente spiegazione. Questo termine, nel nostro dialetto sta ad indicare “le arachidi”, chiamate anche noccioline americane. Dal momento che, a quanto pare, quest’ultimo prodotto provoca il bisogno di andare in gabinetto, non si trovò di meglio che attribuire a questo prodotto giunto in Sicilia dal Nord America, che la parola “calacausi”, la quale ricorda il gesto di abbassarsi i pantaloni appunto per andare a fare i propri bisogni corporali. Quindi ufficialmente le noccioline americane sono chiamate a Catania calacausi.
Un altro termine mi viene in mente: “U assicuta fimmini”. Esso è un piccolo petardo di bassissima potenza che generalmente viene lanciato tra le gambe della folla da persone poco per bene allo scopo di creare panico e grida tra le donne. Uno scherzo di cattivo gusto che va certamente condannato. Appunto per i suoi effetti sulle “femmine” egli viene non altrimenti chiamato. Si fa notare che “assicuta” viene dal verbo latino sequor, sequeris, secutus sum, sequi. Si usa anche il nomignolo per indicare alcuni tipi di funghi della nostra montagna ed è così che in commercio abbiamo “i mussi di Voi” (mussi di bove) ed “ i funci di porcu” ( funghi a musso di porco).
Per concludere, se un contadino dell’interno vi dà del “Vossia”, non offendetevi, poiché, al contrario, egli vi sta omaggiando in segno di sottomissione. “Vossia“ sta esattamente per Vostra Signoria.
ESPRESSIONI CON SIGNIFICATI DIVERSI
Se il tuo amico siracusano, dopo aver discusso del più e del meno, dice : “chi dici, scemu?”, resta sereno perché ti sta semplicemente chiedendo di uscire. Quel “scemu” è l’abbreviazione in vernacolo siracusano della parola “usciamo”, dove la “u” si elide ed il dittongo ia diventa e.
Se poi, anche, nel mezzo del discorso, parlando ad esempio dello strapiombo di una rupe, vi dice: “viri ca cari”, vi sta semplicemente invitando a stare attenti a non cadere e non che state vedendo qualcuno … defecare ! Quel “viri” sta per “vedi” e quel “ca cari” sta per “che cadi” Nel nostro dialetto il più delle volte la lettera “d” ha il suono più dolce della “r”.
Un simpatico termine preso con molta fantasia dall’inglese è “bullu”; deriva esattamente dal termine “bull” che significa … toro! Molto fantasiosamente, con l’evento del servizio postale, che prevedeva l’apposizione del timbro sulla busta, fu semplice paragonare il gesto secco dello stampo intriso d’inchiostro, alla testata di un toro che attacca caricando con le corna. Ne venne fuori questo vocabolo siciliano “bullu” con tutti i derivati e che venne anche adottato ufficialmente dalla lingua italiana (il bollo).
ORIGINE MITICA DI “CULUMBRINA”
Attenzione al termine “culumbrina”. Se qualcuno vi appioppa questo epiteto vi sta semplicemente dicendo che siete un donna di facili costumi o quanto meno, come suol dirsi, “farfallina”. Da dove viene questo termine, che, tutto sommato, fa rifermento alle colombe, veri simboli di pace ed anche di spiritualità? (Ricordo che lo Spirito Santo è rappresentato da una colomba in volo). Il termine ha un’origine storica. Moltissimi anni fa, intorno al IV secolo Avanti Cristo, la nostra cara Sicilia venne colonizzata oltre che dai fenici, anche dai Greci. Questi ultimi erano adoratori di una Dea, Afrodite, che poi i romani chiamarono Venere. Il culto per questa Dea, considerata la madre di Eros (l’amore) era talmente grande che ovunque arrivassero erigevano ad essa dei santuari nei punti più caratteristici ed anche di passaggio delle loro navi sempre alla ricerca di nuove terre da scoprire.
Uno di questi punti di riferimento fu Erice, nei pressi di Drepano (Trapani). Il santuario nacque sulla cima del monte Erice, che dominava il mare ed era centro di preghiera e devozione per la Dea da parte dei marinai che facevano sosta lì prima di affrontare il mar Tirreno. Insomma un vero centro di accoglienza affidato a delle sacerdotesse, che di questo vivevano in una specie di monastero posto in cima al centro di un boschetto particolarmente curato. E’ da dire che di simili santuari ve ne erano molti sparsi in tutto il mediterraneo, ma quello di Erice, fu particolarmente famoso al punto tale che nacque il cosiddetto culto di “Venere Ericina”, che persistette anche al tempo dei romani e sopravvisse anche in pieno cristianesimo e di cui ancora adesso se ne conserva la memoria. Questo culto consisteva nel fare sacrifici alla Dea da parte dei marinai, che fermate le loro navi, salivano al santuario per offrire doni e propiziarsi il viaggio. Il sacrifico consisteva generalmente nell’offrire doni in denaro che le sacerdotesse incameravano in cambio di un attestato di benemerenza da parte della Dea e che si traduceva in un amplesso sessuale santificante. Insomma in termini odierni, il culto consisteva nell’esercitazione di una prostituzione ritenuta non solo lecita, ma sacra. Le sacerdotesse venivano trattate con tutti i riguardi ed omaggiate dai marinai, che dal buon andamento dell’incontro traevano i buoni auspici per il loro viaggio. Chi volesse saperne di più in proposito, dovrebbe leggere l’ Eneide virgiliana, dove largamente si parla di Drepano ed Erice, abitata, a quanto pare, da precedenti popolazioni provenienti da Troia, che forse altre volte, aveva subito distruzione e saccheggio.
Per ritornare al culto di Venere Ericina, le sacerdotesse amavano ricevere … i pellegrini, tutte discinte ed avvolte in pepli trasparenti ed in simile positura danzavano al suono delle cetre, esattamente come pare abbia fatto Salomé con Erode. La funzione dell’accoglienza era preceduta dalla liberazione in volo di colombe a frotte, le quali, volteggiando sul boschetto ritornavano, infine, nei colombai per un successivo evento. Erano appunto, questi volatili il simbolo del culto di Venere Ericina, che trasmettevano il senso di pace e di liberazione dei sensi, che si abbandonavano nei meandri del cielo al di sopra del quale Venere elargiva benessere e felicità. Insomma il volo delle colombe aveva un significato molto diverso di quello attribuito ai nostri giorni ed in un primo momento esso, proprio ad Erice, dove pare persistesse a cristianesimo inoltrato, non venne gradito dalla nuova religione, che cercò, in ogni modo di vietare il rito delle “colombine” chiamate in gergo siculo “culumbrini”. In verità il rito continuò a persistere e continuò pure a persistere quel tipo di prostituzione marinara considerata, se non sacra, di ordinaria amministrazione. Fu a questo punto che Santa Madre Chiesa, impegnata a trasformare le vecchie feste pagane in riti cristiani, pensò bene di installare prima del sacro boschetto di Afrodite un santuario dedicato alla Madonna, madre di Gesù per bilanciare e soffocare la vecchia tradizione, restituendola ad un rinnovato sentimento cristiano. Non solo questo, ma anche il volo delle colombe ed il simbolo che esso esprimeva venne trasformato in elevazione dello spirito ed abbandono dei piaceri sensuali. Nonostante il mutato sentire di questo simbolo e la trasformazione del culto di Afrodite (mai dimenticato ed oggi meta turistica di grande rilevanza) il termine “culumbrina” non venne mai dimenticato dai siciliani che lo adoperano, appunto, per indicare le donne che si comportano in modo non certamente castigato, pur non disdegnando di rappresentare nelle loro chiese lo Spirito Santo della Santissima Trinità in forma di colomba.
CUMPARI E CUMMARI DI SAN GIUVANNI
“Hannu ammazzatu cumpari Tturiddu.” Questo lacerante grido conclude la tragedia della Cavalleria Rusticana di Mascagni scritta sulla falsariga del racconto verghiano. In questa frase, a parte l’uso del verbo ammazzare ed il nome Turiddu, quello che è interessante analizzare è il significato di quel “cumpari”. Intanto, per chi non lo sapesse il verbo ammazzari viene dal verbo spagnolo matare (uccidere ed il nome altro non è se non il diminuitivo del nome Salvatore (Sarbaturi–>Turi>– Turiddu). Il termine “cumpari” è molto più ricco di significato ed è la punta di un immenso icerberg di atavici usi e costumi, qui nati e mai tramontati, nonostante l’evoluzione sempre in atto del nostro linguaggio e della nostra sicilianità. Incominciamo col dire che siamo in presenza di una parola interamente latina, composta dai due epiteti “cum” e “par” (cum sta per con, insieme e par sta per uguale, simile) Quindi ne appare evidente il significato: Uguali insieme. Tale dizione è molto piaciuta alla lingua italiana, che l’ ha subito adottata nel proprio vocabolario con il termine “compare”, addirittura traendone dei modi dire derivati di significato similare. Avete mai sentito parlare di “comparaggio”? E’ un termine, italiano ormai, che sta ad indicare la sleale concorrenza, mediante tangenti, nel contattare determinate categorie di professionisti allo scopo di ottenere la prescrizione e la vendita di determinati prodotti, per lo più medicine, magari di scarso valore terapeutico. Se ricordate, se ne parlò molto a proposito di un ministro, che poi finì per essere arrestato, il quale fece assurgere il termine “comparaggio” ad alti livelli di celebrità per averlo introdotto come sistema fondamentale per lucrare nel campo della sanità.
Ma per tornare a parlare del nostro termine “cumpari” siciliano, bisogna dire come sia nato questo termine e perché in Sicilia si diventa “cumpari” e, di riflesso, “cummari" che ne è la versione femminile. Vi sono due maniere nella nostra isola per accendere una comparanza: uno, legato al matrimonio dei figli e l’altro alla nascita di un’amicizia fraterna. I genitori dei nuovi sposi, diventano reciprocamente “cumpari” e “cummari” fin dal momento del fidanzamento dei nubendi per sancire l’affinità delle due famiglie che diventano così uguali a parenti stretti, in segno di accettazione delle nuore e dei generi nel ruolo di figli naturali. Un segno di rispetto, quindi e di accettazione di un ruolo nobile e, direi, necessario, anche se talvolta subentrano elementi di interessi che limitano tale ruolo ad un apparente posizione contingente e formale ("pi’ l’occhiu da genti”).
L’altro modo per accendere una comparanza è prettamente nostrano e parto di una nostra atavica usanza : “Cumpari di San Giuvanni”. Occorre capire che cosa c’entra San Giovanni con il diventare compari. Bisogna partire dal concetto di amicizia profonda. Talvolta, tra due persone si accende questo sentimento dettato dalla reciproca stima, dal reciproco desiderio di volersi bene, di rispettarsi e di aiutarsi nelle avversità o di vivere insieme alcune lecite esperienze di gioia. Ebbene, quando si ritiene che questo sentimento abbia raggiunto, come dire, la saturazione assoluta, una delle due, il 24 giugno, festa di San Giovanni va dal fioraio e compra un bellissimo e capace vaso di terracotta con una folta chioma di basilico odoroso, lo adorna con un rutilante fiocco rosso, lo munisce magari di un bigliettino, e lo invia all’amico; il quale, in segno di accettazione dell’amicizia restituisce un dono similare all’amico. Così le due persone diventano cumpari, sancendo tra loro un pegno di amicizia fraterna il cui pegno è costituito da quei doni. Ovviamente, se i due sono sposati, le rispettive moglie diventano cummari. Insomma si stabilisce tra le due famiglie un’intesa di reciproca stima ed amicizia per tutta la vita e che nel nome di San Giovanni non dovrà mai essere tradita. Appare quindi chiaro, il motivo della tragedia nella cavalleria rusticana, essendo stato tradita la fiducia del comparato tra i due protagonisti, certamente nato con questo rito (che oso definire magico), a causa della tresca di Turiddu con Lola, moglie di Alfio.
E’ da dire che lo stesso rito può essere fatto per sancire l’amicizia tra due donne, che diventano così cummari, estendendo il ruolo di cumpari ai rispettivi mariti.
Intendo evidenziare che mai un uomo in Sicilia invierà il pegno di amicizia con questo rito ad una donna, né viceversa, per il semplice motivo che nella mentalità siciliana atavica non può esservi mai un rapporto di pura amicizia tra individui di diverso sesso, destinata prima o poi a concludersi a letto, e quindi non si può compromettere la figura di San Giovanni in una simile fattispecie. Sarebbe come voler mischiare il diavolo e l’acqua santa! Tale convinzione scaturisce dal concetto tutto siciliano che non bisogna mai mettere “u focu vicinu a la pagghia, pirchì, prima o poi, qualche faidda l’appiccia”. A conferma di tale modo di pensare, anche adesso, quando si vuole alludere ad un certo rapporto tra due persone di diverso sesso, si è soliti dire che “a signura ci havi u cumpari” oppure “u signurinu ci havi a cummari”. Ai nostri giorni per attaccare bottone, come suol dirsi, tra un uomo ed una donna i mezzi sono sempre i soliti e non si ricorre minimamente al “San Giovanni”. Una volta in Sicilia avevamo le serenate, adesso vi sono altri mezzi più spicci e sbrigativi, come il classico mazzo di rose rosse, l’invito a cena od altro.
Ciò che è interessante capire è cosa c’entra San Giovanni con tutta questa faccenda. Perché i Siciliani sono andati a scomodare questo Santo per renderlo partecipe e testimone della fraterna amicizia? Bisogna sapere che il 24 Giugno è l’anno più lungo dell’equinozio estivo ed in questo giorno il mondo pagano festeggiava la dea romana Fortuna, legata al mondo produttivo agricolo ed alla divinazione sul futuro raccolto. In questo giorno si offrivano doni, del tipo di quello simile al vaso con il basilico, od a serti germogliati alla Dea Fortuna per sollecitarla a manifestare la sua divinazione sulla bontà del raccolto. Tale manifestazione era talmente radicata nel popolo, che di raccolto agricolo viveva infine, che, a cristianesimo inoltrato, continuava ad essere in auge e particolarmente sentita, tramite divinazioni di fattucchiere e maghe, eredi delle antiche sibille di cui ci parlò Virgilio. (Per inciso bisogna dire che anche adesso questi tipi di divinazione sono anche presenti proprio in nome ed in onore di San Giovanni!). Santa madre Chiesa, per sradicare questa usanza ancora viva nella gente, pensò bene di cristianizzarla in un modo molto semplice. Nel solco ormai seguito con molta determinazione, pensò bene di sostituire la figura della Dea Fortuna con quella di San Giovanni, il rivelatore per eccellenza del futuro, avendo predetto la venuta sulla terra di Gesù, il redentore del mondo. Ecco che questo santo assunse sempre più l’aspetto delle vecchie sibille d’invenzione pagana; anzi, quasi, quasi, divenne a poco a poco il loro capo carismatico, in nome del quale esse continuavano a fare da indovine con le loro magie d’antica tradizione. Non è raro ancora adesso che alcune delle nostre donne proprio il 24 giugno, che venne decretata festa di San Giovanni, oltre al rito della comparanza di cui ho parlato e che costituisce il top delle future amicizie, seguitano a dar luogo a tutte quelle pratiche divinatorie di un tempo. Sicché ancora oggi sono solite in tale data a lavarsi il viso con l’acqua in cui per 24 ore sono state lasciate a macerare petali di rose in segno di buon auspicio, oppure ad indovinare il nome del futuro marito, coincidente con quello della prima persona che incontrano non appena fuori di casa, oppure ad indovinarne il mestiere, a seconda delle forme assunte di una sbarretta di piombo fatta liquefare nell’acqua fredda, oppure ancora a bruciacchiare un tronchetto di cardo selvatico la sera prima e lasciarlo sul davanzale per indovinare come sarà il futuro.. (se il cardo fiorirà il futuro sarà roseo, altrimenti no!). Ecco quindi, che la figura di san Giovanni assume l’eredità e la paternità di pratiche che, poverino, nemmeno si sognava di fare, all’infuori dell’unica assegnatagli dal Signore di preannunciare la semplice venuta del Redentore e di battezzarlo.
MODI DI DIRE RIFERITI A SAN GIOVANNI
Senza alcun dubbio la fama di San Giovanni Battista di grande indovino per aver preannunciato al mondo la discesa dal cielo sulla terra del Redentore, ha giovato moltissimo ai primi Padri della Chiesa Cristiana per trasformare le usanze festive pagane in vere feste del nuovo corso. Essi capirono ben presto che la semplice predicazione della felicità ultraterrena, non era sufficiente a conquistare le masse alla Fede. Si resero conto di quale forza fosse effettivamente la famosa asserzione degli imperatori romani che per conquistare il popolo è necessario dare loro “panem et circenses”.
Non bastava predicare il bene, far conoscere la fede, operare miracoli e quant’altro. Bisognava offrire al popolo quelle feste e quei momenti di abbandono che sapevano creare i vecchi riti pagani creando nuovi simboli squisitamente cristiani in grado di cancellare l’antico o di ripeterlo sotto la nuova luce. Ovviamente tali nuovi simboli si sono perpetuati nel tempo fino ai nostri giorni. L’immagine di San Giovanni Battista in particolare, oltre quella dei santi, si prestava moltissimo alla bisogna per quell’aria di mistero ed esoterismo di cui era circonfusa, comune a quella espressa dalla natura nel suo continuo divenire. Per questo motivo, ancora oggi esistono delle feste locali di alcuni centri della Sicilia (ma anche dell’Italia) che rievocano la figura e le antiche usanze di questo santo, mischiando in un indissolubile miscuglio sacro e profano con una sorprendente continuità.
Oltre alla già citata usanza del “comparato di San Giovanni” e di altre tipiche manie magiche popolari, non esclusa quella di dare ad alcuna frutta il suo nome (ricordo “i pumidda di San Giuvanni" e pure “i piriceddi di San Giuvanni”) mi piace citarne due : “a quarara di San Giuvanni” e “a festa de’ muzzuni di San Giuvanni”.
A Castelbuono, in provincia di Palermo giorno 24 giugno i devoti sono soliti accendere al centro della piazza principale davanti ad un altare con l’immagine del santo, un grande focolare dove mettono a cuocere in un enorme paiolo (quarara) delle fave raccolte nei giorni precedenti con delle questue. A cottura avvenuta, le fave vengono servite ai fedeli che se ne cibano in onore ed a gloria del santo. Risalta con grande evidenza il profano di un vecchio rito dedicato alla dea Cerere ed a sua figlia Kore per l’uscita dal fuoco dell’inferno di quest’ultima e di ringraziamento per la produzione di questo legume un tempo basilare per l’alimentazione ed il sacro del nuovo corso religioso che chiama in causa lo spirito caritatevole della questua, nonché del pasto comune di tipo eucaristico. Chi meglio di San Giovanni avrebbe potuto essere il pronubo ed il rappresentante di questo evento festivo?
Ancora molto più significativa è la festa de’ “Muzzuni di San Giuvanni” ad Alcara Li Fusi, un paesetto del messinese, così chiamato dal termine arabo Al-Quarah, che significa testualmente “quartiere”. Nel giorno del 24 giugno, vengono visitati dalla popolazione degli altarini in precedenza eretti con la effige del santo, adorni con fiori e con dei “muzzuni” con dentro dei mazzi di spighe di grano fatte precedentemente germogliare al buio. I visitatori, oltre a pregare davanti all’altare, depositano delle offerte in denaro al santo, non esclusi oggetti d’oro e di un certo valore. Bisogna capire che cosa sono i “muzzuni” e perché vengono utilizzati questi tipi di recipienti. Sono i muzzuni delle “quartare”, ridotte ad orci in terracotta cui sono stati rotti i musi, tanto da allargarne l’orifizio sommitale. E’ da dire che le spighe altro non sono che il prodotto finale delle fatiche agresti, chiamati, appunto, “lavuri”, ossia lavori dei campi.
Alla base di questa festa, che vuole evidenziare la devozione del popolo al santo ed il ringraziamento per il buon raccolto, potete anche non crederci, vi è un antico mito pagano che ha per protagonisti un’ intricata storia d’amore, di corna e di vendette tra Adone, Mirra, Persefone ed Afrodite, tutte divinità frequentatrici della nostra Trinacria. Proprio per un dispetto di Afrodite nei confronti di un certo Cinira, Afrodite trasformò sua figlia Mirra in pianta, dal cui tronco nacque Adone, il più bello tra tutti i mortali e gli immortali. Quest’ultimo era tanto bello che Afrodite, artefice del sortilegio, quasi per un voluto desiderio di vendetta del destino, se ne innamorò perdutamente, mettendo in atto tutte le manovre per … farselo! A questo punto della storia avvenne che Persefone (o se volete Proserpina, o Kore, figlia di Cerere) nell’attimo in cui venne fuori dal mondo degli Inferi per intercessione della madre si accorgesse di quel fustaccio di Adone che tutto nudo si bagnava nelle fresche e dolci acque di Pergusa. Ovviamente se ne innamorò e cominciò a contenderlo ad Afrodite e poiché Adone, da parte sua, non aveva preferenze di sorta, scoppiò una gran guerra tra le due Dee, che venne risolta da Zeus con la salomonica decisione di trasformare Adone nel fiore bellissimo Anemone, che fioriva all’inizio della Primavera, quando Proserpina era solita uscire dal mondo degli Inferi. Nacquero così i famosi “giardini di Adone”, campi fioriti di Anemoni tra spighe di grano maturo, che stavano a simboleggiare l’avvento della bella stagione sui “cocci” rotti della vecchia. Se non credete a questa storia che ho pure raccontato su “ I Miti in siciliano in altra parte del sito, andate a consultare Ovidio, che forse è più esauriente. Ebbene questo mito veniva ricordato anche in pieno cristianesimo poiché era legato al mondo agricolo che era sempre pronto a ringraziare qualunque divinità purché la terra producesse i suoi frutti. Fu proprio necessario chiamare in causa San Giovanni per inculcare nel popolo la nuova fede ed accrescerla sul ceppo delle antiche usanze.
RIFERMENTI MITOLOGICI AI SANTI
La figura di San Giovanni Battista non è la sola ad essere stata scomodata per cercare di modificare i riti pagani, mai del tutto abbandonati dal popolo, in feste cristiane. Altri Santi e Sante sono stati tirati in ballo dal cristianesimo facendoli diventare i nuovi simboli degli antichi Dei e di tutte le prerogative divine ad essi riferite. La faccenda non deve suscitare scandalo o meraviglia, poiché la Chiesa si trovò nell’impossibilità reale di abbattere gli antichi miti. Non restava che seguire la sola strada possibile: addomesticarli e farli diventare, con le opportune correzioni, manifestazioni di vera fede cristiana. In questo, certamente per chi ha fede, ha giocato un ruolo importantissimo la terza persona della Santissima Trinità, lo Spirito Santo.
Se non volessimo scomodare la fede e giustificare tale comportamento con motivazioni umane, bisognerebbe riconoscere che simile andamento è comune nell’evoluzione della religiosità nei popoli. Qualcosa di simile avvenne quando la religione etrusca e quella romana primordiale vennero a contatto e quando, infine su quest’ultima si impose la più evoluta religione greca. Ma anche prima, nel mondo orientale, avvennero similari accostamenti di usanze e riti. Sicché il cristianesimo ed anche l’Islamismo, che sono l’ultimo stadio della religiosità raggiunta nei nostri giorni, assommano inconsapevolmente dei simboli e degli aspetti che furono non solo greco-romani, ma anche egizi, ebraici, sumerici ed anche persiani.
E’ indubbio che i popoli primitivi non riuscivano a spiegarsi determinati fenomeni naturali, che ritenevano di competenza divina. In questo clima di ignoranza germogliò, sotto la spinta di scoprire la loro relazione con la produzione agricola, la necessità di conoscerli meglio. Vi fu allora chi pensò di studiarli e di sfruttarne i risultati per acquisire poteri sulle masse, attribuendoli all’esistenza di divinità di cui egli solo ne era l’interprete. Insomma, di pari passo alla nascita ed allo sviluppo della religione prese piede una casta sacerdotale, che fu in grado di orientare l’andamento politico di interi popoli. “Il sapere è potere” dice una nota massima e la casta sacerdotale la mise in pratica con successo. Non mi dilungo con molti esempi, poiché basta solamente leggere la storia del popolo ebraico narrata nella Bibbia, per notare quale fosse il potere dei sacerdoti in grado di detronizzare ed ungere sempre nuovi re a seconda del volere … divino! Certamente le cose oggi vanno in modo diverso, ma lo Spirito Santo riesce in un modo o nell’altro a metterci lo zampino, scusate, le ali!
Dopo una siffatta introduzione non mi resta che evidenziare determinate immagini e riti della nostra religione in riferimento alle altre ed in particolare a quella greco-romana, che è stata la più incisiva per la relativa vicinanza temporale e per la particolare attenzione che suscitò nei Greci la nostra isola. I Greci, che erano molto ricchi non solo di civiltà, ma anche di fantasia, quando approdarono in Sicilia, vuoi per la bellezza dei luoghi, vuoi per lo splendore dei cieli e la ricchezza delle messi, vuoi per lo spettacolo della forza distruttrice dell’Etna, ne fecero l’abitazione privilegiata dei loro Dei ed il centro dell’esoterismo mistico. Certamente l’Olimpo era e restava in Grecia, ma Cerere era di stanza in Sicilia, Vulcano pure con la sua bottega se ne stava a lavorare dentro l’Etna e Venere, Minerva e Giunone amavano venire a trastullarsi nell’isola del sogno. Fu così che nacquero da noi i miti più belli, trovandovi un terreno fertilissimo e tale che, a cristianesimo inoltrato, ne continuano ancora i riti, senza che la stessa Santa Inquisizione sia riuscita ad annientarli.
GRIFUNI E MATTA
E’ così che a Messina esiste il mito del “Giganti” e della “Gigantissa”, nato nella notte dei tempi, ed ancora adesso in auge. Esso consiste nella credenza insita nel popolo che Messina sia stata fondata da questi due giganti, chiamati “Grifuni e Matta”. Da dove siano venuti fuori questi due mitologici personaggi non è dato sapere con precisione, poiché diverse leggende esistono in proposito e gli stessi nomi non sono stati sempre gli stessi, a seconda dei periodi (“Cam e Rea”, "Saturno e Cibele" od anche “Zanclo e Rea”). Il rito consiste nel portare a spasso per le vie cittadine nella giornata di ferragosto di ogni anno due simulacri di cartapesta e legno, alti dieci metri ciascuno, (uno maschio ed una femmina) che precedono la “vara” della madonna Assunta. Essi sono portati a spalla da uomini che imprimono ai due giganti dei movimenti traballanti lungo il percorso come se cavalcassero degli immaginari quadrupedi. Un tempo questi due idoli erano anche preceduti da una pelle di cammello tenuta in piedi da due uomini che la indossavano riproducendo le fattezze dell’animale. Mentre la processione con la vara agghindata della madonna e scortata da due sacerdoti che raccoglievano le offerte in denaro con dietro i fedeli, preceduta dai due grossi pupi danzanti ed in veste moresca, il cammello si soffermava davanti ai negozi ed ai fondaci raccogliendo nel proprio ventre cibarie che poi venivano distribuite ai poveri. Non mancava nemmeno un uomo barbuto munito di frusta ed agghindato da satiro che raccoglieva ulteriori offerte in denaro ed in oggetti preziosi. Il tutto procedeva e procede ancora tra due ali di folla festanti ed imploranti grazie alla madonna. Un vero spettacolo d’altri tempi, arricchito dalla partecipazione della Madonna dell’Assunta, dichiarata patrona della città. “Vos et ipsam civitatem benedicimus” sta scritto ai piedi del simulacro della Mdonna all’ingresso del porto di Messina. Quando ancora la vara della Madonna non partecipava al corteo, la Santa Inquisizione volle vederci chiaro su questo rito annuale, che sapeva molto di pagano. Ed in effetti di rito pagano si trattava in onore dei due giganti presunti fondatori della città, che ricalcava le feste in onore di Cibele (madre Terra) e Saturno (padrone del Tempo) con le danze farneticanti dei sacerdoti evirati che a loro avevano dedicato la loro fede monastica. Intorno all’anno 1600 venne direttamente dalla Spagna un Santo Inquisitore con il compito di recuperare alla fede cristiana tutta la Val Demone cui faceva parte Messina. (Per inciso, la Sicilia era divisa in tre ulteriori regioni: la Val Demone cui faceva capo il corno nord-Orientale con Messina, la val di Noto a sud e la Val di Mazara ad Ovest). Ma dovette desistere per tema che tutta la popolazione si ribellasse al giudizio del Santo Uffizio. Una cosa era pronunciare una condanna al rogo contro un ereticuccio da mostrare come esempio, un’altra era condannare un’intera popolazione. Sarebbe scoppiata senza meno la rivoluzione. Fu così che venne deciso di istituire la festa della madonna Assunta a Ferragosto, proclamandola Patrona della città e la leggenda dei due Giganti assunse un’altra connotazione. Si inventò che erano si i due giganti i fondatori di Messina, ma non dalle origini, ma dall’anno 970 circa, tempo in cui un gigantesco moro , chiamato Haman Ibn-Hamar, sbarcò con cinquanta pirati nella spiaggia tra Camaro e Dinnammare, mettendo a ferro e fuoco tutto il territorio. (Si mette in evidenza il nome Camaro per cui il gigante maschio venne anche chiamato Cam ed il nome Dinnammare che è la derivazione del nome arabo dello stesso). Dopo avere saccheggiato in lungo ed in largo tutto il territorio, avvenne che s’imbatté in una deliziosa fanciulla, anch’essa molto alta, di nome Marta, che era Rea, cioè principessa, figlia del Re di Camaro. La chiese in sposa, ma lei si rifiutò ed accettò solamente quando il Moro si convertì facendosi battezzare con il nome di Grifo. Entrambi ricostruirono Messina e quindi diventarono effettivamente i fondatori redenti e credenti di Messina. Ecco, quindi che venne trovato un accomodamento tra l’antica usanza pagana e la nuova Fede. Certo la faccenda ne è uscita un poco rabberciata e contorta, ma quello che contava era che il vecchio rito persistesse per divertimento del popolo e purificato dalla presenza cristiana della madonna.
In appendice a questa vicenda mi preme evidenziare che il Santo Uffizio, celebre per aver mandato al rogo centinaia di poveri monaci e monache in Italia, in Francia ed altrove, a Messina non la spuntò, poiché tutti i testimoni chiamati in causa per mettere al rogo una devota dei due Giganti, una certa Tafania, accusata di osservare il digiuno in onore dei santi Giganti, interrogati risposero con il classico “nenti sacciu, nenti vitti” (niente so, niente vidi). Mi chiedo se anche allora si fece ricorso alla mafia per proteggere questa donna ed i Santi Giganti!
E’ da dire che l’inquisitore in una delle sue relazioni evidenziò il collegamento del rito dei due Giganti di Messina con le forze del male, rappresentate dalle antiche credenze pagane. Infatti l’origine della città di Messina viene fatta risalire ad un periodo così antico che si confonde con quello del confronto tra Giove ed i mitici Giganti. Tale considerazione scaturisce dal vecchio nome originario della città che era Zancle. Questo termine, che deriva dal siculo Zanglon, da cui anche la parola italiana zagaglia, significa falce riferita alla forma del porto naturale originatosi secondo il mito, dalla caduta di questo attrezzo dalle mani di uno dei mitici Giganti in lotta.
LE “FALCI” DI MESSINA E TRAPANI”
Passo subito ad illustrare il mito di riferimento. La leggenda racconta che Crono, uno di questi antichi mostri, munito di “Zanglon” abbia tranciato di netto ad Urano i suoi genitali per impedirgli di procreare con Gea altri figli che regolarmente si pappava non appena nati.. Dalla ferita ne uscirono fuori tre gocce di sangue maligno, che cadute sulla terra dettero vita alle Erinni. Inoltre il membro reciso, caduto in mare incominciò a nuotare nele acque dell’ Egeo approdando nell’isola di Cipro, dove assunse le fattezze di una donna, che le Grazie rivestirono di tutte le loro virtù trasformandola nella donna più bella dell’universo, ossia, nella mitica dea dell’amore Afrodite. Ma avvenne anche un altro fatto importante: nella lotta tra Crono ed Urano lo Zanglon sfuggi di mano ed andò a cadere in mare proprio nel posto dove si trova adesso dando il nome di Zancle alla località. Tutto questo venne giudicato per oro colato non soltanto dal mondo pagano, ma anche dall’inquisitore che vi trovò rispondenza malefica e degna di essere estirpata con i santi metodi in atto, ossia, condannando al rogo qualcuno.
Questa faccenda della caduta di una falce mitica nel mare di Sicilia dando luogo ad una profonda insenatura non crediate che sia un fatto isolato nel mondo mitologico. Il giorno in cui Cerere si accorse della scomparsa della figlia Proserpina, che era stata “fuiuta” da Efesto, ovvero sia da Plutone, incominciò a cercarla per tutta l’isola e, non trovandola, estese le sue ricerche nel Nord dell’Africa. Nell’atto di spiccare il salto per raggiungere le coste del continente nero, le cadde dal fianco la falce che portava sempre con se (Ricordo che Cerere era la dea delle messi e che quindi portava sempre seco gli attrezzi simbolici della sua attività). L’attrezzo cadde nel mare formando il famoso e mitico porto di Drepano (l’attuale città di Trapani) che appunto etimologicamente significa falce. Certo che ne avevano di fantasia i Greci nel giustificare anche la creazione del mondo e delle passioni umane e lo scenario della Trinacria si prestava benissimo a questi loro voli mitici che oggi definiamo pindarici!
RIFERIMENTI ALLA CIVILTA’ EGIZIA
I Greci non furono i primi a colonizzare la Sicilia. Prima di loro vi giunsero gli Egizi che affascinati ed ispirati dal mondo scoppiettante dell’Etna vi introdussero la loro cultura del mondo dei morti. Ed ancor prima degli Egizi altre popolazioni provenienti dall’oriente raggiunsero l’isola, attratte dal suo favoloso clima. E’ stato recentemente sostenuto che i Sicani ed i Siculi, giunti nell’isola dai più disparati punti del Mediterraneo (Spagna, Liguria, Calabria) prima di trovare la definitiva allocazione in Sicilia, siano partiti dalla Mesopotamia sciamando verso l’Europa. Quindi non deve stupire che gli Egizi misero piede nei pressi dell’Etna molto tempo fa, né meravigliarsi che attualmente è in atto un movimento di popolazioni in marcia (scusate, in navigazione) verso la Sicilia che è il primo approdo dell’Europa. Questa specie di nomadismo effettivo, reale e culturale dall’oriente verso occidente, è sempre esistito, mentre è sempre stato difficoltoso e quasi impossibile il movimento inverso. Evidenzio che i Greci dovettero combattere forse più di una volta contro la città di Troia, avamposto degli Ittiti in espansione verso l’Europa, che gli stessi Romani erano sempre in guerra contro i Parti senza riuscire a spuntarla definitivamente e che anche in tempi più recenti né Napoleone, né il nazista Hitler, né altri sono mai riusciti ad invertire i flussi.
Per tornare al discorso degli Egizi invasori ante litteram della Sicilia rispetto ai Greci, è da dire che la cultura di questo popolo trovò facile allocazione nel mondo misterioso dell’isola e vi attecchì in maniera profonda dando luogo a credenze esoteriche che furono assorbite dal mondo pagano e trasferite di pari passo nel mondo cristiano. Mi riferisco in particolare ad un culto ben preciso che ebbe fortuna in Sicilia, quello alla dea dei morti Iside, accoppiata a quella del suo sposo Osiride Il mondo così misterioso che rivelava l’Etna con i suoi tremori, con il suo fuoco prorompente, con la sua forza distruttrice non poteva non trovare il terreno fertile per la cultura professata dagli Egizi dell’oltretomba, immaginata come una realtà dove i morti continuavano a vivere e ad accudire alle loro faccende d’ogni giorno.
Evidenzio che tale cultura, ancora oggi è viva nel catanese. Avete mai riflettuto come solo da noi esiste la credenza che i morti in un determinato giorno dell’anno vengono tra noi a premiare i bambini buoni con dolci, giocattoli e doni simbolici? In altri posti vi è la Befana che pensa a queste cose con riferimento ad altre mitiche leggende. Da noi, no; sono i morti che portano i regali ai bambini. Da noi addirittura è stata istituita la cosiddetta “fera de’ morti”, che tanti crucci crea al comune e disagi anche alla circolazione cittadina. Non è questo un retaggio profondo della cultura egizia? Non è questo il volere affermare quanto sostenuto dal popolo dei faraoni in materia d’oltretomba?
A guardia di questo mondo invisibile ma reale, la cultura greco-romana sostituì l’immagine di Iside con quella di Proserpina, signora e regina degli inferi, accompagnata a quella di Plutone, novello Osiride, suo compagno in eterno nella gestione delle anime trapassate.
SANT’AGATA
Nel mondo cristiano, che ribadiva l’esistenza di un mondo diverso dalla realtà di ogni giorno, che premiava i buoni con la vita eterna, condannava i cattivi alle fiamme dell’inferno e consentiva anche l’espiazione transitoria del purgatorio, veniva data la conferma della credenza degli Egizi circa l’esistenza del regno dei morti. Quindi si rese necessario trovare nella cultura cristiana una figura successiva che ribadisse i concetti di fede cristiana assumendo tutta l’eredità mitica del passato. In generale, possiamo dire che la figura della madonna assunse il ruolo di super donna dotata di tutti i poteri e di tutte le virtù che Dio era in grado di concederle, compresa quella di essere madre di Dio stesso. Ma ciò non bastava; occorreva un’altra figura, più umana, più vicina alle durezze della vita, che magari avesse sofferto le pene del fuoco, per rendere più evidente il trionfo della fede e che si ergesse a difesa perenne della comunità capace di imbrigliare le forze del male rappresentate dalle fiamme dell’inferno. Questo mitico ruolo di regina, nel senso di guardiana, delle fiamme malefiche dell’inferno venne assunto da Sant’Agata a Catania, che si sentì in tal modo protetta dagli sfoghi del vulcano. Ricordo la simbolica esposizione del velo di Sant’Agata per fermare il flusso della lava, avvenuta più volte con esito favorevole. Chi, meglio di questa vergine e martire avrebbe potuto assumere un simile ruolo? Ella era riuscita a vincere il dolore del martirio, a provare e superare la prova del fuoco ad offrire il suo seno deturpato e violentato per la difesa della fede. Chi meglio di lei quindi era in grado di difendere la città da qualunque cosa e da chicchessia? Ella fu eletta patrona della città e siccome non era possibile appiopparle uno sposo in quanto vergine, le venne messo accanto come compatrono Sant’Euplio, quale novello Osiride.
Etimologicamente la parola Agata viene dal greco e significa perla pura. Ma in dialetto tale nome suona “Sant’Aita” ovvero Santa Aitina. In questo diminuitivo dialettale del nome di Agata, è evidenziato un certo rapporto con la parola Etna. Infatti viene fatto rilevare che “Aitina” senza qualche i di troppo si può identificare con Etna.
La stessa processione per le vie cittadine della vara trainata da un cordone tirato da tutti i fedeli in camice bianco e berretta nera ha qualcosa di irreale e ripetitivo di analoghe processioni pagane. Essi vengono chiamati devoti e per tirare “u curduni da vara” devono indossare “u saccu di Sant’Aita”. In effetti i cordoni che tirano la vara (fercolo in italiano) sono due e si snodano parecchio in avanti, creando anche dei problemi nelle svolte. L’andatura dei due cordoni paralleli, rimarcati dai camici bianchi dei devoti, sembra ricordare il movimento ondeggiante del mare, caratteristico proprio dal modo di procedere dell’antico “Navigium Isidis”, ovvero della processione come si svolgeva nell’antico Egitto in onore della Grande Madre, che aveva come protagonista una nave che veniva trainata allo stesso modo verso il mare per essere varata in suo onore. Proprio questo modo di procedere della processione mi ha fatto nascere un primo indizio sull’esistenza di un precedente culto egiziano a Catania e l’accostamento della figura della Santa catanese a quella di Iside. Anche la processione catanese procede verso la marina, ma non allo scopo di varare una nave, ma semplicemente per ricordare l’arrivo delle spoglie della martire da Costantinopoli ad opera di due marinai. Il famoso sacco simboleggia la tenuta notturna con la quale i cittadini le accolsero. Si tratta di una tunica bianca indossata sugli abiti, cinturata da un cordone ed accompagnata da una berretta nera e da guanti bianchi che vengono di tanto in tanto alzati in alto all’unisono rispondendo “Certu, certu. Evviva Sant’Aita”, ad un singolo devoto, che grida: “cittatini siti devoti tutti?” Un altro indizio di una certa corrispondenza tra la figura di Sant’Agata e quella di Iside, mi viene dal martirio subito dalla vergine catanese consistente nell’asportazione delle mammelle, accostato al rito sacrificale dei sacerdoti della Dea pagana, i quali erano soliti offrirle del latte od altre bevande in coppe a forma di mammella.
La lunghezza del cordone di traino della vara e la quantità dei devoti ad esso attaccati, hanno dato vita ad un modo di dire tipico catanese per dire che qualcuno si muove a forza da una determinata posizione. Si dice: “… e chi ci volunu pi’ smuviriti tutti chiddi ca tiranu u curduni di Sant’Aita?!” La processione è anche preceduta dalle candelore (i cannalori) che altro non sono se non dei grossi ceri addobbati e damascati con significative riproduzioni artistiche inneggianti alla vita della Santa. Ogni confraternita d’arti e mestieri della città ha la sua cannalora, ovvero questo cero addobbato in onore della Santa. Tutte lecannalore gareggiano in sfarzo ed anche nella “annacata”, che consiste nella danza che i portatori imprimono al cero portato a spalla ed a tempo di musica. Esse girano per la città, ognuna per suo conto, nei giorni precedenti la festa per raccogliere le offerte dei devoti. La più piccola “cannalora”, tutta bianca, è “chidda di Sant’Aita” che generalmente apre il corteo della processione. Quest’ultima si svolge secondo un giro prestabilito che dà dei singoli nomi alle varie tappe. Sicché abbiamo :A nisciuta da carrozza do Sunatu (l’uscita della carrozza del Senato) “ – a ‘cchianata di san Giulianu (la salita di via Sangiuliano) - U focu do Furtinu (il fuoco del Fortino) a calata da Marina (la discesa della Marina) e così via di seguito fino alla – Trasuta (il ritorno in cattedrale) Inoltre la processione tocca alcuni punti della città dove sorgono le chiese che ricordano il martirio, la vita e la morte della Santa: - a Carcaredda (la fornace dove subì il martirio del fuoco) - U Carciri – (il carcere dove la Santa venne rinchiusa in attesa del martirio) -Sant’Aita a Vetiri (la vecchia cattedrale di Catania) – A Madonna do Carminu (la Chiesa della Madonna del Carmine, dove la tradizione vuole che la Santa venne sepolta) - A Badiedda (l’ abazia di Sant’Agata) ed altri che in questo momento non ricordo.
Particolare rilevanza ha anche la cosiddetta offerta della cera. Generalmente chi riceve una grazia dalla Santa, oltre a vestirsi col tradizionale “sacco” offre nel giorno della festa un cero alto quanto la sua persona, che viene portato anche acceso durante la processione. Quest’ultima parte del rito è stata proibita, poiché la cera fusa rendeva viscide la strade ed il giorno dopo succedeva, come si dice in gergo, “u ncoccia- ncoccia” . Non è proibito offrire i ceri che vanno consegnati al clero che successivamente procederà in chiesa alla loro accensione. Ciò ha determinato la quasi eliminata tradizione di questa offerta, poiché il devoto non si sente gratificato dalla mancata vista del cero acceso. Del resto, tale usanza, nel caso delle cannarole è ormai scomparsa da tempo poiché i ceri che comunque di cera sono nel loro interno, non vengono accesi più essendo state le fiamme sostituite da lampadine alimentate da batterie elettriche. Una volta, quando venivano accesi i ceri con fiamma viva succedeva sempre che qualche candelora veniva distrutta dal fuoco. Da quando sono state inserite nel loro interno codeste batterie elettriche l’evenienza è stata totalmente eliminata.
TRADIZIONI LEGATE ALLA FESTA DI SANT’AGATA
In tutto questo mare di termini siciliani che ricordano le tradizioni della festa, non bisogna dimenticare quelli che fanno riferimento ai dolci votivi i cui principali sono : lo zucchero filato, simbolo del velo di Sant’Agata, le famose olivette di Sant’Agata, tutte verdi e gustosissime e le cosiddette “minnuzze di Sant’Aita”,dei maritozzi tutti bianchi con sopra dei peduncoli rossi. Queste ultime legate alla leggenda di un bimbo che passò dal pianto al sorriso per essersi trovato a ciucciare per miracolo una delle mammelle della Santa alla quale erano state asportate nel martirio. Credo che anche i cosiddetti “bomboloni” (grosse caramelle di miele avvolte in carta colorata) ed i torroni facciano parte dei dolci tradizionali di Sant’Agata, come qualche venditore ambulante dichiara “vanniannu” con molta lena.
Bisogna sapere che Sant’Agata è molto ricca per le diverse donazioni dei devoti, accumulate negli anni, nonostante abbia subito un clamoroso furto che la spogliò di molti gioielli. Fu proprio dopo questo furto che vennero presi dei provvedimenti drastici per proteggere il tesoro della Santa da ulteriori … prelievi abusivi! Il luogo di conservazione del tesoro venne munito di più di un cancello in ferro con chiavi e controchiavi gelosamente custodite. Per questo motivo i catanesi, che hanno, tutto sommato uno spirito faceto, sono soliti dire: “Dopu c’a Sant’Aita ‘a rubbaru, ci ficiru i porti ‘i ferru”. Questo detto vuole esortare a prevenire sempre i fatti nefasti, prima e non dopo che essi avvengono.
Una notizia storica che non tutti sanno e che voglio partecipare è quella dell’usanza delle ‘ntuppatedde, che era in auge fino all’ottocento per la festa di Sant’Agata. Essa consisteva nel fatto che tutte le donne catanesi, maritate o nubili, nei ritagli pomeridiani della festa, potevano uscire da sole, mescolarsi anonimamente tra la folla, accettare dolciumi ed attenzioni non certo castigate da parte di sconosciuti, con il viso coperto da una mascherina atta a garantire l’assoluto anonimato. (Successivamente la maschera venne sostituita con un cappuccio con due soli buchi per gli occhi. ed un lungo mantello chiamato “domino”) Per questo erano chiamate ‘ntuppatedde”, dalla parola “tuppa” che sarebbe la membrana che ostruisce (intuppa) l’orifizio delle lumache nel periodo di letargo. Ovviamente in questo stato di assoluta libertà erano in grado di potersi abbandonare ad ogni tipo di licenziosità senza avere alcun ritegno. Lo scopo di tale travestimento e di tale libertà omertosa e silenziosa era quello di mettere alla prova le virtù femminili alla luce di nuovi stimoli. Questa usanza, che certamente ricordava i riti della Dea Afrodite con risvolti non certamente positivi e quindi sicuramente pagane ed immorali, allo scadere del 1870 o giù di lì venne totalmente abolita non solo per motivi di moralità ma soprattutto di ordine pubblico. E’ chiaro che la situazione non solo favoriva, ma consentiva di compiere omicidi e delitti in piena libertà.
RIFERIMENTI PAGANI AD ALTRI SANTI
Discorsi analoghi a quelli illustrati a proposito di Sant’Agata, vanno fatti per altri Santi, come Santa Rita, che in pratica ricorda la pronuba Giunone, Santa Barbara, protettrice delle fiamme, dei lampi e dei tuoni, Santa Lucia di Siracusa, legata al mito della luce, Santa Rosalia di Palermo i Santi Cosimo e Damiano, che sembrano rispecchiare il mito dei fratelli Pii, ed altri ancora il cui numero è anche difficile a sapersi e ad elencare.
TERMINI RIFERITI A COMPORTAMENTI SESSUALI
In precedenza ho detto qual è il significato della parola “culumbrina” affibbiato ad una ragazza, spiegandone la derivazione piuttosto elegante dal mondo classico legato al culto di Venere Ericina, ma essistono altri termini per indicare le tendenze non certo esemplari di una donna. Chissà quante volte avete sentito dire che la tale è “muddisa”. Quest’ultimo termine sta ad indicare un tipo di donna che pur essendo rispettabile e di sani principi morali, tuttavia non è insensibile alle attenzioni dei corteggiatori. “Muddisa”, letteralmente significa “morbida”, vale a dire che se un corteggiatore insiste alla fine lei cede, ma non semplicemente con quello, ma anche con altri. Insomma “a fimmina muddisa” in effetti è quella che è facilmente cedevole alle lusinghe ed alle avances dei “masculi”. Il termine corrispondente in italiano potrebbe essere benissimo “leggera” o meglio “fraschetta”. C’è da dire comunque che un senso di sfiducia e di giustificazione hanno o almeno avevano un tempo i catanesi nel dire che “i fimmini ci hannu sempri i capiddi longhi”. Ovviamente questo modo di dire, nato quando non era ancora in voga il taglio dei capelli alla maschietta, stava a significare che tutte le donne in genere si lasciano corteggiare e prima o poi … “diventanu muddisi” perché badano di più alla esteriorità. Anche se questa allusione ai capelli lunghi in effetti esiste, la cose in realtà sono molto cambiate. Con l’evoluzione dei costumi e con il progredire del modo di pensare, una donna oggi è “muddisa” solo se ha deciso di esserlo e non perché sottoposta ad assedio.
Quando invece si vuole indicare una donna dedita al malaffare, si dice di lei che è “di misteri”, cioè, che esercita quel particolare mestiere a tutti noto. Se poi la si vuole anche vituperare e disprezzare di più si dice che è “zoccula” o “tappinara”. Con questi termini si vuole aggiungere al concetto dell’esercitazione del mestiere, quello di una appartenenza al più basso degrado morale. Infatti questi due termini stanno ad indicare le cosiddette battone. La parola “zoccula” si riferisce alla calzatura non certo pregiata e parimenti “tappinara” alle calzatura facile da levarsi per andare a letto. Vi sono ancora altri termini che vengono attribuiti alle donne di strada, ma mi sembra non sia il caso di parlarne. Una curiosità mi preme di evidenziare e, cioè, come anche nel linguaggio della lingua siciliana traspare il passaggio dalla sacralità alla condanna del vecchio mestiere della prostituzione femminile, nata quasi per istituzione divina e via via relegata nel mondo più degradato. I termini “culumbrina” , “muddisa”, “zoccula e tappinara” stanno ad indicare le tappe di questo percorso dall’alto verso il basso.
La nostra lingua siciliana, in materia di rapporti sessuali con le donne, non risparmia i “masculi” da un linguaggio abbastanza fiorito e significativo, che affiora ogni giorno nelle espressioni gergali. “Ricuttaru”, “sautafossi”, “bavasceri”, “pappuni” e non escludendo il classico “curnutu”, sono tutte parole ormai classiche del nostro mondo. Delle prime due ne sentii parlare in un caso particolare. Avevo vinto il concorso di capostazione FS e giovanissimo, senza alcuna esperienza sociale e linguistica, venni inviato a dirigere una stazioncina di campagna in territorio dell’ennese. Avevo alle dipendenze un altro collaboratore mio pari grado e tre cosiddetti “manovali” con mansioni di deviatori, cioè di manovratori degli scambi. Questi ultimi, un poco per ingraziarsi il giovane capo, un poco per il gusto di parlar male degli altri, mi riferivano delle loro tendenze e dei loro difetti. Io ascoltavo , ma non osavo profferire giudizi anche perché molte cose non le capivo veramente e non volevo chiedere spiegazioni. Fu così che uno mi riferì dell’altro che era “annaca-pecuri” e l’altro che il primo era “anticchia ricuttaru”. Sinceramente non capii questi termini e siccome si era in campagna ed i due non erano molto acculturati, pensai che entrambi si sparlassero rivelando il loro antico mestiere di pecoraio. Un bel giorno capii che il mestiere di pecoraio c’entrava solamente in senso figurato. Bisogna, intanto, sapere che la stazioncina era munita di due segnali di protezione posti a 1200 metri dall’asse del Fabbricato Viaggiatori e che l’illuminazione notturna di essi era assicurata da rispettive lampade a petrolio, rifornite nel turno pomeridiano a cura del manovale di turno, che li raggiungeva con la bicicletta di servizio. Notai che Don Vincenzo (uno dei due di cui ho detto prima) mentre in mezz’ora circa provvedeva alla bisogna del segnale lato Catania, per quello lato Palermo impiegava più di due ore. Notai che un altro manovale impiegava totalmente mezz’ora per ogni segnale. Chiesi a quest’ultimo di chiarirmene la causa. Mi rispose: “ma ci l’avia dittu ca è sauta-fossi”! Fu così che appresi il vero significato di “ricuttaru” e “sauta-fossi”. Il fatto era che Don Vincenzo quando andava al segnale lato Palermo, si fermava al casello lì vicino, dove si intratteneva con la “commare” e faceva “cunnutu” il marito assente. Per “ricuttaru” si intende quindi l’uomo a cui piace spesso andare a donne per fare … la ricotta e per “sauta-fossi” l’uomo a cui piace saltare sulle … fosse delle donne senza “pagari u daziu”, ovvero, senza pagare od incappare nel vincolo del matrimonio. Chiaramente “cunnutu” ha lo stesso significato dell’italiano “cornuto”, con riferimento alle corna che nell’antichità erano simbolo di forza e nel caso in questione, ovviamente ha un significato identico, ma in senso ironico, da assimilare al pecorone, che cornuto è, ma in ogni caso docile componente del gregge. Per l’occasione appresi anche che il termine annaca-pecuri stava a significare un uomo solito a perdere tempo nell’esecuzione delle sue incombenze. Il termine è associato alla figura del pastore che “annaca” (nel senso di portare in giro) le pecore ed ha quindi molto tempo da perdere non avendo altro da fare.
L’altro termine, “bavasceri”, un tempo molto in auge ed ora un poco meno si riferisce all’uomo che è solito frequentare le “bagasce”, ovvero le donne che fanno l’amore per soldi. Termini questi che abbiamo ereditato dagli arabi. Il “bavasceri” , in sostanza è l’uomo che accetta a priori di pagare le donne per non avere complicazioni sentimentali; egli è chiaramente “ricuttaru” e “sauta-fossi” ma con questa sfumatura in più. Cambia donne quando vuole, paga e non intende avere nessun’altra complicazione.
Il cosiddetto “pappuni” (magnaccio in italiano) è colui che sfrutta la prostituzione e che vive dei proventi delle donne che costringe ad esercitare quel mestiere arrogandosi la funzione di protettore. Ovviamente costui fa parte di un giro delinquenziale, su cui la Polizia vigila.
Il termine che voglio evidenziare per il suo significato e per la sua origine è il seguente: “u jetta-acqua”. Appioppare questo termine ad un uomo a Catania significa dire che quest’ultimo è una “cosa” inutile, ovvero un uomo per modo di dire, capace solamente di “jttari acqua” (buttare l’acqua) nel senso di saper fare la pipì solamente. E’ interessante sapere da dove deriva questo detto ed io ve lo racconto così come ce lo raccontò un giorno lo scomparso Turi Ferro quella volta che venne in stazione a prendere il treno per il continente. Esordì dicendo che una volta nel quartiere San Berillo, ora in parte sventrato ed in via di ristrutturazione, le case dove le donne esercitavano il mestiere più vecchio del mondo, erano prive di acqua corrente, ovvero dell’odierno rubinetto. Sicché le donne per esercitare il loro mestiere e contemporaneamente assicurare un minimo di igienicità ai clienti, erano costrette a tenere una vasca d’acqua pulita ed un orcio dove depositare l’acqua utilizzata dopo le abluzioni di rito. Al trasporto dell’acqua pulita con la “quartara” ed alla eliminazione dell’acqua sporca provvedevano dei camerieri, (notoriamente “finocchi” come soleva allora dirsi ed ora diversamente chiamati) pagati dalle donne. Essi venivano chiamati dalle donne i jetta.acqua. Questo termine rimase nel linguaggio catanese con il significato di uomo capace solo di jttari acqua, alludendo a ben altra acqua che quella sporca, vista la personalità di chi quel lavoro eseguiva.
“A TALLARA” DI CATANIA
“U tallaru”, in italiano il Tallero, era notoriamente una antica moneta tedesca d’argento che intorno al 1935 venne anche coniata ed utilizzata in Italia e, quindi, anche in Sicilia. La sua origine è ovviamente molto più antica ed apparve in Germania col termine “Thaler”; è da dire inoltre che l’odierno “dollaro” trae origine etimologica proprio da questo termine tedesco. I motivi della sua fortuna nel mondo furono dovuti oltre alla consistenza economica tedesca, soprattutto al materiale di conio, che era l’argento. Chi catanese non è, sentendo parlare anche di un’altro termine similare che differisce soltanto perché utilizzato al femminile (“A tallara”) potrebbe essere indotto a pensare che nella nostra città, chissà per quale ignota ragione la moneta avrebbe assunto nel gergo il genere feminile. Il che, in effetti non è! “U tallaru” è sempre stata nel nostro dialetto una moneta e “a Tallara” ha un altro significato. Bisogna sapere, per spiegare l’arcano, che successivamente al terremoto che distrusse Catania, il Vaccarini di concerto con il Biscari ed altri architetti procedette alla nuova mappatura della città sulla stessa falsariga di Palermo consistente in una via, l’attuale via Etnea che partendo dal Duomo raggiungesse la Barriera, intersecata perpendicolarmente da altre strade che attualmente sono via Garibaldi, via Vittorio Emanuele e Via Sangiuliano. Inoltre era previsto il piano del Duomo, dove trovò assetto la statua del Liotro e la fontana dell’Amenano ed il successivo Piano degli studi, ovvero l’attuale Piazza Università dove, appunto venne costruito il relativo edificio. Di fronte a quest’ultimo esisteva una vecchia chiesa, che dopo varie vicissitudini, venne espropriata ai monaci ed assegnata alla famiglia dei Paternò Castello, che vi costruì la propria residenza. Per inciso è da dire che oggi questo edificio fa parte degli Uffici dell’Ateneo catanese. Ebbene, secondo la tendenza classicheggiante del tempo, all’ingresso di questo palazzo , all’interno, venne sistemata una bella statua di Cerere. Il tempo passò e la statua rimase lì indisturbata, fino al giorno in cui non venne celebrato il matrimonio tra il Cavaliere figlio Paternò Castello e la contessina di Pullicarini. In quell’occasione si procedette alla ristrutturazione del palazzo, la quale prevedeva la rimozione della statua di Cerere ritenuta disdicevole con i sentimenti religiosi e con il decoro della nuova famiglia. In effetti, la statua pur essendo vestita era un poco discinta ed il Cavaliere per impedire l’insorgere di cattivi pensieri nella giovane moglie di cui era gelosissimo fino al punto che infine la uccise, non la volle nel palazzo. Allora la statua venne trasferita e situata dove attualmente si trova e, cioè, nella piazza del Borgo. Bisogna a questo punto sapere che i cittadini, ormai cristiani, non distinguevano bene le figure e le finalità delle antiche divinità sia maschili che femminili. Per essi quella statua, per di più discinta non poteva essere che la famosa Pallade, la dea dell’amore oppure, molto similmente chiamavano Pallade tutte le antiche divinità femminile. Sta di fatto che fu così chiamata che, in dialetto, suona “A Pallara”. Il passaggio da Pallara a Tallara nel dialetto fu semplice e naturale, sichè a Catania con il termine “a Tallara” si intende la statua che vi è in piazza Borgo e che non è dedicata a Pallade, ma a Cerere. Siccome la Dea Pallade, ovvero a Pallara presso i i cristiani godeva la pessima fama di dea dell’amore sensuale e la statua, tra l’altro mostrava di essere discinta, con il termine “tallara” attribuito ad una donna, si stava a significare che fosse, come dire, di facili costumi. Quindi quando a qualcuna viene attribuito questo termine a Catania non significa che è bella come Pallade, ma che è poco per bene. Molto probabilmente in altre parti della Sicilia, diverse da Catania, si sconosce l’esatto significato di “Tallara”.
LA SACRALITA’ DELLE CORNA
Parlando della Tallara, ho citato la triste storia della famiglia Sangiuliano un cui esponente si macchiò di uxoricido. Di questa vicenda io ne ho parlato nel mio libro “ILARIA e CATANIA, edito da Akkuaria. Adesso continuo a parlarne, per affermare intanto che il cosiddetto “femminicidio”, come usa chiamarsi adesso, nella nostra Catania esisteva. E come se esisteva! Il motivo era sempre lo stesso dei nostri giorni: la gelosia, meglio definita “la paura delle corna” . Sembra che l’essere marchiato dal titolo di “cornuto” allora in Sicilia, come adesso, fosse un disonore da non potere sopportare. Sarebbe più logico vituperare la donna fedifraga e magari ripudiarla, come erano soliti fare i Romani, ma in Sicilia no, essere cornuto significa mettere in dubbio le proprie doti di “maschio” e questo è un disonore da lavarsi con il sangue. Ricordo a tutti il dramma della Cavalleria Rusticana di verghiana memoria, dove per l’occhio della gente, cumpari Alfio ammazza a cumpari Turiddu. Non a caso ho ricordato anche questa novella del Verga. In effetti, l’espressione di “fare le corna” è nata proprio in Sicilia e proprio qui da noi ha quel significato profondo che forse altri popoli sottovalutano.
La colpa di siffatto modo di pensare ha un’artefice: Diodoro Siculo e la storia da lui raccontata. Egli nelle sue descrizioni storiche permeate di avvenimenti mitici e di personaggi fantastici, tra la altre cose, si peritò di raccontare le imprese eroiche di Eracle, ossia, Ercole. Era costui un semi-dio, ossia un uomo dai poteri straordinari che gli pervenivano dall’essere nato dall’amore di una divinità con un essere umano. Insomma un eroe da paragonare ai personaggi fantastici dei nostri fumetti. Nulla di nuovo sotto il sole da questo punto di vista: oggi i super eroi sono degli alieni, una volta erano semidei! Ebbene, Diodoro Siculo racconta che Eracle non appena giunse in Sicilia per la prima volta, dove approdò nei pressi della fonte di Aretusa, a Siracusa, per ringraziare gli Dei e rendersi amiche le divinità locali sacrificò a Ciane e ad Anapo un toro dalle corna maestose, che adornò di fiori. Dal momento che Ciane ed Anapo, come Aretusa e d Alfeo, rappresentavano l’amore coniugale che dura eternamente, da questo episodio nacque nella nostra isola il rito di sacrificare il giorno delle nozze a cura dei novelli sposi un toro con le corna addobbate e da essi toccate sull’altare nel simbolico gesto di amore reciproco ed eterno. Ecco, dunque, che l’unione tra i due sposi, con le corna fiorite di un toro tra le mani assumeva una sacralità, che non poteva essere tradita. Si in Sicilia le corna sono sacre, come Ercole sancì. Faccio notare che quest’ultimo sacrificò il toro non alla coppia Alfeo-Aretusa, ma alla coppia Anapo-Ciane. Questo perché il loro rapporto d’approccio fu diverso. Aretusa fuggiva quando Alfeo la rincorse e la fece sua. Ciane non fuggiva, anzi era prostrata, quando Anapo la raggiunse e la fece sua consolandola. Questa considerazione non fa che dar maggior forza alla faccenda della sacralità delle corna che devono sempre restare uniti a mezza luna sulla testa del toro. Ecco, dunque che fare le corna al coniuge assunse, appunto, il significato di rompere quest’arco reso sacro dal rito. Essendo noi siciliani esportatori di cultura, abbiamo esportato in Italia e nel mondo l’espressione “fare le corna”, ormai a tutti nota, ma certamente non tutti sanno questa curiosità di Ercole e del toro, scaturita dal racconto di Diodoro Siculo ed il motivo storico per cui le corna hanno assunto un’importanza così altamente … importante nella nostra Sicilia.
DUCEZIO, PRIMO EROE DELLA SCILIANITA’
Quando per la prima volta mi recai a Noto, abbagliato dal suo famoso barocco, legato al classicismo romano, e sentii parlare del Palazzo “Ducezio”, pensai subito ad un personaggio dell’antica Roma. Quale non fu la mia grande sorpresa, quando scoprii che questo personaggio nemmeno conosceva l’esistenza di codesta grande città. A fuorviarmi fu naturalmente la parola Ducezio che io collegai al latino dux-ducis. Dopo le opportune ricerche, arrivai alla conclusione che forse il termine latino derivò dal suo nome o che comunque un qualche legame etimologico preesistesse tra le due parole.
Chi era, dunque “Ducezio”? Ho scoperto con mia somma soddisfazione che si trattava del primo eroe nazionale del popolo siciliano. Possiamo dire che il partito indipendentista siciliano, quello della Trinacria con il faccione e le tre gambe, affonda le sue radici nella sua figura e che quindi esista un filo conduttore tra questo personaggio e le future tendenze autonomiste del popolo siciliano
I PRIMI VAGITI DELLA SICILIA
La tradizione, confermata da Tucidide, vuole che i primi ad abitare intorno al 1300 A.C. la Sicilia fossero i Sikani, provenienti dalle coste dell’attuale Spagna, e successivamente, come riferito da Diodoro Siculo, i Siculi, provenienti dalla Liguria o dalla Calabria ed in ogni caso dalla penisola italiana. Questi ultimi che prevalsero e si fusero con i primi, dettero non solo il nome di Sicilia a tutta l’isola, ma anche il nome e l’origine al popolo siciliano come primo elemento aborigeno di questa terra amata dai Greci, che furono solamente degli invasori. In effetti i più recenti dati archeologici fanno pensare che ancor prima la Sicilia fosse abitata da altre popolazioni e che diversa fosse la provenienza dei Sikani e dei Siculi. Per quanto concerne quest’ultima ipotesi sembra che siano state scoperte tracce di un popolo Siklesch, noto anche presso gli Egizi, originario della Mesopotamia e dedicato al nomadismo ed alla marineria. Poiché il primo impulso dell’umanità nascente fu certamente il nomadismo non essendovi le cognizioni idonee a sfruttare a lungo le risorse del territorio, sicuramente questo popolo, attraverso l’espansione in tutta l’Europa, raggiunse la Spagna e l’Italia e da questi luoghi successivamente la Sicilia con le diverse caratteristiche ambientali acquisite. E’ certo quindi che il nome Sicilia deve la sua origine ai Siculi e significa esattamente Terra dei Siculi, da qualunque parte essi siano arrivati nell’isola.
Secondo la mia personale opinione, penso che la Sicilia fosse di già abitata da altre popolazioni delle quali non abbiamo cognizioni, ma che comunque dovettero esistere partendo dalle seguente considerazioni. Prima che l’area del mar mediterraneo assumesse l’attuale assetto (parlo di milioni di anni fa) pare che tutta l’area fosse un’immensa fossa piena d’acqua, il cui fondo era al di sotto del livello del mare. Qualche cosa come l’odierna area del mar Caspio. Appunto sulla falsariga di quello che sta avvenendo nel mar Caspio, che di anno in anno vede lentamente decrescere la quantità delle sue acque, la stessa cosa pare sia avvenuta per l’area mediterranea, che, alla fine, quando l’attività termica del sole ebbe completata la sua opera, si ridusse ad una immensa estensione di terreno dove, flora, fauna ed uomini poterono facilmente circolare dal Nord al Sud e da Est ad Ovest. Che ciò sia sicuramente avvenuto, due leggende ce lo confermano: Il mito di Polifemo, il mostro con un solo occhio, nato dal ritrovamento in Sicilia di teschi enormi con un solo foro, appartenuti ad una specie di elefanti nani estinti nell’isola, ma sviluppatisi in Africa ed inoltre la leggenda delle ossa del Drago di San Giorgio, ritrovati a Siracusa, che in effetti sembrano essere appartenuti ad un coccodrillo, ormai scomparso da noi ma esistente in Africa. Del resto anche la flora nord-africana ha molti elementi comuni a quella isolana. La conclusione è che certamente le specie umane precedenti all’uomo Sapiens e lo stesso homo sapiens abbia avuto modo di abitare in quest’area. Successivamente, la depressione, dovuta alla mancanza d’acqua, causò una enorme frattura lungo la placca continentale dell’Eurasia e quella Africana che va dall’isola di Santorini in Grecia al Vesuvio ed anche alle Baleari spagnole, dando luogo a tutti i vulcani che in parte esistono ed in parte si sono estinti ed al corrugamento della crosta terrestre che originò la catena montuosa degli Appennini e dei Carpazi, nonché delle Alpi. Ovviamente il movimento orogenetico e la continua espulsione di materiale lavico di questo periodo, dette luogo a sconvolgimenti territoriali e terremoti nonché fratture anche a livello terrestre; la più rilevante di queste fratture fu sicuramente quella che provocò la rottura della striscia di terra che collegava La Spagna all’Africa, corrispondente all’attuale stretto di Gibilterra, consentendo alle acque dell’Oceano Atlantico di invadere l’area mediterranea. Fu così che venne fuori l’attuale situazione del mar mediterraneo, con la penisola italiana e tutte le infinite isole del mar Egeo , non escluse le isole maggiori, Corsica, Sardegna e Sicilia, le quali continuarono quindi ad evolvere i vecchi elementi di vita ed a modificarli in relazione al mutato ambiente climatico.
DUCEZIO E LE PRIME INVASIONI
Per ritornare al nostro Ducezio, poiché non è possibile retrodatare l’esistenza di altri popoli se non basandoci su leggende e deduzioni logiche, prendiamo come base certa le affermazioni di Tucidide e Diodoro Siculo ed ammettiamo che dalla fusione dei Sikani e dei Siculi, ne venne fuori una popolazione con caratteristiche ben precise che caratterizzò tutta l’isola al punto di darle il nome che anche oggi ha: Sicilia. Il nostro personaggio era, quindi, un aborigeno della Sicilia, un vero figlio genuino del primo popolo siculo. Oggi diremmo un siciliano doc, cioè, un puro sangue, di quelli che nulla avevano a che fare con le altre popolazioni del mediterraneo di allora.
Quando ormai i Siculi si erano insediati da tempo, fondando agglomerati umani e sfruttando le risorse agricole dell’isola dando impulso ad attività che incominciavano a caratterizzarlo, avvennero dei fatti nuovi, legati all’espansione di altri popoli nell’area mediterranea. Parlo delle invasioni. I popoli che fondamentalmente dettero luogo a queste nuove evenienze furono due. Il popolo Greco e quello Fenicio. I Greci, costretti a vivere in un terreno montagnoso ed avaro di risorse volsero la loro attenzione al mare ed all’attività guerresca. Essi erano nella necessità assoluta di conquistare altre terre, di sottometterle e di farle diventare greche; pertanto volsero le loro attenzioni sia ad oriente che ad occidente. In un primo momento guardarono il vicino oriente cercando di penetrare nel mar Nero e colonizzare le coste dell’attuale Turchia, ma incontrarono la fiera opposizione di un altro popolo in espansione, quello degli Ittiti. (Le vicende di questo tentativo in chiave poetica e mitologica ci è stata tramandata dagli Aedi greci e da Omero.) A Sud, forse non pensarono nemmeno di andarvi per la presenza dei potenti Egiziani. A loro non restava che guardare ad occidente, dove incontrarono la Sicilia, che battezzarono Trinacria per la sua forma triangolare e nonostante i furori dell’Etna, la trovarono confacente alle loro necessità. Pertanto iniziarono tutta una serie di sbarchi e conquiste fondandovi città greche che assunsero sempre più una preponderanza politica sull’isola. Lo scopo finale dei Greci era quello di conquistare tutta l’intera isola. Per questo, laddove arrivavano, cacciavano le precedenti popolazioni ricorrendo anche al genocidio. L’altro popolo che si trovò in competizione con i Greci, fu quello Fenicio, che muoveva dalle coste dell’attuale Libano. I Fenici, limitati anche loro dalle popolazioni dell’entroterra, volsero le loro attenzioni all’area sud-occidentale del mediterraneo ancora non raggiunta dai Greci. Le loro intenzioni erano diverse da quelle dei Greci. Essi cercavano solamente dei sbocchi commerciali per lo scambio delle loro merci. Erano dei mercanti, ai quali non piaceva fare guerre ed anzi intavolavano dei buoni rapporti con la popolazioni aborigene. Solo successivamente per difendersi dalle mire espansioniste greche furono costretti a munire i loro porti di opere militari. Essi fondarono dapprima Cartagine in Africa e poi da lì si mossero verso la Siclia fondando Palermo, base e supporto per lo sviluppo delle loro attività commerciali nel Tirreno. In verità un terzo popolo trovò modo di stabilirsi in Sicilia, quello degli Elimi. Quest’ultimi, spinti dalle pressioni interne degli Ittiti e vessati dai Greci, fuggirono letteralmente dalle coste della Turchia, laddove vi era l’antica città di Troia, e trovarono rifugio nell’estrema punta occidentale della Sicilia, nell’area di Trapani, Marsala ed Erice.
Come è possibile vedere da questa ricostruzione storica delle prime invasioni, il popolo aborigeno dei Siculi, si vide minacciato sulle coste ad oriente dai bellicosi Greci, assetati di conquista, a Sud pressato dai Punici, che trovata una pacifica convivenza con gli Elimi, erano stati costretti ad impugnare le armi diventando anche loro pericolosi. Non restò altro spazio ai Siculi, che trovare rifugio all’interno della Sicilia ed ecco nascere i primi agglomerati prettamente siculi di Morgantina, Pantalica ed altri centri minori dove era più facile difendersi dagli invasori. Un esempio di questa penetrazione all’interno è anche la cittadina di Butera, così chiamata appunto, dal nome di Bute, suo fondatore e mitologico re siculo.
Questa, dunque la situazione geo-politica nel 459 A.C.: I Siculi al centro e tutt’intorno gli scontri prima tra Cartaginesi e Greci e poi anche tra le stesse città Greche, Siracusa, Gela, Segesta, Selinunte, Agrigento , Imera ed altre. Fu proprio in quel momento storico in cui le città greche, rintuzzate dalle armi difensive dei Cartaginesi, manifestando una certa debolezza, che Ducezio, rappresentante indiscusso e capo delle popolazioni sicule insorse contro gli invasori. Egli si sforzò di raggruppare tutti i Siculi, fondò addirittura un nuovo stato con capitale Palikésui monti Palici e lottò strenuamente contro gli invasori della sua terra. Alla fine fu fatto prigioniero dai Greci ed estradato a Corinto, dove fini i suoi giorni. Attenzione, quindi a non confondere Morgantina, Pantalica, Paliké come prodotto della civiltà Greca, Cartaginese e romana. Esse sono delle vere perle della civiltà sicula aborigena, cioè, di un popolo che aveva una evoluzione sociale propria in tutti i campi, dove emergeva il reale aspetto della sicilianità, alla quale gli invasori si adeguarono pur apportando il loro contributo postumo. E’ forse questa la magia della Sicilia, quella di trasformare in siciliani tutti i suoi futuri invasori. Se, infatti andiamo a fare una ricerca etimologica di tutti i cognomi esistenti in Sicilia e delle sue località, scopriamo in essi, oltre che nel linguaggio dialettale, le radici latine, tedesche, inglesi, arabe e di tutti i popoli del mondo. Siamo forse “anticchia ‘mbastarduti”, ma sempre solo siciliani con il nostro orgoglio, le nostre tradizioni e la nostra sicilianità.
STRATEGIA DI DUCEZIO
Se si pensa che Ducezio sia stato un personaggio di modeste proporzioni e che la sua azione sia stata quanto mai di poco conto, ci si sbaglia: fu una vera spina nel fianco dei Greci d’origine Dorica, quelli che, in effetti in quel tempo dominavano la nostra isola. Egli, già nel 460 A.C. organizzò la ribellione dei Calcidesi catanesi contro i Dori di Siracusa. Il disegno politico di Ducezio era quello di cacciare tutti gli invasori e per ottenere tale scopo sfruttava ogni occasione per suscitare malcontento e ribellione. Nulla di nuovo sotto il sole, anche se con diverse strategie. Oggi abbiamo Grillo che contesta tutti, ma rifiuta alleanze con altri partiti. Ducezio non andava per il sottile; attaccava tutti ma non rifiutava alleanze e connubi con le frange contestatarie dei nemici dichiarati. A Catania, appunto vi era una situazione particolare.
BREVE STORIA DI CATANIA – CENNI SUL TERRITORIO
Come è ormai risaputo ed accertato, Catania è stata fondata da una colonia di Calcidesi d’origine ateniese. Essi, in verità sbarcarono più a Nord a Naxos e da lì procedettero verso Sud, fermandosi alle falde dell’Etna, dove fondarono Katane, ossia, l’attuale Catania. Non si spinsero oltre poiché il territorio era già stato colonizzato dai Dori che avevano fondato Siracusa e Leontini. La città di Katane era quindi una città greca, abitata da Greci, poiché gli aborigeni siculi erano stati cacciati all’interno. Anche le leggi erano quelle greche, dettate da un certo Caronda, diventato catanese d’adozione ed ancora adesso ricordato. La città viveva serenamente alle prese solamente con i tremori e le eruzioni dell’Etna, finché nel 476 A.C. , il tiranno di Siracusa Gerone nella sua frenesia di conquista, non la sottomise; deportò i Calcidesi di Katane nel territorio di Leontinoi e li sostituì, con circa diecimila tra Siracusani ed altri Dori, cambiando anche il nome della città in Aetna. In effetti nel 460 AC, dunque, Ducezio aiutò i Calcidesi (greci) a ritornare nel territorio di Katane, cacciandone fuori i Dori Siracusani (greci) e ripristinando le leggi di Caronda. Come un torrente in piena Ducezio riuscì a tenere tutti sotto scacco finché alla fine i Dori, per niente osteggiati dagli Ateniesi di Pericle, temporanei alleati dei Siculi, riuscirono ad immobilizzarlo. Infine qualcosa fecero gli Ateniesi dopo, ma la loro flotta, forte di circa duecento navi, fu distrutta nel porto di Lògninae Dionisio, successore di Gerone, deportò definitivamente gli abitanti di Katane, la quale da questo momento entrerà nel raggio d’influenza di Siracusa, condividendone la sorte fino alla conquista romana da parte del console Marcello, che segnò anche la definitiva resa di tutta l’isola a Roma.
Ho citato il porto di Lògnina. Con il tempo il termine Lògnina ha subito la variazione in Ognina, che non solo ha perso la L , ma anche … il porto. Per quanto possa sembrare assurdo, a quei tempi il porto di Catania non era quello che abbiamo oggi. Quest’ultimo non esisteva ed il litorale della Plaia, tutto composto di sabbia, si estendeva dalla foce del Simeto fino a Cannizzaro; la costa rocciosa dell’Armisi non esisteva.; la stazione ferroviaria non c’era e dove adesso vi è il quartiere di Ognina, vi era l’estuario di un grande fiume, il Lòngane, che costituiva il porto naturale di Catania. A modificare tutta la fascia costiera ha provveduto l’Etna. L’ultima colata lavica scendendo dai monti rossi, ha coperto non solo il litorale, dove è stato possibile costruire tra le rocce l’attuale porto, ma anche la baia dove sorgeva sul mare l’attuale Castello Ursino, diventata così Piazza Federico di Svevia! Una precedente colata lavica aveva coperto il fiume Lòngane ed il suo estuario lasciando al suo posto una piccola insenatura, corrispondente all’attuale porticciolo di San Giovanni Li Cuti.
Dire, quindi, che l’Amenano sia l’unico fiume fantasma di Catania non è esatto. I fiumi fantasmi di Catania sono due, poiché l’altro è il Lòngane. Tutti i Catanesi sanno che l’Amenano, nato forse nei pressi di Randazzo, è stato coperto dalla lava dell’Etna ed alla fine, dopo la ricostruzione seguita al terremoto, anche dagli uomini, che gli hanno dedicato il monumento dell’ acqua a linzolu. Forse pochi hanno sentito parlare del Lòngane, che sembra scomparso, ma che in effetti sversa ancora la sua acqua dolce sotto il litorale roccioso di Ognina. Il Longane nasceva esattamente alla Barriera, dove vi sono i due Obelischi, che nonostante i lavori di ampliamento della strada sono rimasti lì. Se si ha l’attenzione di guardare attentamente nella piazza vi è un abbeveratoio, che adesso non ha più acqua. Ebbene lì vi era la sorgente del Longane, che attraversava il territorio di Leucata, del Canalicchio e di Picanello, allargandosi infine nell’estuario di cui ho detto prima. Chiaramente il territorio del Canalicchio si chiama così perché in esso scorrevano le acque di questo fiume. L’Etna ha pensato a ridimensionare il tutto, costringendo il corso d’acqua a scorrere sotto il manto roccioso della lava fino a raggiungere il mare. Che questo porto di Lògnina fosse immenso, oltre che dalle notizie storiche che lo ricordano capace di ospitare più di duecento vascelli spagnoli, lo si può notare dalla considerazione che via Porto Ulisse era uno dei suoi moli collegato alla terra. Chi conosce Catania sa che questa via è quasi attaccata all’attuale piazza Duca di Camastra
Il capolavoro di Killer fluviale l’Etna lo ha compiuto con la distruzione del fiume Aci. Per chi non lo sapesse, la mitologia racconta che dalle pendici dell’Etna scorreva un enorme fiume, appunto Aci, che sversava le sue acque a delta a Nord di Catania. L’Etna ha avuto il potere di annullarlo molto probabilmente con una implosione che ha creato la cosiddetta valle del Bove. Laddove scorreva il fiume è nata la città di Acireale e tutte le altre località che hanno preso il nome dei singoli rami del delta. Se si va a cercare nel sito tra i miei miti classici, è possibile leggere una mia poesia in vernacolo, dove si racconta l’eccidio mitologico di Aci e Galatea. Inoltre nel mio libro “Ilaria e Catania”, edito da Akkuaria, descrivo molto più dettagliatamente il lavorio dell’Etna sul territorio catanese.
FIUMI DI SICILIA
Avendo parlato dei fiumi fantasmi di Catania e di un altro, l’Aci, definitivamente morto anche se vivo nei ricordi e nella realtà urbanistica, non posso non ricordare un altro fiume che ha subìto con poco danno le angherie dell’Etna; parlo dell’Alcantara. In verità oltre a quest’ultimo, un altro fiumiciattolo siciliano è stato arpionato dall’Etna, che ha dato addirittura il nome al comune di Fiumefreddo di Sicilia (Ciumifriddu). Questo fiume, che si chiama appunto Fiumefreddo, scorre tra i territorio dell’omonimo comune e quello di Calatabiano; esso raccoglie le acque che vengono giù dal vulcano, che con la sua lava è riuscito a costringerlo a dei percorsi sotterranei; motivo per cui appunto le sue acque riescono a venir fuori a temperature fredde rispetto a quella ambientale. Grazie a questo tipo di ambientamento le sue acque ed i territori circostanti ospitano una fauna ed una flora molto varie. La vera curiosità consiste nel trovare in queste acque le piante di papiro, tipiche del fiume Ciane di Siracusa e del Nilo dell’Egitto. Sulla presenza in Sicilia di questa pianta tipica egiziana molti fiumi dì inchiostro sono stati scritti. Alcuni considerano che un tempo la Sicilia fosse sede di vegetazione spontanea del papiro, mentre altri sostengono che invece sia stato importato in tempi molto remoti, proprio dall’Egitto. Ma il fiume veramente eroico e vincitore nei confronti del vulcano è l’Alcantara. Nasce dai Nebrodi e costeggia le falde a Nord dell’Etna di cui raccoglie anche le acque di scolo e di altri torrenti prima di sfociare nel mare Ionio tra i territori di Catania e Messina. E’ il percorso di questo fiume a rilevare la sua eroicità ed il suo trionfo sull’Etna, che coprendolo di lava fuoruscita dalla bocca effusiva ormai spenta del monte Moio, non gli ha impedito di scavare nelle rocce dei canaloni alti anche più di dieci metri, dove l’acqua scorre in fondo vorticosa stagnando di tanto in tanto in rogge e laghetti intermedi, scolpendo degli scenari stupendi sulle millenarie pareti laviche corrose. Anche se i Greci e poi i Romani lo chiamarono diversamente, alla fine il nome definitivo Alcantara venne dato dagli Arabi, che testualmente significa il fiume del ponte (Al qantar)
Degli altri fiumi di Sicilia, c’è da dire ben poco essendo dei torrenti più o meno tortuosi che non hanno particolari caratteristiche, tranne uno: il Mazara. Lo cito poiché ha una foce ad estuario grandissima e come la foce del Lòngane, forma un grande porto che si apre sul Canale di Sicilia sulle cui sponde è nata la cittadina di Mazara del Vallo, dove “si sente” come non mai la influenza arabo-africana. Del resto Mazara è un termine prettamente marinaresco del mondo arabo ed equivale a porto, esattamente come la vicina Marsala. “A mazara” altro non è che il sistema di ancoraggio di una barca nel mare. “Ittari a mazara” significa buttare fuori bordo una grossa pietra legata ad una corda per ancorare la barca e non farla trascinare dalle correnti. Da ciò si capisce l’attinenza con il termine porto, dove, appunto, le barche “jettanu a mazara p’attraccari”, come suole anche dirsi. Chissà se avete mai qualcuno dirvi: “ma chi si’ na mazara”? Ebbene costui ha voluto semplicemente dirvi che siete molto lento, un vero sistema frenante nell’agire, esattamente come quello delle barche ferme in mezzo al mare.
VECCHIA RIPARTIZIONE AMMINISTRATIVA DELLA SICILIA
Sono tentato di parlare del Simeto e dei suoi due affluenti Dittaino e Gornalunga, ma preferisco rimandare le notizie a quelle già note nei libri di testo scolastici. Ma la curiosità che mi viene alla mente è un’altra a proposito di Mazara del Vallo e della cittadina di Noto. L’attuale dislocazione geografica-amministrativa prevede, ancora per poco, la ripartizione del territorio in province in odore di estinzione per dar luogo alle aree metropolitane. Un tempo tutta la Sicilia era suddivisa non in province ma in tre grosse zone corrispondenti ai lobi delle tre punte della Trinacria: la Val di Mazara ad occidente, la Val di Noto al Sud-oriente e la Val Démone a Nord-oriente. Credo che tale ripartizione amministrativa fosse d’origine araba e poi conservata dai Normanni. La considerazione che ne scaturisce è che le ripartizioni amministrative del territorio di una nazione non sono del tutto definitive; anche loro fanno parte del “divenire” evolutivo del mondo politico e delle nuove esigenze ambientali. Direi che anche le ripartizioni nazionali degli stati sono soggetti a codesto “divenire”, come abbiamo assistito recentemente in Europa ed in Asia con la Jugoslavia e con l’ U.R.S.S.
CATANIA E L’ACQUA
A forza di parlare di fiumi e di acqua, mi vengono alla mente alcuni modi di dire curiosi e tipici del nostro dialetto. Ad esempio, a Catania, a forza di cercare le origini dei fiumi fantasmi Amenano e Longane è nato il detto di “iri a testa di l’acqua”, che poi nel linguaggio comune ha preso il significato di trovare il bandolo della matassa di un problema intricato. Addirittura a Catania, un intero quartiere, implicato nella ricerca da “testa di l’acqua” del Longane, ha preso il nome di “Cifali”, che, appunto, deriva dal l’antico termine Kefai (testa). In verità con la tendenza rinascimentale di dare una veste classica al nostro mondo, il quartiere viene chiamato anche “Cibali”; anzi ,nel linguaggio italiano viene preferito il termine “Cibali” a “Cifali”. Questo perché si ebbe la pretesa di aver trovato in loco dei ruderi ritenuti appartenere ad un ex santuario di Cibele, vecchia divinità sicula. Ma nel dialetto catanese, si preferisce “Cifali” o “Cifuli”. Sentirete sempre dire ad un catanese, quando parla in vernacolo: “staiu jennu a Cifuli”, mentre se vuole darsi l’aria di essere istruito dice: “sto andando a Cibali”. Ovviamente gli abitanti del quartiere sono chiamati “cifaloti” senza ricorrere ad altri italianismi. Sempre parlando di acqua, questa volta quella potabile, e del quartiere di Cifali o Cibali mi viene alla mente il termine di un recipiente caratteristico della nostra città: “u bummulu”. Chi non sa che cos’è “u bummulu” a Catania? Io vi rispondo: mio nipote, al quale ho dovuto spiegare il significato di questa parola. Ma i catanesi della mia generazione e di quelle precedenti sanno benissimo il significato ed il valore di questo recipiente, che ha il potere di mantenere fresca l’acqua nonostante la calura esterna. Or non è guari, come si direbbe per adeguarci ad un linguaggio forbito italiano, era possibile trovare nei cantieri edili il “bummolo”, regolarmente turato, ma con un buco nella parte panciuta e centrale per consentire a tutti di bere a garganella evitando il contatto delle labbra. Che cos’era dunque il bummolo? Un recipiente in argilla a forma di grossa bottiglia allungata, panciuta e fornita da due manici ad orecchio in alto. Esso veniva fabbricato nei “stazzuni di Cifuli” ed anche in quelli da “Za Lisa”(altro quartiere di Catania) con dell’argilla che veniva cotta in speciali forni artigianali. Chiaramente nei “stazzuni” venivano elaborati altri tipi di recipienti sempre in terracotta, come ad esempio le cosiddette “quartare”, usate per il trasporto dell’acqua o le “giare” usate per la conservazione dell’olio ed altri cibi in salamoia, nonché dei manufatti edili come i mattoni e le cosiddette ciaramite(canali). Ma la terracotta usata per i bummuli aveva una caratteristica tecnica. All’argilla, prima di formare il manufatto, veniva aggiunta una manciata di sabbia del Simeto. Con la cottura succedeva che la “pelle” del recipiente diventava porosa in maniera infinitesimale a causa dello scioglimento dei piccolissimi solfuri di ferro contenuti nella sabbia. Questa tecnologia consentiva all’acqua del recipiente di “respirare” e quindi di mantenersi fresca. Da quanto sopra detto emerge quanto importanti fossero per l’economia isolana questi “stazzuni”, veri opifici di un’arte antica, dove l’argilla trovava il modo di essere ingegnosamente lavorata ed impiegata nella costruzione di manufatti d’ogni tipo.
Avendo citato un altro quartiere di Catania, “A Za Lisa”, non posso non spendere alcune parole che lo riguardano. Questo singolare nome costituisce una vera curiosità. Esso è situato nella zona Sud della città ed ai tempi degli antichi romani era all’esterno della cerchia muraria ovviamente non urbanizzata. Sembra che un ramo dell’Amenano, che aveva una foce a delta, proseguisse fin lì consentendovi una intensa ed ubertosa coltura agricola. Per questo motivo la zona era chiamata in latino “Latia elisia” (pianura paradisiaca appunto per la sua ubertosità). Premesso che la t latina in volgare assunse il suono della zeta, ne venne fuori il termine storpiato in siciliano “Za Lisa”. Nulla di strano che in seguito vi si sia installato qualche fondaco battezzato “chiddu da Za Lisa”.
IL PRIMO POLITICO LADRONE IN SICILIA: VERRE
Oltre ad aver avuto un primo eroe nazionale (Ducezio), la Sicilia vanta di aver avuto un primo grande ladrone in guanti gialli, cioè, un primo uomo politico o pubblico amministratore regolarmente designato, che in virtù dei poteri a lui conferiti pensò bene di arricchirsi alle spalle del popolo siciliano. Chi fu costui? Un governatore romano che corrisponde al nome di Verre.
E’ da dire che Greci, Cartaginesi ed Elimi e successivamente gli Arabi ed i Normanni non pensarono mai di estorcere denaro ai Siculi per trasferirlo alle loro patrie d’origine. Essi, abbandonando la madre patria, pur mantenendo con essa dei buoni rapporti, avevano in animo di costituire degli stati nuovi indipendenti e sovrani o scacciando gli aborigeni od assorbendoli nelle loro file. Questo significava che i beni restavano siciliani con la differenza che il popolo non era più quello originario, ma quello variegato e misto ai nuovi elementi. Indubbiamente questa mentalità trovò dei risvolti positivi nel campo dell’economia, anche perché le leggi greche, tutto sommato, erano buone e rispettose della dignità umana. Quelle di Caronda catanese, ma greco d’origine, sono un esempio di questo stato di cose ed inoltre bisogna tener conto che alla fine i Greci, ottenuto il sopravvento su tutti gli invasori della Sicilia e, passata la bufera della guerra peloponnesiaca trasbordata nell’isola, cominciarono a sentirsi più siciliani che greci e a dare il proprio contributo per la crescita dell’isola. Il mondo agricolo, corroborato dagli scambi commerciali e dalle attività artistiche, trasformò le città, che possiamo ormai definire siciliote, in centri propulsori di cultura e civiltà. Fu a questo punto che i Cartaginesi vennero in contrasto con l’espansione romana. La fine delle guerre puniche vide il trionfo di Roma ed ebbe, come conseguenza la conquista da parte di quest’ultima dell’intera Sicilia. Con la caduta di Siracusa, filo-cartaginese ed ultimo baluardo della cultura ormai greco-punica o siciliota, Roma si impossessò di tutta l’isola. Com’era nel costume, venne estesa la cittadinanza romana anche alla Sicilia. Si potrebbe pensare che l’evento sarebbe stato di utilità al popolo conquistato, diventando esso stesso parte della grandezza romana. A lungo andare i vantaggi effettivamente ci furono, poiché i commerci ed i rapporti con gli altri popoli del mediterraneo furono facilitati producendo ricchezza. Ma il dato tangibile fu che la Sicilia perdette la sua indipendenza, diventando, di fatto, una provincia dell’impero e, come tale, tributaria di Roma, dove, notoriamente, come veniva anche denunciato nel “De bello jugurtino” (Guerra contro Giucurta), nonostante lo “Ius” (Diritto) fosse di casa, “Romae omnia venalia est”. (A Roma ogni cosa ha un prezzo) A prescindere da questa considerazione purtroppo vera poiché le cariche pubbliche avvenivano per “commendationes” (altro nome delle raccomandazioni direttamente concesse dall’imperatore previo pagamento), quello che forse non digerirono molto i siciliani fu l’imposizione fiscale per il mantenimento burocratico dello stato. I soldi dei tributi versati dai singoli, andavano a finire nel calderone amministrativo della “Res pubblica” romana per il mantenimento delle milizie e degli apparati burocratici. Dopo la conquista, Roma pensò bene di recuperare le spese sostenute per le guerre a carico dei siciliani, particolarmente ricchi perché produttori di grano ed anche di materiale boschivo. Essa ultimò la distruzione di quest’ultimo già iniziato dai greci, per la costruzione delle loro navi, allora di legno, e per aumentare le aree di coltivazione agricola da assegnare ai veterani; non disdegnò nello stesso tempo di appropriarsi delle opere d’arte più significative costruite dai Greci. Ho letto da qualche parte che il console romano Valerio Messalla, giunto vittorioso a Catania, prelevò dalla piazza principale antistante le terme un horologium solare a meridiana che troneggiava laddove ora vi è il Liotro e lo trasferì a Roma, nonostante la diversa indicazione oraria dovuta alla latitudine, che ne vanificava l’uso. Il monumentale orologio, che adesso trovasi a Roma, per la precisione, fu caricato su una nave romana da carico alla fonda nel porto del Longane, che allora esisteva e che scomparve solo dopo l’eruzione lavica del 1381 D.C. (Quasi ieri!)
Per inciso ricordo che la successiva eruzione arrivata fino al mare e che prosciugò il cosiddetto Lago di Nicito, alimentato forse dall’Amenano, e che sommerse anche “il seno” in cui sorgeva circondato dal mare il Castello Ursino, così chiamato appunto per la deformazione del nome dato dei catanesi di “ casteddu o sinu” (castello del seno), ebbe luogo nel 1669. In passato pare che l’Etna abbia devastato Catania quasi ogni trecento anni, facendo seguire le eruzioni da terremoti abbastanza consistenti. Si spera che ciò non avvenga per il futuro.
Ma evidenziamo intanto che la grande jattura per il popolo siciliano allora fu Verre. Come nella prassi, l’imperatore romano sceglieva un governatore per ogni singola provincia conquistata. Alla stessa maniera come fu anche fatto con Pilato, che riscuoteva tributi, faceva leggi ed amministrava giustizia in nome dell’imperatore in Giudea, la stessa cosa avvenne in Sicilia con Verre. Egli, come suol dirsi, aveva carta bianca. Nel senso che agiva nel nome e per conto dell’imperatore senza dover dar conto ad alcuno del suo operato. Ma fu talmente vorace ed ingordo da suscitare il malcontento dei “Patres conscripti” ovvero del Senato Romano. Io sono comunque portato a pensare che una frangia di essi non riuscì a mettere le mani sulle ruberie da lui perpetrate e per questo lo mise sotto accusa. Sta di fatto che l’avvocato Cicerone, anche lui senatore, riuscì a farlo condannare ed a mandarlo in esilio. Fu proprio Cicerone, quello che fece anche condannare Catilina, a sventare le malefatte di Verre, Certamente vere furono le ruberie di questo governatore romano, ma sono convinto che tutto venne a galla per il fatto che una parte del senato non riuscì a partecipare al “businessu”, come avrebbe detto mio nonno. Insomma, la solita faida politica, di cui Roma, nella sua crescita, non fu di certo immune. Verre si vantava anche delle sue ruberie ed era anche solito dire che lui rubava per tre: per sé, per pagare i suoi avvocati e per l’imperatore. Senza tanti scrupoli, non ometteva di spogliare i templi siciliani di statue ed oggetti preziosi per adornare le sue ville ed i templi romani. Ma il suo capolavoro fu la raffinata architettura burocratica che legalizzava le sue ruberie e contro cui nulla potevano i derelitti siciliani doppiamente vessati negli averi e nella libertà imposta militarmente. I legionari a sua disposizione, oltre a prelevare i tributi legalmente imposti da lui, si comportavano da veri malfattori ed aguzzini in operazioni banditesche e di sopraffazione. Per il solo fatto di averne l’autorizzazione in quanto rappresentava l’imperatore, egli aveva la facoltà di variare a suo piacimento l’entità e la modalità di versamento del tributo dovuto dai cittadini a Roma e questo egli fece varando una legge che dal punto di vista giurisdizionale e legittimo non poteva essere contestata.
La legge in questione fu la “Lex Rupilia” , in base alla quale egli variò il tributo richiesto da Roma, aumentandolo secondo un suo personale metro ed incamerandolo senza dover rilasciare alcuna ricevuta al contribuente. Sostanzialmente, varò una legge molto simile a quella che oggi autorizza i comuni a variare la cosiddetta tassa sulla casa. A me sembra che la somiglianza con la legge “rupilia” non sia tanto fuori luogo ed ho la sensazione che di tutte le dominazioni subìte dalla Siciliia, quella romana ieri e quella italiana oggi siano le peggiori.
COSI DUCI E RELIGIONE
Per quanto possa sembrare strano, parlando di “cosi duci” (dolci) in Sicilia ed anche nel mondo intero bisogna guardare alla religiosità dei popoli. E’ assodato che gli uomini, non riuscendo a dare delle spiegazioni a tutti i fenomeni naturali si rivolgano ad una Entità divina alla quale chiedere aiuto. Proprio in funzione di ciò hanno sempre fatto ricorso ad offerte votive e rituali, talvolta anche di ringraziamento per presunte grazie ricevute. All’origine, come è possibile rilevare dalle notizie storiche, le offerte consistevano in sacrifici umani di prigionieri, schiavi e talvolta anche di propri congiunti. I Cartaginesi sacrificavano al Dio Molock dei bambini, ma anche i Greci non disdegnavano di farlo (ricordo il sacrificio della figlia Ifigenia da parte di Agamennone per avere il favore degli Dei nella conquista di Troia), nonché gli Ebrei (ricordo l’episodio di Isacco riportato nella Bibbia). Successivamente con l’evolversi della civiltà, le vittime umane vennero sostituite da quelle animali. Venivano offerti agli Dei tori, agnelli ed altri animali a seconda della disponibilità economica dell’offerente ed all’ampiezza della grazia richiesta. Contemporaneamente si fece ricorso anche ai prodotti della terra e, cioè, a quelli che servivano all’alimentazione. E’ comunque da precisare che gli uomini hanno sempre cercato di offrire le cose da loro ritenute più preziose, ma anche più … risparmiose! Sicché, alla fine, la religione cattolica ha chiuso il teorema nella migliore soluzione possibile, riuscendo ad offrire a Dio il corpo del suo figlio ( chi più prezioso del figlio di Dio?), rappresentato dall’ostia consacrata, il cui costo economico è poco più che niente. Tuttavia, l’usanza di origine prettamente pagana di offrire dei doni alla divinità ancora oggi persiste assumendo degli aspetti simbolici legati al passato, anche se molte di queste offerte sono entrate a far parte di una comunissima abitudine del nostro desco giornaliero.
Vi fu dunque, un momento storico, in Sicilia, durante il quale si offrivano agli Dei pasticci ottenuti dal miscuglio di alcuni tra i prodotti più significativi e pregiati della natura, da consumare in determinate circostanze e ricorrenze religiose, in sostituzione di sacrifici cruenti. Naturalmente tali prodotti dovendo essere offerti ad una divinità che era tenuta a contraccambiare con una grazia, dovevano essere rese il più appetibili possibile sia dal punto di vista formale che dal punto di vista del gusto. Insomma alla semplice farina impastata vennero aggiunti altri additivi capaci di arricchire il nuovo prodotto da offrire agli Dei. Nacquero in questo modo “i cosi duci”, che oltre a piacere alla Divinità dovevano essere gradevoli e simbolicamente adeguati anche agli uomini che … dovevano consumarli in loro onore! Con l’avvento del cristianesimo questi dolci continuarono ad essere consumati, oltre che graditi, in occasione delle festività cristiane omologhe. Quasi come in un gioco di prestigio, le nuove feste religiose vennero appiccicate ai dolci già esistenti e nati con motivazioni diverse.
Specialmente in occasione delle festività che riguardavano Cerere e la figlia Proserpina si ricorreva a particolari tipi di dolci che ancora oggi esistono e che, per la loro particolare forma, fanno riferimento alla natura. Sulla falsariga delle focaccine di sesamo e miele, che avevano la forma dell’organo femminile, offerte in occasione delle feste primaverili per cercare di mettere di buon umore la dea Cerere, sempre scontrosa per la cattiva avventura della figlia Proserpina, oggi a Palermo è possibile gustare le “le cucchie delle Madonie”, i viscotta di San Martinu”, ed a Comiso i “i prucitani”. Questi dolci, oltre ad avere la stessa composizione e la stessa morfologia di allora, ancora oggi vengono deliziosamente consumati in occasione di feste che si sono sostituite a quelle pagane. Parlando di focacce non posso non citare Catone che parla nel suo “De agricoltura”, di un antichissimo dolce tipico siciliano ,definito “flagrante di timo ibleo”, a base di farina, miele, cacio ed aromi della nostra terra. Lo stesso autore parla pure dell’antichissimo “mustazolu” siciliano ( Mustaceos sic facito… farinae siliginae modum unum musto cospargiuto, anesum, cuminum, … lauri folia …) allora consumato durante le “saturnalia” ed oggi nel periodo natalizio come dolce tipico casereccio. Il Pitré dice che il “mustazzolu” è nato come dolce tipico di Messina, inoltre egli tra gli altri tipi di dolci casarecci, cita “i sfinciuni”, “u tirruni” di Piazza Armerina, la “Petrafennula” di Modica, “a pignulata” di Borgetto, a pasta di ”vinu cottu” di Cammarata, i cuddureddi di Catania, i “nùcatuli” di Palermo … Ovviamente non è mia intenzione di scrivere un trattato sui dolci siciliani, ma intendo precisare che “nte cosi duci” della Sicilia vengono coinvolti oltre alle farine, tutti quegli elementi tipici della nostra isola, non escluse le mandorle, i noccioli, i pinoli e tutto quanto vi si produce, esaltate sotto l’impulso della fede nel mondo metafisico e soprannaturale. Oserei dire che i “cosi duci” della Sicilia trasformano appunto una realtà tangibile in una realtà soprannaturale, dove sapori, forma e dolcezza convivono armoniosamente e felicemente.
Se qualcuno ha la volontà di visitare la cittadina di “Palazzolo Acreide”, la sede estiva dei Siracusani facoltosi dell’ex mondo greco, e vuole saperne di più in materia di dolci siciliani ed altre cose, senza per questo ricorrere ad innumerevoli trattati o libercoli, non deve tralasciare di recarsi alla Casa-museo di Antonino Uccello, dove esiste una collezione ricchissima di tutte le specialità nostrane. Ad ogni modo, da buon catanese, non posso non ricordare “l’ossa de’ morti” tipici della ricorrenza dei defunti, i “vastuni di risu” col miele di San Giuseppe, “i pupi di zuccaru”, “a frutta marturana”, “l’aceddi cu’ l’ovu”, i sfinciuni cu a ricotta e chiddi cu’ l’anciova”, i “totò”, “i minni” e l’alivuzzi di Sant’Aita”, i “cannoli” di ricotta, gli “Iris”, la famosa “cassata siciliana” ed altri ancora che gli Arabi aggiunsero con maestria. Scusandomi se ne ho dimenticato qualcuno, non posso non citare pure “a cuccia”, tipica della festa di Santa Lucia, che più semplice non si può: grano bollito e condito con il vino!
Un discorso a parte è da fare a proposito di un altro ramo de’ cosi duci”: la “gelateria”, molto di casa in Sicilia. Qui, a Catania, non c’è di meglio nel periodo estivo di fare colazione al Bar con la “brioche e la granita, chiamata in gergo “a minnulata”. A parte questo termine nostrano legato all’ impiego di mandorle tritate che non esclude l’uso di altri ingredienti quale il limone, non ritengo di dover approfondire l’argomento trattandosi di un prodotto universalmente noto. Ma ciò non mi impedisce di evidenziare questo termine “a minnulata”, che viene attribuito alla granita in genere, volendo così individuare un particolare e complesso tipo di operazioni per ottenere un prodotto semplicissimo. Tant’è che questo termine viene anche usato per prendere in giro una persona insignificante che si dà arie di grande capo. Non so se avete mai sentito dire a Catania: “ … e chi è u diritturi da minnulata !?” Un termine similare è pure: “… e chi è u capu da sasidda a caddozza?!” ( il capo della salsiccia a torchetti). E’ nel nostro gergo il vezzo di far paragoni con cose ed elementi della vita comune per evidenziare difetti e pregi delle persone. Il risultato è di sicuro effetto, tanto da essere sovente utilizzato dai nostri attori di avanspettacolo dialettale.
I “GIGANTI” PRIGIONIERI
Una delle caratteristiche dell’umanità e forse di tutta la natura è la “lotta per il potere”. Di essa non erano certamente immuni i Greci, grandi artefici e manipolatori della democrazia politica, al punto tale che concepirono anche una lotta metafisica per il potere anche tra gli Dei, in cui venne coinvolta la Sicilia nel risultato finale. Come potevano non farlo avendo notato non solo la bellezza, ma anche il mistero che aleggia sui fenomeni naturali dell’isola, quali terremoti ed eruzioni laviche? Essi concepirono che il re del cielo e della terra con tutta la sua corte per consolidare il suo potere dovette affrontare delle guerre … intestine, cioè con altri esseri immortali che gli si opponevano. I cosiddetti “giganti” si opposero al potere di Giove e lo ostacolarono in ogni modo, cercando di detronizzarlo. Gli altri Dei strinsero un’alleanza con Giove, che alla fine delle ostilità tenne per sé il dominio del cielo, affidò a Nettuno quello del mare ed a Plutone quello degli inferi. Potremmo dire che allora vi fu una guerra tra il Bene, rappresentato dagli Dei, ed il Male, rappresentato dai Giganti. Senza bisogno di stupirsi, qualcosa di simile è anche concepito nel mondo cristiano, dove il Bene è Dio ed il Male il Demonio, i quali sono in perenne lotta. Inoltre concepivano che anche gli Dei facessero quello che fanno gli uomini, stipulando alleanze, combattendo per il potere e rispettandone dopo i trattati. Sembra proprio di assistere alle alleanze del secolo scorso tra le nazioni (Triplice Intesa, Triplice Alleanza).
Insomma, ci fu questa guerra in cui alla fine gli Dei (il Bene) trionfarono. Ma che fine fecero i “Giganti”? Essi non potevano morire poiché erano immortali, ma come tutti i vinti, nella mentalità di allora, furono puniti in vario modo per l’eternità. Per non parlare di tutti, ma semplicemente di quelli coinvolti a scontare la loro colpa in Sicilia ne voglio ricordare solo due: Tifeo ed Encelado. Il primo, che più di tutti aspirava a sostituirsi a Giove venne condannato a dover sostenere con la forza delle sue braccia la Sicilia per impedirne lo sprofondamento nel mare. Il secondo venne condannato ad essere imprigionato nell’isola con le braccia aperte (una sul Peloro e l’altra sul Ragusano), i piedi rivolti uniti verso Palermo e la testa poggiata dove adesso vi è l’Etna, guardando il cielo per ammirare in eterno la potenza del suo vincitore. Trattavasi di due posizioni abbastanza scomode, di una fantasia veramente stupenda che spiegava in modo metafisico i tremori e le eruzioni dell’isola. Secondo la credenza di allora, si pensava che di tanto in tanto Tifeo si stancasse nel sostenere l’isola e che pertanto creasse i terremoti abbastanza frequenti specialmente nella parte orientale. Di conseguenza, il povero Encelado costretto a stare immobile in quella posizione di Cristo in croce, veniva disturbato creando anche lui ulteriori tremori, ma soprattutto aprendo la bocca (il cratere dell’Etna) e vomitando lava, che era il prodotto del suo livore contro gli Dei. Come corollario di questa vicenda mitologica, nacque successivamente la leggenda di “Colapesce”, il pescatore che tuffatosi nel mare ed avendo notato che il pilastro su cui poggiava la Sicilia stava per sgretolarsi, restò giù per sostituirlo e non farla affondare.
Curiosamente la Sicilia diventa nel mito greco oltre che la sede di bellezza protetta dagli Dei, anche la sede dove i loro nemici pagano il fio delle loro colpe. Altri profondi significati sono da evidenziare da questo fatto mitologico, che, in ogni caso pongono l’isola al centro dell’interesse non solo economico, ma anche filosofico del mondo greco.
ELENA THOVEZ DI SCORDIA.
Quel tratto di strada che a Scordia va dal punto dove convergono le due provinciali provenienti da Catania e da Francofonte, fino al centro della cittadina, si chiamava e continua a chiamarsi Via Tenente De Cristofaro. Chi era costui? Me lo chiesi allora, quando vi abitavo adolescente, ed ancora adesso non ho pienamente soddisfatto la mia curiosità. Non so cosa abbia fatto di buono o di eroico questo tenente. Comunque una cosa ho assodato: che la famiglia De Cristofaro era una delle più note della cittadina ed anche delle più ricche e blasonate. Ho appreso pure che l’attuale sede della casa municipale è un ex palazzo “De Cristofaro”. Insomma una famiglia di tutto rispetto nel paese, anche se la famiglia dominante storicamente fosse quella dei Branciforti, ad uno dei quali venne affidato intorno al 1100 il Feudo di Scordia e la cui discendenza pare fosse legata ad un palatino di Carlo Magno.
Non è tanto la storia del paese che mi interessa evidenziare, il cui territorio fece parte della Paliké di Ducezio e che sicuramente subì le vessazioni della vicina Leontinoi greca, tant’è che nel paese si è soliti dire tutte le volte che qualcuno mette scompiglio : “Bih, e chi arrivaru i Greci?”, ma quella della via e del suo nome, che quasi giornalmente percorrevo per sbrigare le piccole incombenze che mia madre mi affidava. Sulla destra, subito dopo la vista del quartiere dei “Furchi” (così chiamato per via delle impiccagioni di una volta), vi era l’osteria del Signor Barchitta, dove compravo di tanto in tanto il vino per mio padre (tri quarti e ‘na gazzusa!), a sinistra vi erano gli “orti”, ormai urbanizzati, dove compravo “i ‘rocculi, i bastardi, “a scalora” ed anche altri ortaggi, compresi “i ciciri migni” ed i “faviani”(ceci e fave ancora verdi); subito dopo vi era un mulino, ormai scomparso, dove portavo periodicamente del frumento, rigorosamente di “tumminia”, a macinare, la cui farina serviva a mia madre per fare il pane di casa. Prima di arrivare alla “chiazza” (la strada principale) vi era il capannone della pescheria (unico pescivendolo era Don Cola u pisciaru che aveva anche altre attività) con annessa la macelleria del Signor Frazzetto. All’angolo con il corso principale (da Santu Roccu a Culonna) vi era il bazar del Sig Maroncelli, cugino del parroco di San Giuseppe, e quasi di fronte, all’angolo dell’altra strada, il negozietto di chincaglierie di “Don Salvatore Cordafracida” (soprannome). Tanto per non dimenticare, su quest’altra strada vi era un negozio di generi alimentari ed anche un altro di frutta e verdura gestito da una donna anziana che chiamavano “a Canazzu”, forse per il suo caratteraccio e per il suo modo di parlare latrando.
Come è possibile constatare dalla sommaria descrizione che ho fatto e che sicuramente è cambiata tranne il percorso, la via non mi diceva nulla rispetto al personaggio a cui era intestata. Si trattava di una comunissima via di un paese siciliano, che però aveva una grande importanza nella mappa urbana, collegando, tra l’altro la stazione ferroviaria con il centro cittadino. Alla continua ricerca di questo personaggio e della sua famiglia, ecco la sorpresa! Una cosa che veramente non sapevo e che forse non tutti sanno, anche perché vi è stata una zona d’ombra giustificata certamente da motivazioni religiose e politiche. Ad un certo punto, venne a far parte della famiglia De Cristofaro l’inglese Elena Thovez, un personaggio certo non gradito alla Chiesa Cattolica, né tanto meno successivamente al Partito Fascista. Pertanto il nome di quella via ha il sapore di una conferma della cristianità e dell’italianità di quella famiglia e quindi del paese, onde far dimenticare così quel legame scomodo ed oscurarne la circostanza poco gradita.
Ma chi era Elena Thovez? Una donna nata in Inghilterra a Portsmouth nel 1815 e morta a Scordia nel 1896, dove venne ad abitare dopo aver sposato il barone dell’Ingegno Francesco De Cristofaro. Ma vediamo un po’ di sapere tutte le vicissitudini di questa donna e di capire quello che fece a Scordia di importante e di riprovevole e chi effettivamente fosse.
Bisogna intanto andare dietro nel tempo e ritornare al 1799, anno in cui il Re di Napoli Ferdinando di Borbone, per ringraziarlo dei favori ricevuti nel domare in quell’anno la rivoluzione dei Napoletani ed anche, a quanto si disse, nell’aver alleviato le sue fatiche di marito, conferì all’ammiraglio inglese Horatio Nelson il titolo di Duca di Bronte, con dritto all’esenzione di tasse e tributi al Regno delle due Sicilie ed alla successione ereditaria perpetua. In sostanza nella nostra Sicilia si instaurò una enclave inglese di fatto e di diritto, di cui ancora oggi ne sono evidenti gli effetti sulla popolazione. ( Chissà per quale motivo in questa zona di Sicilia, gli abitanti hanno quasi tutti gli occhi di color ceruleo anziché neri!? Cercate di indovinare cosa avvenne lì dopo l’arrivo della guarnigione inglese e lo capirete!). Come tutti sanno ( e se non lo sanno è giunto il momento di saperlo!) l’ammiraglio Nelson pur vincendo la battaglia navale di Trafalgar contro i francesi di Napoleone, nel 1805 perse la vita a causa di un fortunato colpo di granata avversario. Gli successe nel titolo di Duca di Bronte il fratello Reverendo William. Morto quest’ultimo senza eredi, il governo inglese nel 1819 nominò erede della Ducea di Bronte, un ex ammiraglio fedele servitore ed ex primo ufficiale di Nelson, Philip Thovez. Questi, con i figli William, Francis ed Helen, ultima nata, si trasferì a Bronte.
A questo punto abbandono la storia della Ducea di Bronte, che invito a visitare comunque per la sua bellezza e per le cose belle da vedere per parlare di Helen. Inglese, siciliana per caso, fu educata secondo i principi non certo cattolici, acquisendo tutte quelle cognizioni che fecero di lei una donna colta e senza lo “scialle” delle brontesi. Giunta all’età da marito, sposò per convenzione o per amore (questo non si sa!) Francesco De Cristofaro, nobile ricchissimo nonché barone di Scordia. La donna in questione , seguendo la moda di quei tempi, memore anche di un tipo di educazione non certo cattolica, mettendo a frutto le cognizioni scientifiche e filosofiche di allora, si dedicò ad opere filantropiche che cozzavano con Santa Madre Chiesa. Fondò a Scordia, in poche parole, una Società degli Onesti Operai (che esisteva ancora quando io vi abitai) con connotati di tipo massonico ed anche nel 1865 un Circolo Esoterico, di cui era anche presidentessa e medium, diffondendo con i suoi scritti e con una sua pubblicazione periodica il resoconto delle sue esperienze. Un personaggio molto scomodo per la Chiesa, che non gradiva e non ammetteva, come non lo ammette oggi, lo spiritismo. Diciamo che, essendo anche una brava scrittrice ed un’ottima pittrice, nonché una donna molto affabile, oltre che potente, godeva di molta stima e seguito nel paese e nel circondario e non poteva certamente essere tacciata di essere una fattucchiera o una strega. Del resto, ormai la Santa Inquisizione non aveva più i poteri del rogo, pur continuando le scomuniche e la morte spirituale di chi esercitasse alcune pratiche condannate dalla Chiesa ed in ogni caso il personaggio in questione godeva delle protezioni effettivamente potenti per quei tempi.
IL DOTTOR GIUSEPPE MIGNECO DI AUGUSTA
Negli anni della sua formazione, la Thovez ebbe contatti anche con il mondo esoterico siciliano, che le permise di conoscere ed anche seguire un altro personaggio abbastanza inquietante del mondo culturale siciliano: il Dott Giuseppe Migneco, nato ad Augusta nel 1820 e morto a Catania nel 1884, che invece subì pubblica condanna per eresia nonostante i suoi meriti scientifici. Come è possibile constatare, anche allora, in materia di giustizia, era in auge il concetto di “due pesi e due misure”, oggi denunciato, a torto o ragione, da determinate forze politiche.
Quest’ultimo, laureatosi nell’Università di Catania nel 1842, era uno studioso di medicina omeopatica, ottenendo riconoscimenti scientifici ed onorifici per le sue pubblicazioni, anche da parte del nuovo stato italiano che nel 1869 lo insignì della medaglia d’argento ai benemeriti della salute pubblica. Ma già nel 1854 la sua opera di medico venne condannata dalla Chiesa dopo una denuncia presentata da un parroco di Vizzini per la guarigione “sospetta” di un suo paziente, nonostante godesse la fama di aver guarito degli affetti di colera. I suoi libri vennero pubblicamente bruciati nel centro della piazza di Augusta perché demoniaci e devianti della fede. Insomma venne scomunicato. Sembra che egli oltre alla omeopatia adoperasse dei metodi di magnetismo, forse ipnotismo ed altre cose, che la Chiesa non ammetteva. Sta di fatto che quest’ultimo, con i suoi profondi studi anche nel campo chimico, scoprì alcune malattie delle piante con relativi rimedi. Abbastanza clamore fece un “olio Migneco” da lui fornito a richiesta come panacea di alcuni malanni. Siamo in presenza di uno studioso che travalicava i limiti imposti dalla chiesa e che si occupava anche di spiritismo, magnetismo ed altre teorie filosofiche del passato apertamente condannate e basate sulla metempsicosi delle anime. A torto forse venne definito “Cagliostro il piccolo”. Forse non tutte le sue asserzioni furono giuste, ma è certo che egli pose in un certo senso la base per tutti quegli elementi che portarono Freud a definire i contorni scientifici delle malattie nervose sottraendole al dominio degli esorcisti e decretando la nascita della psicoanalisi come metodo terapeutico.
Per tornare ad Elena Thovez, passata la buriana del contrasto religioso, che certamente non gradiva un personaggio in odore di massoneria e che si proclamava intermediaria tra il mondo reale e quello metafisico, andando a scomodare gli spiriti dei trapassati, subentrò un altro periodo, quello del ventennio fascista, al quale non conveniva sbandierare la nazionalità di provenienza della donna, essendo l’Italia fiera nemica della “perfida Albione”. Meglio ignorare una figura che, per quanto comoda da opporre al mondo clericale, certamente non gradito al regime, ai fini della politica estera sarebbe diventata incresciosamente dannosa per i nostri rapporti di alleanza germanica. Ecco, quindi che questo personaggio non è mai venuto, come dire, a galla. Bisognava attendere l’opera dello storico di Scordia, Nuccio Gambera, che ne rilevò i contorni e la storia ed al quale rimando per gli eventuali approfondimenti ed anche per una ulteriore conoscenza di tutta la cittadina, che per la sua vicinanza a Catania ha acquisito un maggiore sviluppo rispetto alla vicina Palagonia (ex Paliké). Per quanto ne sappia, oggi a Scordia, nessuna altra via o piazza risulta essere dedicata alla Thovez; parimenti per il celebre Dottor Giuseppe Migneco ad Augusta.
A TRUVATURA
Fa parte della cultura del nostro popolino il concetto della “truvatura”. In una terra così ricca di misteri e di ataviche credenze non poteva non nascere una simile fede nella speranza. Infatti la “truvatura” altro non è che la soluzione e la panacea di tutti i disagi economici del popolo. A chi è povero e vive nell’indigenza assoluta, non resta altra speranza che la “trovatura”, cioè trovare un qualche tesoro nascosto da esseri metafisici, quali diavoli, spiriti vaganti e quant’altro. Certamente questa cultura oltre che essere connaturata con le diverse credenze, è anche alimentata dalle condizioni economiche non sempre ottimali del popolo, che non avendo altre risorse, spera nell’intervento anche casuale della fortuna. Sullo sfondo di questa cultura di speranza sono fiorite molte leggende ed anche molte truffe a danno dei più sprovveduti. Non è da escludere che qualcuno ancora creda che alla base dell’arcobaleno vi sia nascosto un tesoro, che, però, non può essere individuato per via della luce sempre variabile. Inoltre qualche sedicente mago, riesce a convincere le nostre povere donnette dell’esistenza di una trovatura, che, magari, può consistere nel riacquisto di uno stato di salute compromesso. Mi piace citare uno storico esempio di millantata truvatura, non facilmente individuabile. Esiste a Palermo un palazzo costruito dagli Arabi, che per la sua bellezza è chiamato “La Zisa”. (In arabo Aziz significa appunto splendido). La leggenda vuole che nel luogo dove è stato costruito vi sia sepolto un tesoro (a truvatura), guardato a vista dai …diavoli, che, pertanto non può essere rilevato. La leggenda nasce dal fatto che il 25 di Marzo di ogni anno per l’Annunziata, i Palermitani sono soliti recarsi nella chiesa dell’Annunziata presso la Zisa per pregare e, dopo aver fatto un pic-nic nel prato antistante, non riescano a contare esattamente il numero delle figure mitologiche dipinte sul frontespizio dell’arco, individuati come diavoli. Quanti dei presenti contano questi “diavoli” danno sempre dei responsi diversi o per motivi di poca visibilità o per motivi emotivi o per altro ancora, non escluso qualche bicchiere in più dell’ottimo vinello locale. Sta di fatto che è sopravvenuta la credenza che questi diavoli non si fanno contare bene per impedire di far conoscere l’esatta ubicazione del tesoro nascosto e da loro custodito. A proposito di questa leggenda è nato anche un modo di dire riferito ai conti quando non tornano: “Bih, e chi sunu comu i diavuli da Zisa?!” Quelli che non tornano mai!
Un’altra storica leggenda ruota attorno al Duomo di Monreale. Tengo intanto a precisare che Palermo in questo periodo era una delle città più evolute d’Italia. In essa convivevano in pace Cristiani, Ebrei e Mussulmani senza alcun rancore o contrasto. Durante il terremoto del 1169, sotto il regno del cattolicissimo re normanno Guglielmo II, quest’ultimo fu costretto ad ordinare a tutti di continuare a pregare il Dio a cui credevano, poiché al suo apparire tutti restarono in silenzio, mentre prima, ognuno pregava chi Gesù, chi Allah e chi Geova. Ebbene, sembra che una notte questo Re abbia sognato la Madonna che gli abbia indicato il punto dove ora vi è il Duomo di Monreale, e gli abbia ordinato di scavare perché ivi era nascosto un gran tesoro. Pare che il Re abbia obbedito e che abbia effettivamente trovato un tesoro che a lui servì per costruire in quel punto il Duomo, dove volle essere sepolto dopo la morte. Questo episodio della “trovatura” del tesoro di Monreale, venne immortalato dal poeta siciliano Salomone Marino di San Giuseppe Iato con il seguente strambotto:
Maria, ch’è di li celi imperatrici,
dissi: “Lu tronu meu mi vogghiu fari”.
L’angili manna a fari la Matrici,
e firmaru lu volu a Murriali.
Un’altra leggenda riguardante le “truvatura” è quella della Grotta del Cavallo” di Caltanissetta. Dice la storia che sul Monte Subbucina, nella zona solfifera di Caltanissetta, vi sia questa grotta detta del cavallo, abbastanza ampia in grado di poter dare asilo a più persone ed animali. Un bel giorno Pippineddu u picuraru, un pastorello del luogo, accortosi che mancava dal gregge una pecorella, pensò bene di ritornare indietro per cercarla lungo l’impervia montagna. Non essendo riuscito a trovarla ed essendosi ormai fatto buio, pensò di passare la notte nella Grotta del Cavallo. Dopo aver mangiato un pezzo di pane e del cacio tirati fuori dalla bisaccia, alla meno peggio si adagiò su un letto di frasche raccogliticce e si addormentò. Durante la notte gli sembrò di svegliarsi e di vedere dentro la grotta un enorme mercato dove la gente vendeva della frutta ed altre mercanzie. Gli sembrava di sognare, ma la scena era così viva che credette fosse reale. Si mise a gironzolare tra i banchi del mercato e venne attratto da una bellissima donna che vendeva delle arance. Egli si avvicinò, toccò le arance che gli sembrarono belle e succose, poi cacciò dalla tasca l’unico “tarì” che possedeva e chiese di poter comprare una sola arancia. Con sua grande sorpresa, la signora gli disse di aprire la bisaccia, che riempì tutta di arance. Egli ribadì di avere un solo soldo, ma lei rispose che bastava. A questo punto la scena del mercato scomparve. La grotta diventò vuota ed egli pensò di aver sognato. Ma la bisaccia era piena di arance e nonostante il peso se la caricò sulle spalle. All’uscita della grotta ritrovò la pecorella smarrita e ritornò a casa, dove con sua grande sorpresa si accorse che le arance erano … d’oro! Il padre di Pippineddu, sentito il racconto del figlio, anche lui andò a dormire nella grotta del cavallo e non solo per una notte, ma per parecchie notti, senza che avvenisse alcunché. Il poveruomo, nell’attesa di poter riempire la sua bisaccia di arance d’oro, infine morì senza poter esaudire il suo desiderio. Intanto Pippineddu crebbe, divenne uomo, fece del bene ed alla fine diventò un personaggio importantissimo del paese, grazie a quella “truvatura” che nemmeno aveva cercato. Ovviamente la leggenda ha una sua morale, che è facile intuire, legata a questo concetto. Non sempre i tesori nascosti vengono trovati da tutti; il più delle volte sono un premio per chi li merita. Così è anche nelle favole che vengono raccontate ai bambini.
GIUSEPPE SCHIERA DI PALERMO
Tutti conoscono la vicenda di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, i due comici che sono saliti agli onori della celebrità e che cominciarono la loro attività facendo i comici da strada. Ma non è di loro che voglio parlare, essendo molto noti e quindi ormai non costituiscono una vera curiosità. Li cito semplicemente per parlare di altri due personaggi palermitani, meno noti, che come i nostri due comici, allietavano la vista dei passanti con i loro mottetti e con le loro trovate. Essi erano Abballavirticchiu e Muddichedda (Trambusto e Mollichina). Il primo era un poeta dialettale, non certo salito agli onori della letteratura come ad esempio il nostro Domenico Tempio, e l’altro, meno noto, un metro e quaranta di “cristianu” che faceva da spalla. Il loro pezzo forte era “u sautu da coppula”. Nello spazio intorno al quale si raccoglievano gli improvvisati spettatori, essi mettevano a terra una coppola, il tipico nostro berretto nazionale, con la parte cava in alto. Lo spettacolo consisteva nel salto che faceva Muddichedda per oltrepassarla imitando le mosse di un atleta, mentre l’altro commentava in versi dialettali la grande impresa del suo compagno. Alla fine gli spettatori lasciavano cadere qualche spicciolo nella coppola, consentendo ai due di sbarcare il lunario. Mentre di Muddichedda forse non è passato ai posteri il vero nome e cognome, dell’altro, di Abballavirticchiu, si sa molto di più. Egli corrispondeva al nome di Giuseppe Schiera, nato a Palermo sicuramente intorno al 1899, avendo partecipato all’ultima leva che partecipò alla grande guerra del 1915/18. Faceva parte di una famiglia composta da padre madre e diciotto figli. In effetti i figli alla fine rimasero in diciassette, un numero che lo faceva ironizzare sulla loro sorte, essendo stato il diciottesimo venduto dal padre per cinquanta lire. Come si può capire la fame era di casa nella famiglia e Peppe, per sbarcare il lunario, era costretto a ricorrere a furterelli di olive, arance ed altre cosette che vendeva al mercato libero. Naturalmente questa sua attività lo aveva sottoposto all’attenzione dei Carabinieri ed egli per evitare di essere preso molte volte andava a dormire negli anfratti di Monte Pellegrino. Chiamato alle armi, il suo primo giorno lo passò in galera. Avendolo incontrato un sottotenente con la divisa, appena indossata, in disordine ed in condizioni di sciatteria a cui era abituato, ai rimproveri dell’ufficiale, sicuro di non essere capito rispose con tono sfottente: “Ciarea e … cazzi , Signor suttadinenti”. Finita la guerra e rientrato vivo per fortuna nella sua Palermo, ritornò a fare la stessa vita di prima, finché un capomastro, mosso a pietà per il suo stato, non lo assunse alle sue dipendenze insegnandogli il mestiere di muratore. Così incominciò a guadagnare onestamente dei soldi ed ebbe anche la buona sorte di sposare la figlia del suo datore di lavoro. Da questo momento Peppe cominciò a curare maggiormente la sua istruzione ed a seguire con maggiore attenzione quella che era sempre stata la sua passione: comporre in rima delle poesie in vernacolo, che scriveva su dei foglietti e che declamava in pubblico vendendoli per arrotondare i suoi guadagni di muratore. Naturalmente il tema delle sue poesie non poteva non essere che la fame, alla cui scuola era cresciuto. Si definiva addirittura schiavo del Signor “Pitittu” (Appetito), che lo costringeva a dover avere la “pirnicia” (preoccupazione) di dover mangiare di tanto in tanto. Al ritorno dal fronte erano questi i temi delle sue liriche, che poi tanto poetiche non erano, ma che comunque rendevano chiaramente i concetti del suo modo di vivere. Di se diceva:
Pueta comu a mia ci ni sunu tanti,
tutti spustati e tutti intelligenti,
ma tutti cu lu stomacu vacanti;
era forsi accussì un certu Danti,
oppure un certu Japicu Liupardu, …
E proseguendo nella sua esposizione dimostrava di conoscere molto bene la letteratura italiana e di aver letto le opere di molti poeti e scrittori italiani, compreso il Boccaccio. Con l’avvento del fascismo ritornarono i suoi contrasti con i carabinieri per via della sua linguaccia, che non ometteva di criticare, per di più in versi, l’opera del Duce e della sua politica. Cito alcuni versi tra i più significativi, che gli procurarono non pochi guai ed anche fermi di polizia.
U duci ci cunnuci/ contru u palu di la luci …
Quannu u re era Re/mancava u café./Ora è impiraturi/ e manca u caliaturi./ E si pigghiamu nautru statu/ manca puru u surrogatu.
“Pueta”, dunque, ma pueta scomodo e non certo gradito, specie in un periodo di guerra in cui il regime predicava : “taci, il nemico ti ascolta”. E fu proprio la guerra, alla quale non partecipò da militare, che lo uccise nella sua Palermo. Il 13 Maggio 1943, il suo corpo venne trovato senza vita sotto le macerie di un bombardamento delle forze aeree alleate. Qualcuno ha raccontato che le guardie dell’UNPA si impossessarono delle mille lire che gli vennero trovate in tasca. Per ironia della sorte, lui, povero, cantore della fame che aveva patito per tutta la vita, venne da morto anche borseggiato! E’ proprio vero che al peggio non c’è mai fine!
PIRCHI’ SCECCU
Tutti sanno che gli asini in Sicilia sono chiamati “scecchi” ma certamente non tutti sanno il perché. Bisogna sapere che, quando gli Arabi conquistarono la Sicilia, prima che avvenisse la completa islamizzazione dell’isola, che poi portò ad un effettivo progresso civile della popolazione, le cose certamente non andarono per il meglio. I conquistatori incominciarono con l’imporre le loro leggi con la forza. I Siciliani, latini ed ormai cristiani mal sopportarono all’inizio le imposizioni militari degli Sceicchi, ovvero dei capi di questi invasori. Uno dei provvedimenti che questi ultimi presero, fu quello ritenuto opportuno di disarmare la popolazione. Allora il popolo, per lo meno gli uomini, andava in giro tradizionalmente armato. Chiunque portava lo stiletto di difesa alla cintura o la spada al fianco. Naturalmente gli Arabi, che temevano delle reazioni con una ben dettagliata ordinanza decretarono l’abolizione delle armi portatili, pena la morte. La cosa non fu molto gradita e come reazione i Siciliani procedettero all’avvelenamento delle acque degli abbeveratoi. Vi fu quindi una moria improvvisa di cavalli ed i cavalieri saraceni rimasero tutti senza cavalcature. Si rese necessario quindi far arrivare dall’Africa altri cavalli per via mare. Una flotta, carica di questi animali ed anche di asini per il trasporto delle merci, partì dai porti arabi, ma un fortunale investi tutte le navi che andarono a fondo, tranne qualcuna, carica di asini, che giunse a terra. Per questo motivo, i cavalieri saraceni, per non restare appiedati, furono costretti a cavalcare degli asini. Ironicamente, allora, i siciliani li battezzarono “scecchi” per assonanza al termine “Sceicco”. Passata l’evenienza, il termine “sceccu” rimase nel linguaggio dialettale per indicare l’asino, che fu così promosso … sceicco!
PETRU FUDDUNI
“Ma chi è fuoddi?!” Questo interrogativo non lo sentirete mai dire a Catania, che preferiscono dire “Ma chi è pazzu?!” e nemmeno a Messina che dicono “Ma chi è pacciu?!” La parola “fuoddi” è tipicamente palermitana e sta per la parola italiana “folle”, ossia “fuori di mente”. Questo aggettivo “fuoddi” viene usato sia per il maschile che per il femminile come del resto in italiano l’aggettivo “folle”. Bisogna precisare che in italiano la parola “folla”, non è il femminile dell’aggettivo “folle”. Essa significa semplicemente l’insieme di più persone ed è un sostantivo che al plurale suona “le folle”. Un po’ la stessa cosa succede nel dialetto: “u fuoddi” e “a fuoddi” sono aggettivi che fanno al plurale, “i fuoddi”, mentre “a fudda” è un sostantivo che corrisponde all’italiano folla, che al plurale si dice :”i fuddi”. Insomma, in questo tangente, forse il siciliano è molto più chiaro e comprensibile dell’italiano!
Tanto per ben fissare questi concetti, vi dico subito che questo aggettivo “u fuoddi”, venne appioppato ad un noto personaggio del passato esattamente ad un poeta siciliano della stessa
taglia di Giuseppe Schiera, di cui ho precedentemente parlato. Addirittura, proprio per questo suo essere folle, venne chiamato “Petru Fudduni” (Pietro, il grande pazzo). Se ad un palermitano e forse anche ad un altro siciliano amante della propria lingua chiedete chi fosse costui, sicuramente riceverete una risposta molto esauriente. Eppure della vita di Pietru Fudduni si conosce poco, anche se noti sono invece i suoi versi strampalati e bizzarri, ma molto significativi. Per questo molti lo hanno anche paragonato ad un altro poeta dialettale siciliano molto noto: Giovanni Meli. Comunque è da dire che quest’ultimo era coltissimo, mentre lo era molto meno il nostro Pietro, che nelle sue critiche a determinati personaggi esulava anche dalla prudenza, creandosi non poche inimicizie. (Era proprio da folle attaccare chi potesse danneggiarlo!) Ma il nostro forse reputava di non avere nulla da perdere. Cominciamo col dire che era figlio d’ignoti e che sappiamo per certo che è morto nel 1670 a settant’anni, per cui si desume che sia nato nel 1600 in quel di Palermo. Egli partecipò a molti certami poetici popolari, che ci hanno tramandato in parte la sua produzione poetica. Anche se non trova una nicchia ben definita nella letteratura italiana, quali appunto il Meli, il Tempio, il La Porta, Trilussa ed altri è da dire che, tenuto conto della notorietà popolare raggiunta dal personaggio, la sua opera andrebbe esaminata con maggiore attenzione e forse rivalutata. Quello che purtroppo mi duole è che la nostra Regione, definita autonoma, guarda caso, per motivi culturali non abbia mai pensato di istituire un seminario letterario dove evidenziare la dimensione artistica e storica di molti personaggi nostri scivolati nell’oblio
ANGIOINI ED ARAGONESI IN SICILIA
E’ fuor di dubbio che la madre di tutte le grandi rivoluzioni storiche è stata quella francese del 1789, ma sono del tutto convinto che il secondo posto tocca alla rivoluzione dei Vespri Siciliani nonostante quella bolscevica non sia da sottovalutare. Dico questo perché la rivoluzione francese portò a delle innovazioni radicali ed inoltre fu di una crudeltà inaudita a cui tutto il popolo aderì interamente e concordemente. La stessa cosa avvenne per i Vespri Siciliani, mentre, in effetti, in quella bolscevica il popolo assunse posizioni differenti che sfociarono in antagonismi di diverso sentore.
Esaminando le motivazioni che mossero sia la rivoluzione francese, che quella bolscevica, notiamo che quella dei Vespri Siciliani fu particolare anche in queste. Non azzardo nel dire che le prime due furono, oltre che interne, di carattere economico con successivi risvolti politici, e che, invece quella dei Vespri fu squisitamente politica, oltre che rivolta contro ingerenze esterne all’autonomia della Sicilia. Nel 1282 la Sicilia si trovava da poco sotto la dominazione degli Angioini di Carlo V, che era non accetta benevolmente dal popolo. Sicuramente , con il tempo, secondo la nostre tipiche tradizioni, anche questi ultimi, alla fine, si sarebbero sicilianizzati, ma forse non ne ebbero il tempo, come avvenne successivamente con la dominazione spagnola degli Aragonesi. Infatti il periodo aragonese è stato uno dei migliori di tutta la Sicilia. Basta pensare che la capitale del Regno Aragonese faceva capo in un primo tempo a Catania, con sede reggia al castello Ursino, e successivamente a Palermo, fino a quando non furono estromessi dall’isola. Sostanzialmente gli Aragonesi come non mai si integrarono con il popolo siciliano, al punto tale che quest’ultimo si “sentiva” intimamente , come dire, spagnolo di Sicilia. Non ebbero infatti la pretesa gli spagnoli di modificare le tradizioni isolane, che anzi assecondarono e ritennero fondamentali per il loro Regno. Mi piace ricordare che il re in visita a Randazzo, commosso dalle ovazioni ricevute nominò i cittadini “Todos Caballeros” (tutti Cavalieri).
I VESPRI SICILIANI E SPERLINGA
Grazie alle beghe tra il Papato e la Francia di Carlo D’Angiò la Sicilia fu conquistata militarmente dai Francesi. Come era usanza ( e lo è ancora oggi in alcuni paesi africani) le truppe di occupazione fecero delle angherie alle popolazioni civili, ma non soltanto. La politica francese, fin dall’inizio, non fu quella illuminata degli Aragonesi. Si cercò di adottare il pugno di ferro, ricorrendo sovente alla pena di morte ed alle deportazioni in massa. In questo clima il 30 Marzo del 1282, durante una ricorrenza festiva, a Palermo, un ufficiale capo drappello di una pattuglia di sorveglianza, cercò di mettere le mani addosso ad una bella popolana palermitana con la scusa di perquisirla. La reazione della donna e del suo fidanzato provocarono un atteggiamento sproporzionato da parte dei militari, per cui alle loro grida accorse un folto gruppo di popolani che disarmò la pattuglia. Fu così che ebbero inizio i Vespri Siciliani, che da Palermo si ripercorsero in tutti i centri abitati della Sicilia, dove i soldati vennero disarmati e trucidati sul posto. Quelli che riuscirono a fuggire abbandonando la divisa, vennero rintracciati e scoperti utilizzando la famosa parola “cicero” , che i francesi leggevano “ssissero” (la “c” in francese ha il suono della “s” dura). Tuttavia, una sola cittadina siciliana, come è tramandato dalla storia, non si ribellò ai francesi ed anzi li accolse e li difese: Sperlinga. Essa successivamente subì la vendetta da parte dei siciliani che considerarono traditori i suoi abitanti. Inoltre tutte le donne siciliane che avevano avuto rapporti con i soldati francesi, vennero sottoposte al taglio dei capelli, additate al pubblico ludibrio ed anche uccise. Le stesse cose avvenute ad alcune italiane dopo il ritiro delle truppe tedesche nell’ultima guerra. Il motivo del comportamento degli abitanti di Sperlinga è da ricercare nel diverso atteggiamento dei Francesi. Chi ha visitato o conosce questa cittadina siciliana, si accorge della posizione strategica della sua rocca che domina tutte le vie di comunicazione interne dell’isola ed inoltre nota che la rocca è militarmente strutturata in modo da risultare imprendibile dalle truppe di allora. Naturalmente i francesi, esaminata la situazione, decisero di scegliere quel luogo come quartiere generale, intavolando anche con i cittadini dei buoni rapporti di convivenza, tanto che molti soldati misero su famiglia con donne del luogo. Era, praticamente avvenuta a Sperlinga quella sicilianizzazione della popolazione, che ancora nel resto dell’isola non si era realizzata.
IL POZZO DI GAMMAZITA
In appendice alla vicenda dei Vespri è da dire che, dopo, molte località della Sicilia rivendicarono di essere state le prime a ribellarsi agli Angioini, magari con le stesse modalità e motivazioni avvenute a Palermo. Ma bisogna prestar fede a Dante che nella Divina Commedia cita l’episodio avvenuto a Palermo, dove la rivoluzione scoppiò al grido della fanciulla: “Mora, mora” (sott’inteso il francese), ripetuto dai rivoluzionari. Fra queste località vi è Catania, dove si racconta la vicenda del pozzo di Gammazita. La tradizione popolare vuole che proprio a Catania, una fanciulla insultata e fatta oggetto delle brame sessuali di un ufficiale francese si sia data la morte buttandosi in quel pozzo, così chiamato perché forse la fanciulla si chiamava “Gemma” ed era anche “zita” (fidanzata); per questo, quindi, si disse che la rivoluzione prese l’avvio a Catania. Il pozzo in questione, che si trovava nei pressi della chiesa della “Madonna dell’Indirizzo” (o ‘ntrizzu), dove accanto scorreva un ramo del delta dell’Amenano (lo Iudicillo), venne sepolto, insieme allo stesso Iudicillo ed alla baia dove vi è attualmente piazza Federico di Svevia, dalla eruzione del 1693; successivamente , individuato il posto, venne traforata la coltre di lava ed il pozzo riesumato; attualmente si trova protetto da una cancellata in un condominio di via San Calogero, nei pressi del castello Ursino. Pare che le sue acque siano quelle dello Iudicillo, che non potendo più sboccare a mare, è stato costretto ad invertire il suo percorso riaffluendo nelle fontana di “l’acqua a linzolu” di piazza Duomo. Visto che se ne presenta l’occasione devo evidenziare due curiosità storiche: quel ramo del delta dell’Amenano si chiamava Iudicillo, poiché quella località di Catania era abitata da Ebrei (Giudei); L’altra curiosità è la Chiesa della Madonna dell’Indirizzo, chiamata così perché il campanile faceva da faro e, quindi era di indirizzo, alle imbarcazioni che solcavano l’antistante baia, che venne coperta dalla lava e pare si sia fermata per l’esposizione del miracoloso velo di Sant’Agata. Il castello Ursino, così chiamato perché era inteso il castello del seno (du Sinu), si ergeva sul mare, legato alla terra ferma da una sola striscia di terra.
INFLUENZE FRANCESI SUL DIALETTO SICILIANO
Come tutti gli altri invasori anche gli Angioini lasciarono la loro impronta nel linguaggio siciliano ed aggiungendo il loro contributo alle tradizioni isolane. A Sperlinga ed in tutte le località dove maggiormente ebbero influenza i Francesi, come ad esempio, Caltagirone nel catanese e Piazza Armerina nell’ennese, prese vigore un tipo di vernacolo, detto appunto “gallico” perché molto influenzato dall’idioma francese, la cui origine è la Gallia. Si sa, ad esempio, che il verbo francese “cacher” (pronuncia: cascér) e che significa nascondere, ha dato origine a molti vocaboli siciliani che cito: “a cascia”, “a cascitedda” (il baule, la cassettina dove si “nasconde” la biancheria o altro); “u casciuni” od anche “u casciolu” (il cassetto dove si “nascondono” vari oggetti); “cascittuni” (colui che riferisce cose che si devono tenere nascoste, che, insomma fa lo spione); “cascittiari” (fare “u pigghia e porta”, ossia, riferire cose riservate); “Lo Cascio” ( un cognome, comunissimo in Sicilia, che viene generalmente appioppato nelle commedie siciliane ad un poliziotto del cast degli attori e che significa colui che sa i segreti, lo spione, l’indagatore). Un altro termine siciliano, ormai in disuso, “l’ammuccaturi” (fazzoletto) deriva dal francese “mouchoir” (pronuncia: musciuar) che significa fazzoletto. Altro termine ancora in uso , “a buatta”, (scatoletta di metallo) deriva dal francese “boite” (pronuncia: buatt) che significa scatoletta. Molti altri termini, oltre questi, sono legati alla derivazione francese, ma quello che mi preme evidenziare è che anche nel tono, cioè nel modo di pronunziare le parole, in determinate località è possibile rilevare la cadenza caratteristica della parlata francese. Sentite parlare un calatino od un piazzese e poi mi direte.
LA MAFIA
Grazie al can-can martellante dei mass-media, alle stesse leggi recentemente varate per combattere i delitti mafiosi ed all’efferatezza di questi ultimi, è emersa la falsa connotazione che la mafia sia nata in Sicilia e che dalla Sicilia sia stata esportata in Italia ed in tutto il mondo. Tengo ad evidenziare che l’organizzazione malavitosa definita di stampo mafioso è stata invece importata in Sicilia, dove ha assunto determinate caratteristiche ambientali. Pur di dimostrare che il fenomeno mafioso è nato in Sicilia, qualcuno, ricordando che gli Arabi sono stati in Sicilia, fa addirittura derivare la parola “mafia” dalla parola araba “mahjas” (spavalderia) o dall’altra parola araba “marfud” (reietto). In realta la lingua araba con questa parola c’entra come i cavoli a merenda. A parte il fatto che gli arabi erano in Sicilia nel X secolo, quando ancora il fenomeno mafioso nemmeno esisteva, la parola in questione è italianissima e per di più d’origine toscana, dove per “maffia” si intendeva “superbia”, come dei glottologi di chiara fama, non ultimi Santi Correnti, hanno evidenziato. Inoltre, ancor prima che si parlasse dell’esistenza dell’organizzazione mafiosa in Sicilia, si sentì in Italia la necessità di predicare una pulizia glottologica di questo termine per impedire appunto il manifestarsi di atteggiamenti da “maffia” tra i militari sia nel Veneto che in Toscana ed in altre parti d’Italia. Ci si riferiva a quel fenomeno che poi venne definito “nonnismo”, ma connotato e condannato adoperando proprio questa parola. Inoltre, come leggo su Internet, nel 1853, dieci anni circa prima della proclamazione del Regno d’Italia, il linguista Vincenzo Mortillaro che pubblicò un dizionario Siciliano-italiano, alla parola mafia dice testualmente: “voce piemontese introdotta nel resto d’Italia che equivale a camorra.” Insomma Mafia non è un termine siciliano, ma un termine squisitamente italiano a cui è stata tolta semplicemente una “f” ed è sicuramente nato nel Nord–Italia.
Del tutto puerile è la invenzione da parte di qualcuno che la parola MAFIA sia nata in occasione dei Vespri Siciliani, essendo quelle lettere le iniziali del grido rivoluzionario contro i francesi (Morte Ai Fancesi Italia Aspetta).
Assodata la questione dell’origine glottologica, occorre adesso esaminare le origini dell’organizzazione malavitosa in se della mafia. Bisogna innanzi tutto capire che quest’ultima, altro non è se non un’organizzazione segreta con procedure di affiliazione e regole ben precise e segrete , finalizzata al raggiungimento del benessere economico di tutti i loro componenti con qualunque mezzo. Essa inoltre è strutturata quasi militarmente con un capo indiscusso che ha la discrezionalità, se non l’arbitrarietà, del comportamento, con dei notabili che hanno delle responsabilità decisionali d’azione(la cosiddetta cupola) e dei semplici aderenti ed esecutori di ordini. Economicamente, i proventi delle azioni portate a termini dall’organizzazione ricadono sul capo ed in proporzione sugli altri collaboratori più vicini arricchendoli; agli esecutori, la cosiddetta manovalanza, viene garantito lo stipendio. Alla base dell’affiliazione vi è il principio della fedeltà, pena la morte. I campi di azione sono tutti quelli economici, poiché lo scopo finale è quello del guadagno che consente il benessere di tutti gli aderenti (la cosiddetta famiglia) Raggiunge il vertice dell’organizzazione chi è capace di acquisire più potere nei confronti degli altri ed anche nei confronti dell’esterno. Non è raro, inoltre, il ricorso al simbolismo, ad un linguaggio coperto legato anche all’uso di gesti tipicamente rituali e segreti ed al fiancheggiamento di personalità insospettabili, che ne traggono dei vantaggi.
Delineato, in linea di massima, il profilo di questo tipo di organizzazione, definita mafiosa, non vi sembra che esso ricalchi in linea di massima quello della massoneria? In effetti si cominciò a parlare di mafia solamente dopo che nacque la massoneria nel 1723, anno in cui uscì pubblicamente una costituzione dei cosiddetti “liberi muratori”. Tale costituzione, nata in Inghilterra, antepone alle regole vere e proprie in essa elencate, il principio di fratellanza, fedeltà e mutuo soccorso fra gli adepti, chiamati “muratori”, al di sopra di interessi politici e partitici. In essa vengono elencate regole, norme etiche di comportamento, doveri, riti, riconoscimenti apicali e quant’altro che ritroviamo similari proprio nelle organizzazioni mafiose. Non solo, ma viene anche definita la strutturazione in campo nazionale e mondiale con la creazione delle cosiddette “logge”. A tale costituzione ne seguirono altre con nascite di logge in Francia, in Scozia, negli staterelli italiani ed in tutta l’Europa Naturalmente la costituzione originale subiva delle variazioni ambientali, ma in linea di massima, il fulcro dell’apparato era del tutto uguale. E’ inoltre da dire che il 1723 è la data di nascita ufficiale della Massoneria (scusate non ho ancora detto che questo termine viene dalla parola francese “masson”, che significa appunto muratore.), ma in effetti già nel 1600 vi erano delle corporazioni di arti e mestieri, spontaneamente nate, di liberi lavoratori o muratori, con applicazione di quanto infine venne sancito ufficialmente in quella data. Proprio per questo motivo, infatti, la Massoneria è definita l’Associazione dell’Arte. Naturalmente sto semplicemente dicendo che la mafia è strutturata secondo il modello massonico e che il suo modo di essere ricalca in generale i principi propri della massoneria e che inoltre quest’ultima è nata molto prima che si parlasse della mafia in Sicilia ed altrove.
Se quindi, la mafia affonda le sue radici nella Massoneria, come fa ad essere un prodotto sociale autoctono della Sicilia? La realtà è che essa venne importata in Sicilia, insieme a tutte le altre cosette gradevoli o meno che altri popoli ci hanno propinato nei secoli. Sicuramente Sicani, Siculi, Greci, Romani, Arabi, Normanni Svevi e quant’altro non sapevano che cos’era la mafia, nata molto tempo dopo e filosoficamente da attribuire alla corrente filosofica dell’Illuminismo (1700). Prima di assumere i connotati oggi raggiunti, la mafia, che io considero una “loggia massonica”, magari irregolare e non riconosciuta dalla Massoneria ufficiale, definì il suo profilo in tutta l’Italia ed anche in Europa grazie soprattutto al sistema del Feudalesimo. Infatti , vista la impossibilità del controllo centrale da parte dello stato della giustizia, la cittadinanza, per lo più contadini ed artigiani, fecero ricorso alle corporazioni che garantivano la loro sicurezza contro i briganti ed i grassatori; chi riusciva a diventarne il capo acquisiva quindi un potere totalmente riconosciuto, che egli gestiva imponendo le sue regole. Nasceva così il capo, il “boss mafioso”, l’impositore delle sue personali regole per assicurare la sua giustizia con richieste di tangenti e rispetto. Sono i primi vagiti della mafia di tipo contadino per lo più gestito dal signorotto del luogo, che, alla bisogna assoldava degli sgherri al suo servizio e, se del caso, intavolava rapporti ed accordi con i briganti. Successivamente con il progredire dell’intervento statale negli affari economici, gli appetiti si affinarono e si allargò sempre più il campo d’azione dell’interesse delle varie famiglie mafiose. In Sicilia in un primo momento abbiamo importato il “prodotto finito” della mafia contadina, che grazie a Dio, (scusate volevo dire alla mala politica) si è evoluta benissimo e di pari passo con le altre regioni d’Italia ed anche in altri settori economici, con la diffusione della leggenda metropolitana che è la mafia isolana ad aver contagiato le regioni del Nord, “ca mischineddi sumportanu puru chistu da Sicilia, oltre all’onere di mantenerci.”
Lungi da me il sospetto di una difesa della mafia siciliana, che anzi è da estirpare radicalmente per il bene delle istituzioni e dei cittadini. Voglio semplicemente dire che essa , sin dalla sua nascita, non è stata una nostra prerogativa e nemmeno un nostro fenomeno locale, poiché si è manifestata similmente, ed anche prima che da noi, in altri comparti sociali europei. Voglio inoltre ribadire che non ha radici nel modo di essere siciliano, ma in quello filosofico mondiale scaturito dal movimento illuminista fondato sulla “Dea Ragione” a superamento delle culture religiose anche nel campo etico e sociale.
LA GIUSTIZIA E CARLO V
Se mai siete stati a Palermo, avrete senza meno notato in Piazza Bologna una statua , dove è raffigurato un uomo vestito alla romana con il braccio destro teso in avanti e la mano con tutte le cinque dita aperte. Non dovete pensare che tale monumento sia stato innalzato ai tempi di Benito per ricordare ed eternare il saluto fascista e nemmeno, come dice qualche buontempone, per esternare che a Palermo “a munnizza è auta tanta”. La sua erezione è più antica e rappresenta niente po’ po’ di meno che l’imperatore Carlo V, nell’atto di mostrare al popolo il numero dei giudici (cinque) che egli fece scorticare vivi. Naturalmente dietro questo gesto vi è una leggenda fiorita a Palermo a tutto vantaggio della propaganda del buon governo di questo imperatore, che godette di un’ottima popolarità nella città siciliana intorno al 1535, subito dopo la battaglia di Tunisi che decretò la vittoria finale sull’islamismo arabo. In verità pare che a quei tempi la giustizia lasciasse a desiderare molto. A tal proposito cito le vicende storiche degli Spagnoli a Milano, ricordate dal Manzoni nel suo celebre romanzo dei “Promessi Sposi”, dove si racconta appunto la soverchieria di un certo Don Rodrigo di impedire al povero Renzo di sposare la sua Lucia, che cessò soltanto per l’intervento della Provvidenza Divina. Ebbene anche a Palermo, come a Milano, le cose non andavano molto bene ed i Palermitani, sotto l’impulso della fama dell’imperatore attribuivano questa assenza di giustizia agli avvocati ed ai giudici, palermitani certamente, che pur fregiandosi degli onori non facevano bene il loro lavoro. Ricordate l’incontro del povero Renzo a Milano con l’Avvocato Azzeccagarbugli? Quando quest’ultimo, anche se semplice avvocato, capì che era in causa nella questione quel Don Rodrigo famoso, mandò al diavolo il povero Renzo, che ragione aveva ma non era nessuno. Ebbene qualcosa di simile avveniva anche a Palermo La leggenda vuole che l’imperatore, sollecitato dalle tante proteste dei cittadini intorno ad una caso specifico di un uomo, che pur avendo ragione, venne condannato a perdere tutti i suoi averi, sia intervenuto nel giudizio finale in incognito ed ascoltata la iniqua sentenza sia intervenuto facendo arrestare i cinque giudici condannandoli per di più ad essere scorticati vivi. Le cinque dita aperte della mano stanno a significare enfaticamente che i giudici puniti furono cinque. Naturalmente si tratta di una leggenda, che, però, ha il suo fondamento umano oltre che storico. In effetti questo imperatore apportò delle innovazioni importanti nella pubblica amministrazione ed in particolare nel campo della Giustizia, rimuovendo qualche giudice corrotto ed anche ripristinando di fatto la sua autorità, che per lungo tempo era stata devoluta a dei Vicere non molto adatti a disimpegnare le loro funzioni e, diciamolo pure, anche corrotti. E’ fuor di dubbio che la sua opera venne apprezzata dai Siciliani e la statua ne simboleggia, in questa chiave, l’opera riformatrice ed efficace.
Inoltre, nonostante ciò, vi è la considerazione che quasi sempre la mala giustizia è sempre attribuita a chi direttamente la esercita, ossia ai giudici, senza magari tener conto che le leggi possono non essere adeguate ed anche la tendenza da parte del popolo a voler sempre giustificare e gratificare, a torto o ragione, l’opera di chi detiene il potere assoluto e non di chi esercita il giudizio. Purtroppo la statua si presta pure a questa umana interpretazione.
Ai nostri giorni, purtroppo, si sta verificando un’altra tendenza di valutazione molto pericolosa, quella di voler attribuire a certi settori della Giustizia, una partigianeria partitica. Sentir parlare di Magistratura di sinistra e di Magistratura di destra, come propagandano i mass-media, ha un cattivo impatto sull’opinione pubblica, poiché la Giustizia non può e non deve essere di parte. Penso che magari i giudici possano sbagliare nell’esercizio delle loro funzioni, come ai tempi di Carlo V, e che quindi debbano essere chiamati a rispondere anche loro del cattivo operare, esattamente come ammonisce la statua di Piazza Bologna Palermo, ma è bene non dare loro delle connotazioni di parte che potrebbero risultare molto pericolose e nocive per la democrazia.
GIUFA’
“E chi si’ Giufà !” Chissà quante volte vi siete sentito dire questa frase dopo aver combinato qualche sciocchezza. Anzi mio nonno era solito aggiungere: “ma chi fai comu a Giufà, ca s’impunivu a porta e si ni jvu?” Questo appellativo, che qualcuno vuol attribuire ad un derivato dell’arabo, in effetti, come sostiene il Traina nel suo dizionario siculo-italiano del 1866, altro non è che lo storpiamento di “Giuvà”, forma tronca di Giuvanni, in “Giufà”. E’ comunque da dire che questa figura di sciocco-furbo condivisa in tutta la Sicilia trae origine da una figura similare propria del mondo arabo. (Goha). Per un certo verso, quindi gli Arabi ci entrano.
Non resta da dire chi è esattamente “Giufà”. E’ il classico furbo, convinto di fare sempre le cose in modo inappuntabile, che però ottiene immancabilmente dei risultati deludenti perché è fondamentalmente sciocco. E’ quindi una figura fuori dello spazio e del tempo alla quale si fa assumere ogni stoltezza per allontanarla dal comune modo di vedere le cose. Infatti è questo il tema di tutte le favolette e di tutti gli epiteti di “Giufa”, di cui abbonda la favolistica siciliana, dove sia il narratore e sia il lettore si tirano fuori dalle vicende dimostrando la loro estraneità e superiorità rispetto al personaggio. Tanto per capire bene il loro significato, cito quella che ho all’inizio messo sulla bocca di mio nonno. Un giorno la mamma disse a Giufà: - Sto uscendo per andare in chiesa. Quando sei pronto, “tirati a porta” e vieni anche tu. – Quando fu pronto Giufà che fece? Tirò la porta dai cardini, se la mise sulle spalle e la portò in chiesa per consegnarla alla madre. Ovviamente narratore e lettore condividono il comune sentire dell’enormità dell’episodio, al quale loro non avrebbero mai dato vita. Facendo un paragone con le altre maschere italiane, mi sembra di non trovarne alcuna con le stesse caratteristiche di Giufà, che diventa, così, un espressione tipica della sicilianità consapevole della stoltezza e dei limiti imposti dall’intelligenza.
L’ARVULU DE’ CENTU CAVADDI
Avete mai sentito parlare dell’albero dei cento cavalli? Esso si trova in Sicilia ed è un castagno vecchissimo e di un apparato di rami e foglie tali da poter riparare dagli agenti atmosferici la bellezza di cento cavalli (uno più, uno meno aggiungo io!). Esso si trova nel comune di S. Alfio in provincia di Catania, dove vi sono molti alberi di castagno ed anche vetusti, ma questo è il più vecchio di tutti ed è immenso. Deve la sua fama ed il suo nome (l’arvulu de’ centu cavaddi), ad una leggenda. Pare che la Regina di Napoli Giovanna I D’Angiò’, trovandosi in Sicilia sulle falde dell’Etna per una partita di caccia, per ripararsi dalle intemperie e dal vento abbia trovato rifugio sotto quest’albero con tutta la sua scorta, che era di cento cavalieri. Almeno questo si racconta, ma, è stato storicamente accertato che la regina in questione non ha mai messo piede in Sicilia. Probabilmente la leggenda è nata per indicare che quell’albero è cosi mostruosamente grande da essere accostato alla dissolutezza di questa regina, considerata mostruosamente dissoluta e tanto da avere di bisogno di cento cavalieri a seguito!
Una credenza paesana attribuisce invece a questo albero dei poteri magici, secondo la quale una coppia, regolarmente sposata, per avere la certezza di avere dei figli maschi, deve fare l’amore sotto le sue fronde, non importa se di giorno o di notte. Se corrisponde a verità sinceramente non lo so, poiché … non ho mai provato!
FRANCAVILLA DI SICILIA
Indubbiamente l’episodio storico dei Vespri Siciliani lasciò nel popolo un ricordo molto vivo ed in verità non sempre ostile nei confronti dei francesi. Certamente con gli Aragonesi le cose andarono meglio che con gli Angioini, ma, come sempre, un periodo storico lascia sempre una scia di nostalgia. Del resto anche ai nostri giorni, nonostante i disastri lasciatici in eredità dal brutto periodo del ventennio fascista, esistono i cosiddetti nostalgici del passato regime.
Francavilla di Sicilia è una cittadina del messinese quasi al confine con la provincia di Catania e deve il suo nome alle franchigie ed ai privilegi che intorno al 1090 ottenne dal Conte Ruggero. Nonostante ciò, intorno al 1500 nacque una leggenda storico-romantica sulla fondazione di questa cittadina, frutto di un nostalgico ricordo della dominazione francese. Si racconta che il grande ammiraglio Ruggero di Lauria avesse una figlia di nome Angelina. Quest’ultima era di una bellezza favolosa tipica nostra siciliana e tale da far innamorare anche un principe, come in effetti avvenne. Invitata insieme al padre alla corte del Re di Francia, la fama della sua bellezza e della sua dolcezza trovò un grandissimo alimento in quell’ambiente. Dopo che essi ritornarono in Sicilia, il Delfino, punto dalla curiosità di cotanta fama, all’inizio dell’anno 1282, venne anche lui in Sicilia per conoscere la bella Angelina. Come era prevedibile se ne innamorò pienamente ricambiato. Ebbe così inizio la favola bella tra i due, ma ecco che a Marzo dello stesso anno scoppiò la famosa rivolta dei Vespri Siciliani. Naturalmente il Delfino, che francese era, dovette fuggire, ma disse alla sua innamorata che sarebbe ritornato per condurla con sé in Francia. Le disse, pertanto, che per avvisarla del suo arrivo avrebbe acceso sul monte Rotondo che costeggia il paese di Castiglione di Sicilia, nei pressi del fiume Alcantara, tre fuochi. Era quello il segnale. Lei non avrebbe dovuto fare altro che raggiungerlo e fuggire in Francia insieme a lui. La fida ancella di Angelina, che si chiamava Franca, venne incaricata di scrutare ogni sera l’orizzonte per rilevare il segnale convenuto, che alla fine arrivò. Fu così che la bella Angelina ed il suo Delfino raggiunsero la Francia e si sposarono vivendo felici e contenti alla corte del Re. Fu così che il Delfino, diventato Re, fondò in Sicilia una cittadina, che per ricordare i servigi dell’ancella Franca, venne chiamata Francavilla. Ovviamente la leggenda non ha un fondamento storico, anche se molto romantica, poiché i francesi, dopo la cacciata dei Vespri Siciliani, non ebbero alcun potere in Sicilia; figuriamoci se avessero potuto fondare una cittadina, che tra l’altro esisteva già da molto tempo! E’ chiaramente evidente il rigurgito nostalgico di un periodo storico passato.
FALARIDE
Da ragazzino, sentivo sovente dire ad una mia zia la frase “Lassalu pérdiri a chissu ca è strafalariu e niglittariu”, rivolta ad una mia cugina molto più grande di me, la quale si era innamorata di un bellimbusto, non gradito alla madre. Pur avendo capito il senso di quella frase, non mi rendevo conto di quelle parole alquanto strane ed inusuali. Che significava “strafalariu”? E quell’altro termine “nighlittariu” proprio non lo capivo. Mi resi conto dell’effettivo significato di quest’ultimo quando ebbi il contatto culturale con il latino alla scuola media. Mi imbattei nel termine “nihil”, che in italiano significa niente, e capii che quel “nighlittariu” aveva qualcosa in comune con esso. Non poteva significare che “uno che non vale niente”. La conferma mi venne dopo quando sul Dizionario siciliano-italiano di Vincenzo Mortillaro trovai il termine similare di “nighlittusu”. Molto più complesso mi venne capire il vero significato di “strafalàriu”. Certamente significava “uno che fa male le cose”, nel senso di una persona fuori dal comune, che fa delle cose strane e non certo buone. Capii esattamente tale significato e quello dell’aggettivo “lariu” (Chi si ricorda il famoso giornaletto satirico catanese “U LEI E’ LARIU”?) quando mi imbattei nella figura di un personaggio storico: Falaride. Chi era costui? Un tiranno dei primi tempi della Sicilia. Dopo il 580 A.C., anno in cui venne fondata Akagras dai Gelesi per motivi militari, costui ebbe il potere di impossessarsi del dominio della nuova città imponendo delle tasse esose e compiendo delle orrende persecuzioni nei confronti dei cittadini ed al punto tale da far arricciare il naso all’ottimo Stesicoro Etneo, il quale per impedire l’ulteriore espandersi del suo potere su Himera, a quei cittadini raccontò la favola del cavallo che per cacciare il cervo dal suo prato finì per farsi cavalcare dall’uomo. Egli imperversò per ben 16 anni sul governo della città e ne combinò di cotte e di crude, anzi più cotte che crude, poiché come racconta Diodoro Siculo e come anche canta Pindaro nel 470 A.C., egli aveva un toro di bronzo cavo dove faceva mettere i suoi nemici riscaldandolo fino a farli cuocere vivi e le cui grida, simili ai muggiti dell’animale, facevano turare le orecchie agli Agrigentini. Di lui disse male anche lo stesso Aristotele, non lesinando le odiosità commesse. Infine Falaride fece una brutta fine, come del resto succede quasi sempre ai Dittatori pagando lo scotto delle sue nefandezze Nel 554 AC la popolazione di Agrigento si ribellò ed egli venne ucciso a furor di popolo durante la sommossa, ma il linguaggio popolare non dimenticò quel nome che divenne la radice di una parola indicante una cosa o persona brutta, appunto l’aggettivo “làriu” con tutti i suoi derivati. Un’altra curiosità è quella che con la morte di Falaride ad Agrigento venne bandito l’azzurro, che era il colore preferito dal dittatore.
RIBELLIONI
Ho a lungo parlato di Ducezio, dicendo che quest’uomo è il primo degli eroi che si è eretto a difesa della sicilianità e che quindi è da considerare il precursore ed il corifeo delle idee di un futuro partito indipendentista siciliano. Egli non è l’unico nella lunga storia della Sicilia. Altri siciliani naturalizzati e provenienti da altre parti del mondo lo hanno egregiamente imitato nel cercare di far sollevare la Sicilia, senza purtroppo riuscire nell’intento e facendo la sua stessa povera fine. Non ultimo il famoso bandito del dopo guerra Salvatore Giuliano, che per quanto vituperato, anche lui inalberò, pur se costretto da una particolare situazione, alcuni concetti di libertà propri del modo di sentire siciliano. Ma andiamo con ordine.
Dopo la capitolazione di Siracusa per opera del console Marcello, tutta la Sicilia entrò a far parte dell’orbita romana e, quindi, subì le stesse vicissitudini della Repubblica latina con tutti i suoi vantaggi e con tutte le sue contraddizioni sociali. I romani avevano il vezzo, molto vantaggioso per tutti, di estendere la propria cittadinanza a tutti i popoli che sottomettevano. Così avvenne anche per la Magna Grecia ed in particolare per la Sicilia, creando quella fusione di costumi ed usanze greco-romane che ancora oggi è possibile rilevare, per esempio, a Catania da quei pochi reperti risparmiati dalla lava e dai terremoti. Questo fatto si tradusse per tutta la Sicilia in un periodo di tranquillità sociale, anche perché molte famiglie romane si trasferirono nell’isola essendo risultate assegnatarie di vaste estensioni di terreno. Fu appunto da una situazione politica romana che in Sicilia avvenne una prima sommossa. A prescindere dalle ruberie di Verre che venne sconfessato ed anche condannato dal Senato Romano, avvennero ancor prima a Roma dei tafferugli politici in cui furono coinvolti Caio e Tiberio Gracco. (Ricordate che qualcuno mise in bocca alla madre la famosa frase riferita ai suoi figli: “questi sono i miei gioielli” ?). Alla base della lotta dei Gracchi, primi difensori del proletariato “ante litteram”, vi era la loro opposizione dichiarata all’estendersi del latifondo in tutto lo stato latino, che incrementava l’impiego della manodopera degli schiavi. Questo loro modo di vedere le cose ebbe delle ripercussioni maggiori proprio in Sicilia, dove era avvenuto l’espandersi di questo fenomeno per l’assegnazione ai veterani di larghe fette di territorio, gestite con l’impiego di molti schiavi acquisiti da altre popolazioni vinte dai romani. Eliminati i Gracchi e la loro politica, il malumore rimase a livello endemico proprio in Sicilia, dove scoppiarono ribellioni individuali di schiavi siciliani, che sfociarono in attività di brigantaggio, fino a quando non venne fuori un personaggio di una certa abilità politica e militare, che la trasformò in aperta ribellione. Si trattava dello schiavo EUNO D’APAMEIA, proveniente dalla Siria, ma ormai siciliano per costrizione. Sfruttando le sue cognizioni militari ed il suo carisma, riuscì ad organizzare le varie bande di schiavi, in un esercito vero e proprio, che si mosse alla conquista dell’isola inseguendo l’ideale della libertà. Conquistò la città di Henna (Enna), facendone la sua roccaforte. Ad Henna seguì Akagras (Agrigento) facendo lega con un altro capo banda, lo schiavo CLEONE, che rimase suo sottoposto. Ad un certo punto Euno si trovò ad essere il capo di un esercito forte di 20.000 schiavi armati, con i quali marciò su Tauromenum e Katana, (Taormina e Catania) conquistandole ed imponendo il suo potere indiscusso e la proclamazione di libertà da Roma. Novello Ducezio, si proclamava capo della Sicilia liberata. A questo punto Roma capì che la vicenda era sempre più grave e nel 135 AC inviò nell’isola il console Lucio Ipseo alla testa di 8.000 legionari, che venne sconfitto. L’anno successivo un’altra spedizione capeggiata dal console G. Fulvio Flacco cercò di riequilibrare la situazione, senza risultati favorevoli, finché nel 132 AC il console PUBLIO RUPILIO, ottenuto un contingente di uomini più consistenti non riuscì a sbaragliare le bande armate degli schiavi, passando per le armi i loro capi. Euno riusci a sfuggire, ma alla fine venne catturato e portato in catene a Roma, dove subì la stessa sorte di tutti gli schiavi ribelli.
Con la cattura di Euno, l’ordine venne ristabilito in Sicilia e pure la restaurazione della schiavitù, ma il seme buttato tempo prima dai Gracchi continuò a germogliare in seno alla Repubblica. Questa volta, nel 104 AC, a ribellarsi furono Capua e Nucera in Campania e successivamente anche l’intera Sicilia. Il motivo della rivolta era l’applicazione disattesa del decreto dell’oppositore di Silla, Mario, che sanciva la libertà degli schiavi originari degli stati clienti di Roma. Siamo ancora ai primi rudimenti di lotta del proletariato, allora costituito dagli schiavi, contro la classe dei nobili, costituiti dai veterani e dalle famiglie più abbienti. Il pretore Lucio Lucullo, con 4.000 uomini ebbe ragione dell’esercito raccogliticcio di schiavi delle due città italiche. In Sicilia la situazione fu molto più complessa. La rivolta scoppiò ad Alicia ed a guidarla era lo schiavo ATENIONE, proveniente dalla Cilicia. Ad essa aderirono anche tutti quei siciliani che pure essendo liberi non godevano dei vantaggi degli assegnatari di terreni da parte dello stato. Guidava questi ultimi un capo popolo di nome SALVIO, che indicò ai ribelli per la seconda volta il sacro territorio dei Palici, come estrema difesa contro il console romano Licinio Nerva, che infine li ridusse alla ragione. Siamo già agli albori di una economia che cominciava a distinguere tra classi ricche e classi povere (plebe e patrizi). Atenione, proclamatosi Re di Sicilia, si insediò nel territorio del Trapanese. Forte di 14.000 uomini fronteggiò le truppe del console Licinio Nerva, che infine riuscì a snidarlo dalla sua roccaforte, grazie al tradimento di uno dei capi dell’esercito ribelle, un certo Gaddeo al quale fu promesso il perdono di Roma. (Nulla di nuovo sotto il sole, il pentitismo c’era anche allora!) Atenione con pochi fedeli riuscì a sfuggire alle truppe romane ed a rifugiarsi a Triocala, l’odierna Caltabellotta. Qui riuscì a riorganizzare le sue file e ad opporre una fiera resistenza alle legioni romane, finché Roma non decise di inviare nell’isola il console Lucio Lucullo, ormai libero dagli impegni militari di Capua e Nucera. L’esercito romano, forte di 20.000 legionari, ebbe in questo modo ragione dei ribelli. Atenione si rifugiò nuovamente in Caltabellotta da dove venne definitivamente snidato nel 101 AC dal successivo console romano Manlio Aquilio, che lo condusse in catene a Roma, dove venne inviato al circo per essere sbranato dalle belve. Da questo momento agli schiavi isolani, fortemente decimati dalle truppe romane, passò ogni desiderio di ribellione, tanto che Spartaco, l’ultimo degli schiavi ribelli di Roma, non trovò proseliti in Sicilia ormai totalmente rappacificata ed inoltre “i cittadini romani” di Sicilia non dettero più segno di incomprensione nei confronti del governo centrale. La Sicilia diventa una tranquilla provincia della città eterna, di cui segue le stesse vicissitudini, senza alcuno spunto di individualismo politico. Resta indifferente alla lotta tra Cesare e Pompeo ed a quella tra Augusto e Marcantonio, subendone i disagi. Sembra che una coltre di abbandono sia caduta su tutta l’isola, che subisce la stessa sorte delle rimanenti province dell’impero, senza più ricorrere alla rivolta. Bisogna attendere il 30 Marzo 1282 per assistere ad una vera ribellione di popolo contro l’autorità precostituita di turno, rappresentata dagli Angioini. E’ la famosa ribellione dei Vespri Siciliani. In verità vi furono ben due pronunciamenti militari in Sicilia sotto la dominazione bizantina contro l’imperatore di Bisanzio. Ma esse furono semplicemente due rivolte messe in atto dai militari, alle quali la popolazione siciliana non partecipò e nemmeno recepì. Neppure l’essere diventata Siracusa per un brevissimo periodo la capitale dell’impero romano d’oriente al posto di Bisanzio, scosse i siciliani dalla loro apatia. Ma questa ribellione dei Vespri non esprime un capo organizzatore, un eroe del popolo da additare come esempio e simbolo della sicilianità. E’ tutta la popolazione che si muove spontaneamente senza bisogno di essere guidata da un capo carismatico. Sembra che ogni cittadino sappia quale sia il suo ruolo, che è quello comune della libertà dagli oppressori e di essere, sotto questo aspetto, in presenza di una anticipazione di quella che sarà la rivoluzione francese del 1789. Risoltasi la ribellione dei Vespri Siciliani con la elezione ( non certo da parte del popolo) di un nuovo re (non certamente siciliano), bisogna attendere la figura di GIUSEPPE GARIBALDI per individuare un liberatore, considerato un eroe, anche se siciliano non era. I moti mazziniani, che pur presero piede anche in Sicilia, non riuscirono ad esprimere un vero trascinatore delle masse isolane. Vi furono si dei martiri siciliani dei moti mazziniani, ma la massa della popolazione non si lasciò coinvolgere del tutto nella lotta liberale del periodo in questione. La Sicilia si adagiò sull’andazzo generale pur covando nell’intimo il desiderio di libertà e di indipendenza dal resto dell’Italia. Ci fu anche un momento, dettato da questo desiderio di una Sicilia indipendente, quando i Siciliani accolsero quasi con gioia la cacciata da Napoli dei Borboni, costretti a riparare a Palermo, nutrendo la speranza che sarebbe stata quella la soluzione finale: il Regno di Sicilia e non quello delle due Sicilie. Ci pensò l’Ammiraglio Horazio Nelson ad impedire tutto questo riportando i Borboni a Napoli. Quando Garibaldi sbarcò a Marsala i Siciliani credettero nel liberatore, cioè in colui che sarebbe stato capace di affrancare l’isola, magari accettandolo per sempre come Dittatore (cosa che temeva il Cavour!) e quando si accorsero che così non sarebbe stato, incominciò a serpeggiare la ribellione anche nei suoi confronti. Bisogna ricordare che a Bronte il fedelissimo di Garibaldi Nino Bixio dovette adoperare le maniere forti contro i cittadini e che il voto plebiscitario di annessione all’Italia fu una vera messa in scena sotto le armi dei Garibaldini. Anche quando si fondò infine il Regno d’Italia, il brigantaggio che prese piede, alimentato dai Borboni e dal Papato, non riuscì ad assurgere a piena ribellione nei confronti dei Piemontesi. Pur fortemente politicizzati i briganti non riuscirono ad esprimere un loro capo carismatico capace di guidare tutto il popolo verso la libertà. Tuttavia, lo spirito di indipendenza, e con esso il malcontento, cresceva sempre di più nella popolazione isolana. In proposito ricordo il famoso movimento dei fasci siciliani ad opera dei contadini, che comunque non approdò a nulla di concreto, nel senso di aperta ribellione Finita la seconda guerra mondiale, rifiorì questo spirito di libertà, inalberando anche il sogno di poter diventare la 51^ stella degli USA. Di questo sogno cercò di farne una realtà SALVATORE GIULIANO, bandito per caso fortuito. Ma quest’ultimo non ebbe un vero forte seguito. Lo seguivano ben poche persone e nonostante la sua fama di bandito dal cuore d’oro e di novello Robin Hood, restò sempre nell’ambito del brigantaggio, cioè, un fuorilegge manovrato maldestramente da gente che aveva ben altre mire che il bene dell’isola. In ogni caso anche lui fece la stessa fine di Ducezio, Euno ed Atenore con la semplice differenza di non essere stato mai arrestato, essendo stato eliminato in un modo che ancora oggi risulta misterioso. Venne trovato morto in un cortile di Castelvetrano, crivellato di colpi d’arma da fuoco. Si disse che furono i carabinieri ad ucciderlo non essendosi arreso. Ma poi si scoprì che era stato lasciato morto avvelenato e che i colpi sparati sul suo cadavere erano avvenuti dopo la morte per nascondere una alquanto contorta verità. Dalle vicende successive e dalla morte del suo presunto uccisore Gaspare Pisciotta, avvenuta in carcere per veleno e del di lui padre, emerse quale mandante del delitto la mafia, che intese consegnarlo in questo modo alla polizia, essendo ormai d’intralcio ai suoi affari. Vi fu una trattativa Stato – Mafia?... E chi lo sa?!...Tutta la vicenda dette luogo a polemiche e ad illazioni, cui fu coinvolto l’allora ministro degli Interni Mario Scelba, democristiano ed ex allievo di Don Sturzo, senza alcun esito chiarificatore. Un’altra differenza è da registrare ancora tra i personaggi eroici sopradetti. Mentre ad occuparsi dei primi sono ormai i libri di storia ed a nessuno è mai venuto in mente di rispolverare le loro gesta, tranne che per Garibaldi ancora osannato, per il bandito Turi Giuliano oggi in Sicilia c’è ancora chi lo ricorda e tiene vivo il suo mito, traendone anche un “business” turistico non indifferente. Provate ad andare a Montelepre, il paese dove è nato Salvatore Giuliano e resterete sbalorditi di vedere un hotel ed un ristorante a lui intestati, nonché la vecchia casa dei genitori trasformata in museo, l’indicazione dei percorsi segreti ed il cunicolo di cui si serviva per raggiungere i suoi in barba alla sorveglianza della polizia, le indicazioni più dettagliate della vita del bandito, oltre che murales di sue fotografie equestri oppure con il classico schioppo a tracolla e la coppola in testa. Il tutto ben servito dall’accompagnamento di guide che vi rendono edotti della vita e degli amori del celebre cittadino, considerato un vanto del paese. Diciamo, senza ombra di dubbio, che Montelepre oggi vive del mito di quest’uomo, che non è ricordato come un bandito, ma come un eroe perseguitato dalla sfortuna e dalla legge. Anche questo è Sicilia: circondare di gloria un assassino (perché tale fu infine!) che seppe tenere fronte all’Autorità Costituita e che dovette subire l’ingiuria del tradimento, per essere vinto.
Di tutti i grandi capi rivoluzionari della Sicilia a non lasciarci la pelle, l’unico fu Giuseppe Garibaldi, che rischiò comunque di perderla sull’Aspromonte in Calabria per altri motivi. Egli diventò uno scomodo simbolo nelle mani del governo piemontese e, quando capì che era finito il suo tempo si ritirò in volontario esilio a Caprera, dove morì di morte naturale. Oggi, come non mai risulta chiaro che a muovere l’azione di Giuseppe Garibaldi non fu l’amore per la Sicilia, ma la sua indole di rivoluzionario ad ogni costo, che trovò la piena realizzazione grazie ai maneggi del Cavour, il vero artefice dell’unità d’Italia. Diciamo, dunque, che non fu un vero eroe fatto in casa, cioè, un eroe tipicamente siciliano. Del resto la storia gli ha affibbiato quello più magniloquente ed appropriato di “Eroe dei due mondi”.
SAN FILIPPO E LIMINA
Se la festa della Santa Pasqua è l’ecatombe degli agnellini nel mondo cristiano, la festa di San Filippo d’Agiria nel comune di Limina in Sicilia è l’ecatombe dei loro padri, i montoni. La tradizione di mangiare a Pasqua carne di agnello ha origini bibliche. Quando Mosé, non venne esaudito dal Faraone di far andar via gli Ebrei verso la terra promessa, gli Egiziani vennero colpiti dalle famose piaghe. Una di queste prevedeva che l’angelo del Signore avrebbe di notte colpito a morte tutti i primogeniti degli Egiziani e per dargli giusta indicazione, Mosé ordinò agli Ebrei di ungere con il sangue di agnelli immolati al Signore gli usci delle loro case. Per inciso, l’agnello era considerato l’animale sacrificale del popolo d’Israele e lo divenne anche per i Cristiani, tanto che Gesù venne poi detto “l’agnello di Dio che toglie i peccati del Mondo”. La strage dei montoni a Limina trae origine da un fatto leggendario che riguarda San Filippo ed è anche collegata ad una vecchia tradizione pagana traslata in evento cristiano. Era San Filippo un discepolo di San Pietro, che aveva il dono di curare gli indemoniati. In poche parole era un esorcista. Un altro santo esorcista, Calogero, ebbe la rivelazione divina che la pagana Sicilia pullulava di demoni. Allora San Pietro ve li inviò entrambi dalla Palestina con altri due illustri scacciatori di diavoli con il compito di riportare all’inferno i nemici di Dio. Questi missionari, a forza di recarsi all’inferno per condurvi i demoni tra le fiamme erano tutti neri in faccia, come tanti “Cifiri” (luciferi). Quindi San Filippo, che forse più di tutti era annerito in viso a causa del suo intenso operare, scelse la località di Argirio (l’odierna Agira), dove vi era un tempio dedicato ad Eracle ed Iolao. Qui operò distruggendo il culto del semidio greco e convertendo molti pagani alla cristianità. Non operò solo ad Agira, ma anche in altre località dell’isola, tra le quali appunto Limina, un paesetto tra i monti dell’entroterra Taorminese nei pressi di Roccafiorita e Monciuffi. Il paesetto deve il suo nome al termine latino “limen”, che significa proprio terra di confine. Dovunque arrivasse, San Filippo convertiva la gente, scacciava i demoni e compiva miracoli. Quando morì scoppiò tra i vari paesi visitati dal Santo una contesa per chi dovesse conservare il suo corpo. Alla fine esso restò ad Agira, ma i “Liminoti” non si rassegnarono e notte tempo i pecorai del paese trafugarono la salma per portarla a Limina. Durante il percorso di ritorno a piedi con le spoglie del Santo, decisero di fermarsi nello spiazzo di “Murazzo” per riposare e rifocillarsi e non avendo altro cibo a disposizione macellarono alcuni montoni del loro gregge per cibarsene insieme a delle cipolle crude e del pane, naturalmente annaffiando il tutto con abbondante vino che era la bevanda del luogo. Per ricordare questo episodio, ogni anno il 10 maggio i “Liminoti” organizzano di sera a “Murazzo”, dove hanno anche eretto una cappella dedicata al Santo, una cena votiva, naturalmente a base di pane, carne di montone, cipolla rossa e vino in abbondanza. Ecco che il giorno prima vengono macellati questi poveri montoni che vengono affettati ed arrostiti alla brace su focolai improvvisati. Il tutto naturalmente in onore di San Filippo, ma è stato storicamente accertato che qualcosa di simile avveniva tra i pastori di Agira in onore di Eracle con i montoni vittime sacrificali e con solenni ubriacature. In un primo momento era proibito alle donne di partecipare a questo cenone estemporaneo, ma da quando esse hanno imparato ad usare i pantaloni, partecipano disinvoltamente anche loro e si uniscono al grido “Evviva San Fulippu, ca cchiù beni lu voli e cchiù forti lu chiama”.
U CUCUDRIGGHIU DA VUCCIRIA.
Se mai avrete modo di parlare con un palermitano edotto degli avvenimenti, anche leggendari, della sua città, egli non ometterà di parlarvi di “lu cuccudrigghiu di la vucciria”. Anche se di leggenda trattasi, anche questa, come tutti i racconti fantastici, ha uno sfondo di verità. Nel caso specifico significa che in Sicilia in effetti questi animali vissero realmente, come del resto viene raccontato a proposito delle ossa del drago ucciso da San Giorgio, che infine risultarono essere quelle di un coccodrillo. Questo coccodrillo di Palermo, di enorme dimensioni, apparve per lungo tempo impagliato ed appeso al soffitto di una bottega della “Vucciria” ( dal francese “boucherie”, che significa macelleria) per poi sparire del tutto, dando spazio ad una leggenda. Palermo, come tutti i primi insediamenti umani, nacque sulla sponda di un fiume, anzi di due fiumi: il Kemonia o fiume del maltempo ed il Papireto o torrente Danissini. Il primo insediamento della città avvenne proprio tra le loro due foci, le quali servivano da ampio porto. Per questo motivo, successivamente i greci la battezzarono “Panormos”, che significa “tutto porto”. Entrambi i due fiumi sono ormai del tutto scomparsi. In effetti essi continuano a scorrere sottoterra ed in particolare il Papireto attualmente sfocia nel fiume Oreto, che attualmente è ridotto ad una fogna a cielo aperto della città. Aggiungo, intanto, che altri corsi d’acqua esistono a Palermo e che tra essi il più importante è il Canale Passo di Rigano. Ma torniamo al Papireto, che è il corso d’acqua che ci interessa. Si chiama così perché è stato tramandato che sulle sue rive cresceva il papiro, come attualmente ancora cresce in Sicilia a Siracusa ed anche sul Nilo in Egitto. Forse per un parallelismo con il Nilo, o forse perché realmente vero, sembra che il Papireto fosse infestato di coccodrilli. Addirittura qualcuno arrivò anche a dire che il fiumiciattolo di Palermo altro non era che un ramo del delta Nilo, che dopo aver attraversato il mare sottoterra, sfociava in quel punto; pertanto ai coccodrilli era permesso di arrivare direttamente dall’Egitto, così come erano arrivati i semi del papiro. Ad ogni buon conto, si racconta che alla fonte detta del Garaffello alla vucciria, alimentata dal Papireto, appariva di notte e di nascosto una bestia enorme a forma di coccodrillo, che per sfamarsi si cibava di “picciriddi” (bambini). La gente era terrorizzata, finché quattro ardimentosi “picciotti” non lo attesero pazientemente ed al suo apparire lo attaccarono squarciandogli la pancia, da dove si sentivano le grida di una bambina inghiottita da poco. I quattro giovani vennero festeggiati da eroi e la bambina visse felice e contenta. Sembra una versione della favola di Cappuccetto Rosso! Un altro fantasioso racconto in proposito parla invece di un coccodrillo enorme comparso a Palermo in un anfratto apertosi nel terreno in seguito al terremoto del 2 Settembre del 1726, che distrusse tutta la città. Quando vennero rimosse le macerie della chiesa di San Procopio presso la “Vucciria”, insieme ai cadaveri delle vittime, fu trovato il corpo di questo enorme coccodrillo morto, che venne impagliato ed appeso al soffitto di una bottega della Vucciria. Fu stabilito da autorevoli studiosi che un uovo di coccodrillo portato dalla corrente, appunto dal Nilo, si fosse dischiuso e che l’animale fosse vissuto nelle acque del Papireto fino al giorno del terremoto. Dopo alterne vicende che si raccontano, questo reperto zoologico improvvisamente scomparve e non ne rimase che il ricordo. Secondo il mio modesto pensiero, qualcuno, magari amante di questi tipi di animali, non trovò di meglio che farne arrivare uno già impagliato dall’Egitto e di averlo appeso al soffitto della sua bottega, mettendo in giro fantasticherie per accrescere l’effetto della pubblicità alla sua merce.
Nulla comunque vieta di pensare alla teoria da me accennata altrove, secondo cui l’area del mediterraneo fosse, prima di diventare mare, una enorme pianura dove flora e fauna terrestre erano comuni all’Europa ed all’Africa e, quindi, queste leggende traggano origine da questo atavico ricordo.
I CIUMARI: FIUME DI NISI
In Sicilia, oltre ai fiumi vivi, morti e fantasmi, vi sono le “fiumare” (I Ciumari). Si tratta dei letti di fiumi torrentizi che scendono a mare dai Nebrodi, dai Peloritani e dalle Madonie , per lo più secchi e pietrosi, che in determinate situazioni, a seconda delle precipitazioni piovose più o meno intense, diventano dei veri torrenti in piena trascinando a mare tutto ciò che incontrano. Di queste fiumare ne troviamo alcune tra Catania e Messina ed altre tra Messina e Palermo, ed alcune di esse sono state causa di disastri ambientali abbastanza rilevanti, causati dalle piogge, per l’urbanizzazione selvaggia lungo gli ultimi tratti del loro percorso a mare. La stessa città di Messina è andata soggetta ad eventi simili essendo attraversata in alcuni punti da questi infidi torrenti. Queste fiumare offrono, in alcuni punti, dei panorami desolati, quasi lunari, per il loro aspetto bianco e ghiaioso, riuscendo a volte a creare tra le valli dei monti degli sprazzi panoramici veramente suggestivi e degli ambienti naturali di vera bellezza.
Una di queste località è FIUME DI NISI, un paesetto di circa 1000 abitanti sui Nebrodi, attraversato dal fiume Nisi, che gli dà il nome. Per raggiungerla, basta abbandonare l’autostrada dopo Sant’Alessio ed inerpicarsi con l’auto lungo la strada interna per Forza d’Agrò. Il paesetto si estende tra le sponde tortuose del fiume, il cui letto in alcuni punti è privo d’acqua, ed attraversato da un ponte veramente da fiaba. Le rade casette, immerse nel verde boschivo circostante, danno un senso di vera pace e serenità. Raramente si incontrano altre macchine e di tanto in tanto nel cielo si possono vedere sfrecciare degli uccelli di rapina. Forse nel terreno circostante vivono delle volpi ed anche molti conigli selvatici. Insomma un posto veramente incantevole, dove è possibile vivere la natura. Un poco fuori del paese, più in alto, vi è una trattoria, in contrada “La Contessa”, a gestione familiare, dove si mangia anche bene e che in inverno forse non opera. Questo paesetto ha anche una storia. Abitato da pastori fin dai tempi più antichi, deve il suo nome a Dionisio, il dio greco del vino, dove la leggenda vuole che venisse a riposare dopo le sue ubriacature e dove pare abbia amoreggiato con Arianna, trovata prima all’isola di Nasso. Infatti il nome Fiume di Nisi deriva da “ Fiume di Dionisio”. Quel “Nisi” altro non è se non l’abbreviazione di Dionisio. Intorno all’anno mille, quando i Normanni sbarcarono a Messina, prima di attaccare direttamente la città, in questa località, molto simile a quelle nordiche di provenienza, fecero la loro roccaforte. Da allora la zona è stata sempre sede di fuorilegge e banditi, che hanno dato molto filo da torcere ai vari governi ed altrettanto fastidio a Messina. Oggi è soltanto una località di villeggiatura tranquilla per gite festive fuori porta da Catania e Messina. Qualcuno sostiene che nel fiume vivano delle trote, ma la cosa mi sembra poco veritiera per la poca acqua che vi si trova.
FIUMARA D’ARTE
Un’altra “fiumara” di rilevanza naturale ed artistica è, sul versante Messina – Palermo. quella di Tusa, soprannominata da non molto tempo “Fiumara d’arte”. Questo immenso letto di bianca ghiaia con qualche raro cespuglio verde che appare qua e là, si snoda in una pianura, coltivata a tratti con vigneti e con poche chiazze di verde per la siccità perenne. Di tanto in tanto si vedono volteggiare dei gabbiani evidentemente in cerca di cibo. Nulla di veramente interessante da un punto di vista naturalistico. Si può notare con evidenza il rude panorama di una Sicilia assolata, desolata e priva di veri stimoli, con le montagne ed il mare ad una ragguardevole distanza e tale da non poter dare alcun vantaggio climatico ed agricolo. Insomma una vera landa deserta, che però ispirò il figlio di un imprenditore edile del luogo, il quale pensò di sfruttare quel desertico ed inospitale luogo con … delle opere d’arte contemporanea. L’idea era quella di fondere quella natura selvaggia con la dinamicità dell’arte moderna, cioè, di evidenziare il contrasto tra due modi differenti: la staticità del luogo con il dinamismo artistico contemporaneo. Costui costruì intanto un albergo in prossimità della riva del mare che faceva parte del suo progetto di “Atelier sul mare”. Si tratta di un albergo particolare di circa 40 stanze, tutte addobbate con particolari trovate artistiche, affidate all’inventiva di diversi artisti contemporanei. Ogni stanza ha la sua caratteristica e rappresenta o uno stato d’animo, o un pensiero o un particolare momento storico, con mobili, colori dei muri, luci e quant’altro adeguati alla rappresentazione artistica creata. Io ho visitato ed utilizzato per alcuni giorni questo albergo e posso assicurare trattarsi di un’esperienza più unica che rara. E’ come visitare un museo e viverci dentro, immergersi con il corpo e con la mente in una realtà metafisica sconosciuta e sorprendente, sia di notte che di giorno, un rivivere le sensazioni dell’artista e sentire le pulsazioni della sua arte. Finché l’imprenditore si limitò all’albergo, non ebbe, da quanto mi risulta, alcuna noia. I guai per lui incominciarono quando dette seguito allo sviluppo del suo progetto, che prevedeva la costruzione di alcune opere monumentali non abitative e moderne nel letto della fiumara e del circondario, regolarmente firmate e realizzate da artisti contemporanei. Venne accusato di costruzione abusive, con l’intervento del Ministero dei Beni Culturali a tutela del paesaggio deturpato. Condanne con ingiunzione di abbattimento delle opere, ricorsi in appello, ripetizione di giudizi, perizie, ad iosa. Infine pare che la vicenda giudiziaria dopo oltre venti anni si sia chiusa in Cassazione con il non abbattimento delle opere, riconosciute non come costruzioni abusive, ma come casi particolari di costruzioni di tutt’altra natura, che sono quindi rimaste lì contro la volontà delle Autorità Costituite e che in effetti rappresentano un’attrattiva non indifferente dal punto di vista artistico e turistico. Insomma un arricchimento del territorio, per il quale lo Stato non solo non ha speso niente, ma ha anche contrastato con veemenza spendendo per di più inutilmente soldi in vertenze che non avevano alcun motivo d’essere e che hanno reso la vita impossibile a questo imprenditore d’arte, Antonino Presti, che ha continuato la sua opera anche altrove con caparbia volontà (Quartiere Librino di Catania). Da quanto mi risulta, in questo periodo molte agenzie organizzano da tutte le località dell’isola delle gite in pullman per visitare l’Atelier d’arte di Fiumara di Tusa) e questo apporta dei benefici economici ad una zona che non ha altre risorse. Non cito tutte le opere, che possono essere comunque viste nel sito di “Atelier sul mare”, poiché desidero suscitare in chi legge l’interesse alla visita, ma alcune le nomino perché mi hanno piacevolmente e particolarmente colpito. Oltre all’albergo, da abitare almeno per alcuni giorni, mi hanno fatto molto riflettere l’ONDA, la materializzazione di un’onda in cemento, la FINESTRA SUL MARE, una enorme cornice quadra in cemento con trave sulla base, FIUMARA AMARA, quasi un teschio cavo in cemento, LA PIRAMIDE ed IL LABIRINTO, che è per me la migliore in assoluto. Si tratta di una ricostruzione fantasiosa in cemento ed a cielo aperto del famoso labirinto di Creta, da visitare percorrendolo a piedi. L’ingresso del labirinto è simbolico e vuole richiamare l’attrazione che ebbe Teseo per Arianna. Infatti ha la forma gigantesca di una vulva femminile aperta. Il labirinto assume così tutta una allegoria evidente, che a quei tempi venne ritenuta blasfema e forse fu la vera causa di tutti i guai dell’imprenditore mecenate. Proprio di fronte all’ingresso di questo labirinto, sopra una collina dirimpettaia sorge un santuario dedicato alla Vergine Maria. Sicuramente l’opera venne considerata un’offesa ed una sfida al comune senso religioso.
LA TOMBA DI MINOSSE
E’ sempre stato detto che storicamente i primi contatti della Sicilia con il mondo greco siano stati quelli con la civiltà Dorica e Micenea. In verità alcuni reperti geologici collegati ad alcune notizie tramandate da Diodoro Siculo, fanno pensare che tali contatti sono stati preceduti da quelli avuti con quella minoica di Creta. Prima che Atene, Sparta, Tebe facessero il loro debutto nella civiltà peloponnesiaca, nel mediterraneo orientale brillò la stella della civiltà cretese, il cui massimo rappresentante fu Minosse. Proprio quel Minosse che allevava il Minotauro nel labirinto e che imponeva agli Ateniesi di fornire i giovinetti da dare in pasto alla belva. Ciò significa, a prescindere dal fatto mitico particolare, che Atene era tributaria di questo monarca cretese e che l’uccisione del Minotauro da parte di Teseo ne simboleggia la fine. Minosse fu certamente il re cretese che impose il suo dominio non solo in Grecia, ma anche in Sicilia. Come racconta Diodoro Siculo e come viene rappresentato nella tragedia di Sofocle, egli morì in Sicilia, vittima di una congiura. Si racconta che Dedalo, dopo aver costruito il labirinto a Creta ed esservi trattenuto prigioniero per ordine di Minosse, sia fuggito insieme al figlio Icaro costruendosi con la cera e con le penne di uccelli le ali per volare. Dopo la triste fine di Icaro avvicinatosi troppo al sole, il mitico inventore del primo volo umano atterrò in Sicilia, dove trovò accoglienza presso il re sicano Cocalo (Kokalos) a Camico (Kamikos). Questa antica località della Sicilia è stata variamente individuata in alcuni centri odierni quali Palma di Montechiaro, Sutera, Alcamo ed altri. L’ospitalità andò oltre ogni limite, tanto da suscitare l’interesse delle due figlie del re. Quando Minosse subdorò che il fuggitivo Dedalo si trovava a Camico, avendone il potere, vi si recò con l’intento segreto di ricondurlo a Creta. Bisogna presupporre che questo re sicano subisse la dominazione cretese, poiché Minosse venne accolto con tutti gli onori, dovuti ad un sovrano egemone. Notte tempo, però, mentre era immerso in una vasca per un bagno ristoratore (faceva caldo anche allora in Sicilia!), le figlie di Cocalo, saputo il motivo della sua venuta, lo uccisero con il consenso del padre versandogli addosso della pece bollente. Saputa della morte di Minosse una delegazione cretese si recò a Camico ed il re Cocalo, ovviamente mentendo sulle cause della morte di Minosse, consegnò le sue ossa per essere tumulate con tutti gli onori. Si racconta (anche se alcuni esprimano dei dubbi) che venne costruita nel territorio intorno ad Agrigento una tomba maestosa in suo onore, parte della quale venne adibita a santuario di Afrodite. Dalla descrizione che viene fatta da Diodoro Siculo di questa tomba, si è risaliti alla sua individuazione nella GROTTA DELLA GURFA, un monumento rupestre, che sorge sul colle Madore, nel piccolo comune di Alia, venuto così alla ribalta storica dei rapporti siculo-cretesi. Il termine Gurfa, significa semplicemente stanza di deposito, e venne così chiamata successivamente dagli Arabi per l’uso che ne fecero. L’edificio è stato accertato che risale tra il 2500 ed il 1800 AC, compatibile con l’epoca della civiltà minoica.
Se si pensa, inoltre, che il tiranno di Agrigento Terone, si arrogò l’onere e l’onore di vendicare la morte di Minosse, mettendo a ferro e fuoco alcune località della Sicilia centrale annettendole al suo dominio, l’influenza cretese nell’isola sarà stata sicuramente abbastanza rilevante. A conferma di tali rapporti intensi tra la Sicilia e Creta è da dire che viene tramandata anche la notizia della riesumazione della salma di Minosse da parte di Terone che provvide a farla portare a Creta con tutti gli onori. Tutte queste vicende, relative alla uccisione di Minosse e le lotte che ne seguirono nella nostra isola, sono la prova evidente che la civiltà cretese, antecedente a quella micenea, si estese molto intensamente in Sicilia. Alcuni storici sostengono che vi siano stati dei contatti anche tra Creta e gli Etruschi, ma questi esulano dall’argomento che a me interessa e li cito solamente per dovere di … cronaca!
I FASCI SICILIANI
Quando si parla del moto dei Fasci siciliani, non dovete pensare al Partito Nazionale Fascista, né a Benito Mussolini, i quali erano di là da venire. Questo movimento nacque nella nostra isola intorno al 1890 con finalità del tutto opposte a quelle abbracciate dal futuro Duce. Si trattava di un movimento di contadini che richiedevano i loro diritti; qualcosa di simile a quello degli odierni “Forconi”, di cui parlano le cronache. Per capire il perché della loro nascita ed anche della loro estinzione, bisogna andare indietro nel tempo.
Dopo il famoso incontro a Teano di Vittorio Emanuele II e Giuseppe Garibaldi, quello del tanto sbandierato: “Ti saluto o Re d’Italia”, con il quale si consegnava al Piemonte l’intero Regno delle due Sicilie, i siciliani capirono chiaramente che si era passati da una dominazione borbonica ad una sabauda. La libertà era stata solo un bel sogno, che non si ebbe nemmeno il tempo di assaporare. Giuseppe Garibaldi, pur avendo dimostrato di avere uno spirito innovatore prendendo delle decisioni di gran lungo favorevoli alla popolazione, istituì il servizio militare di leva, cosa inesistente con i Borboni. Tanto bastò per attirarsi subito le antipatie del popolo contadino, costretto a togliere braccia di lavoro giovanili dai campi e per incrementare l’adesione al brigantaggio; infatti, i coscritti che non si presentavano per il servizio militare di leva “ipso facto” erano fuorilegge e non restava loro che aderire alle bande dei briganti. Per la scarsa quantità di adesione da parte del popolo al servizio obbligatorio militare, Garibaldi fu costretto a ricorrere al volontariato. Molti siciliani aderirono per manifesta idealità garibaldina, ma è indicativo il fatto che non pochi si ritrassero dagli impegni sottoscritti; tra questi ultimi mi piace citare il giovane scrittore emergente Giovanni Verga, il quale fu anche costretto a pagare una penale per ritirarsi dalla sua adesione volontaria all’esercito garibaldino. Il nuovo governo, inoltre, aveva l’impellente necessità di risanare la finanze dello stato, disastrate dalle guerre d’indipendenza; pertanto non esitò ad imporre nuovi balzelli di gran lunga più salati di quelli borbonici. Quanto alla libertà c’erano i bersaglieri ed i carabinieri a garantirla con i fucili in mano. Questi ultimi furono il mezzo più efficace per imporre ai siciliani lo statuto Albertino, abolendo la costituzione del Regno di Sicilia, come voluto da Vittorio Emanuele II e messo in atto dal suo primo ministro De Pretis. (Evidenzio che il regno delle due Sicilie era uno stato federale sotto l’autorità unica del re borbone, composto dalla Sicilia e dell’altra Sicilia napoletana , così chiamata perché considerata un’isola circondata dal mare e dall’Acqua Santa, ossia lo stato pontificio) Tutti i ceti isolani, nobili, contadini, artigiani, religiosi e … mafiosi, anche se dominati spiacevolmente dai Borboni, in ogni caso godevano di una certa autonomia statale che persero irrevocabilmente e, quindi, pur con motivazioni diverse, fecero lega tra loro e già nel 1866 insorsero a Palermo. La rivolta fu soffocata nel sangue, ma il governo, capita l’antifona, cercò di cambiare politica, restituendo ai nobili le stesse prerogative che avevano con i Borboni. Sostanzialmente La nuova casa regnante capì che bisognava cambiare tutto … purché tutto restasse come prima, come ebbe a sostenere il Principe di Lampedusa nel famoso romanzo “Il Gattopardo”.! Ritornarono i privilegi dei nobili, la cecità nei confronti dei poteri forti, una certa tolleranza armata nei confronti del clero e l’assoluto dispotismo nei confronti della classe più debole, ovvero degli operai e dei contadini. Tale politica attutì e non poco l’opposizione al governo piemontese, ma suscitò sempre di più il malcontento nelle classi meno abbienti, specialmente dei contadini, che restarono a subire le vessazioni di sempre sia da parte dei nobili che del nuovo governo. Ecco, allora che dalle insoddisfazioni dei contadini nasce questo movimento dei Fasci dei Lavoratori Siciliani, che cerca di portare avanti le solite rivendicazioni dei meno abbienti, come già avvenuto anche ai tempi degli antichi romani in occasione della rivolta degli schiavi. Viene proclamato lo sciopero generale dopo il “congresso dei Fasci” a Corleone del 1893, in cui si ribadiscono tutte le rivendicazioni della classe contadina con lo scopo di riscattarla dallo stato di indigenza cui è costretta. Il governo recepisce la protesta siciliana e venendo incontro alle richieste formulate progetta e rende pubblico un programma di riforme, che però restano soltanto in fase di studio e servono solo a calmare momentaneamente gli animi. Si nominano commissioni parlamentari, si discute come al solito, ma lo scopo finale è quello di insabbiare il progetto. Scoppiano allora i tumulti più feroci che mai. La protesta viene soffocata con la forza. I Fasci Siciliani vengono sciolti, i loro capi e promotori arrestati e posti in isolamento. Ma la curiosità storica è che, Ironia della sorte o forse a conferma dell’azione ambigua dello sbarco dei Mille, il presidente del Consiglio dei Ministri che soffoca il Movimento dei Fasci Siciliani è FRANCESCO CRISPI, non solo siciliano doc (nato a Ribera), ma anche ex garibaldino per niente blasonato! Egli fa parte di una classe di uomini nuovi lanciata alla conquista del potere che la democrazia offre e che non disdegna di pescare nel torbido pur di arricchirsi. Proprio il Crispi sarà poi coinvolto in un grosso scandalo bancario nel 1897 con l’accusa di interessi personali trasversali; naturalmente la passò liscia.
L’altra considerazione che intendo evidenziare è che si profila nella società siciliana la stessa situazione che già era stata la causa della rivoluzione francese del 1789, ossia l’esistenza nella realtà dei tre stati classici: la nobiltà, il clero, il terzo stato (il popolo meno abbiente). I nobili, pur di conservare i vecchi privilegi, accettarono l’autorità sabauda. La monarchia di Vittorio Emanuele II concesse ad essi quasi tutto, ma cercò di ingraziarsi i contadini assegnando loro dei lotti di terreno, prendendoli dal demanio ed anche … dal nemico dichiarato, il clero, che si vide sequestrati dei beni, con il beneplacito anche dei nobili che vedevano così allontanare il pericolo di avere intaccati propri possedimenti. La conseguenza fu che non solo i contadini, ma anche dei preti andarono ad ingrossare le file dei briganti e dei ribelli. Si, la bestia nera per la monarchia sabauda era proprio il Papa, per le aspirazioni dell’Italia ad avere come capitale del nuovo stato Roma. (Cosa che avvenne con la famosa breccia di Porta Pia, dopo la disfatta a Cedan del francese Napoleone III, unico difensore dello stato vaticano ). Bisognerà attendere molto più tardi, Benito Mussolini per far … scoppiare la pace tra il Vaticano e lo Stato Italiano, almeno quella apparente e politica!
Dopo la prima esperienza di ribellione del 1866, perdurando il malcontento per i motivi sopra esposti, in Sicilia, molto più tardi, nacque il M.I.S. (Movimento Indipendentista Siciliano – quello della faccia della medusa con le tre gambe -) che non si prefiggeva di far “cascare” il Governo, ma quello di cacciare dall’isola lo Stato Italiano e proclamare l’indipendenza. L’unico modo per vincere questa nuova organizzazione politica fu la proclamazione dell’Autonomia Regionale Siciliana, che ancora oggi esiste. Sostanzialmente sono stati dati alla Regione Sicilia, dei poteri amministrativi diversi, che, ovviamente, hanno dato origine a nuove problematiche politiche. Questo M.I.S., dettato da motivazioni idealistiche ed anche economiche sembrava essere definitivamente scomparso con la concessione dell’autonomia regionale, ma in questi ultimi tempi, a causa dei morsi della crisi in atto, qualcuno pensa di farlo rivivere come panacea dei guai siciliani. Un modo nuovo per affrontare le difficoltà economiche della Sicilia staccandosi dall’Italia, che assomiglia a quello della Lega Nord, che ritengo non possa essere condiviso, poiché si trasformerebbe veramente l’Italia intera in una mera “espressione geografica”, come sostenuto tempo addietro dall’austriaco Metternich.
Ho dianzi usato il verbo “cascare”, a proposito del Governo. “Cascare” traduce esattamente il termine italiano “cadere”, ma nel senso di crollo figurato, così come si dice per la “cascata” . Molto probabilmente il termine deriva dall’inglese “crak” o “crash”. Nel caso di persone il siciliano usa anche il verbo “abbuccari”. Esempio: “Sta attentu ca abbucchi” (Stai attento che cadi). Abbuccari significa letteralmente: ”cadere nel buco”, ossia precipitare in un anfratto del terreno. (Il governo “casca”, ma non “abbucca”) – (A vicchiania è ‘na “cascata” e non una “abbuccata”) – (Mentre può sempre dirsi che una persona può abbuccari e magari cascari).
MOTTA SANT’ANASTASIA
Motta Sant’Anastasia è una ridente cittadina dell’entroterra catanese, subito dopo il territorio di Misterbianco. Si erge su di un cocuzzolo di natura lavica che domina la piana di Catania. Per questo motivo ha sempre avuto un’importanza strategica e militare rilevante nei tempi passati, specialmente nel medio evo. Mi limito a ricordare che proprio partendo dal castello di Motta Sant’Anastasia gli sgherri del Duca di Modica, il Chiabrera, cercavano di infastidire la città di Catania. Gli scontri armati avvenivano proprio a Mezzocampo, antico nome di Misterbianco (Il territorio venne così chiamato poiché vi sorse dopo il Monastero dei Bianchi, cioè dei Domenicani che indossavano appunto un saio bianco). I difensori della città uscivano dalla porta Palermo di Catania (u Furtinu) e cercavano di rintuzzare gli attacchi del bellicoso Duca, che alla fine venne catturato ed imprigionato proprio nel castello di Motta, dove morì. Sto parlando di un particolare momento storico del regno Aragonese. Il Chiabrera era un aspirante alla mano di Costanza d’Altavilla, rimasta vedova del re Martino. Egli, sposandone la vedova, sperava di impossessarsi del Regno. Dal momento che la regina, asserragliata nelle mura di Catania, rifiutava le offerte amorose del bellicoso duca, quest’ultimo pensò di ricorrere alle maniere forti per raggiungere il suo scopo. La questione fu risolta come ho detto, con la sua cattura e la sua fine nel castello di Motta. La cittadina si è sviluppata intorno al suo castello dando un’impronta storica al suo stesso sviluppo sociale, che risente nelle tradizioni ed anche nella topografia stradale le usanze del mondo medioevale. Per tradizione, infatti, i cittadini appartengono a tre confraternite diverse d’origine antica, sempre in competizione tra loro. Qualcosa di simile a quanto avviene a Siena. Naturalmente non si corre alcun palio a Motta, ma ogni confraternita ha i suoi colori ed i suoi sbandieratori, che in occasione della festa patronale gareggiano in bravura nel centro del paese. Le tre confraternite sono: i Mastri, i Campagnoli ed i Panzera. Ovviamente rispecchiano tre diversi strati della popolazione, che adesso non sono in effetti rispondenti alla realtà di allora; ciò nonostante, l’appartenenza ad una di queste confraternite ancora oggi è importante per i paesani, che in esse riconoscono le loro singole tradizioni sociali. “Tu si’ campagnolu e non mi po’ capiri!” Quante volte ho sentito espressioni di questo tipo tra i mottesi! E’ talmente radicata questa suddivisione della popolazione, che ad ogni competizione elettorale non si parla nel paese della vittoria di questo o quel partito, ma di quella di una fazione del paese: “vincivu u sinnucu dei Panzera!” Un’altra curiosità che riguarda questa cittadina è il suo nome. I termini “Motta” ed Anastasia hanno lo stesso significato etimologico: motta significa smottamento di terreno e, parimenti anastasia significa non stasi ossia mancanza di stabilità. Sia l’uno che l’altro termine hanno tratto origine dal fatto che il cocuzzolo su cui sorge il paese altro non era che un vecchio cratere vulcanico solidificatosi, ma in ogni caso soggetto al caratteristico “tremuoto” dei territori d’origine lavica. Fu facile, quindi, stabilire il nome della santa protettrice che non poteva non essere se non Santa Anastasia! Un’altra caratteristica dei cittadini di Motta è quella dei soprannomi. Raramente ci si ricorda del loro cognome, poiché si preferisce adoperare il cosiddetto “péccuru”, che significa appunto soprannome derivato da una particolarità personale, che magari si tramanda da padre in figlio. Se chiedete a qualcuno notizie di un vostro amico che si chiama tal dei tali, vi sentirete rispondere facilmente che non lo conosce, ma se aggiungete che appartiene ai “Saccu di chiova” (sacco di chiodi, perché di mestiere fa il carpentiere!) allora avrete la giusta risposta! E così esiste tutta una ridda di soprannomi: A Lupa, Baddocciulu, Pittazzu, u Voi, u Parenti, Manicula, u figghiozzu, l’assissuri Lampadina e A lupa, Baddocciulu, Pittazzu, u voi, u parenti, manicula, u figghiozzu, l’assissuri Lampadina e magari “Sticchiu di viulinu”! Raramente un mottese si salva dal pèccuru! La cittadina di Motta, oltre alle famose “Pietre Nere”(pietre laviche) , il Castello a torre, gli sbandieratori ed i soprannomi dei suoi cittadini è ricordata perché ospita il cimitero dei soldati tedeschi che morirono affrontando gli inglesi durante l’ultima guerra nella Piana di Catania. Gli alleati dopo essere sbarcati ad Augusta proseguirono verso Catania ed a “Ponte Primo Sole” sul Simeto trovarono i tedeschi ad attenderli e che opposero una fiera resistenza. I caduti inglesi riposano nel cimitero vicino alla stazione FS di Bicocca, quelli tedeschi in questo alle porte di Motta.
LE GROTTE DELL’ADDAURA
Uno dei miti più famosi che riguarda la Sicilia è quello dei Ciclopi, abitatori giganteschi dell’Etna con un solo occhio in fronte, di cui parla Omero nell’Odissea, descrivendo l’accecamento di uno do essi, Polifemo, da parte di Ulisse. Ovviamente i Ciclopi non esistevano ed il mito nacque poiché i primi Greci che approdarono in Sicilia trovarono degli enormi teschi con questo buco nel cranio, di cui non si rendevano conto e che intuirono appartenere a dei giganti con un solo occhio frontale. In effetti si trattava di teschi di elefanti nani che un tempo vivevano in Sicilia, esattamente come vivevano i coccodrilli e forse altre specie della fauna africana. La conferma di questa teoria è avvenuta con il ritrovamento in una delle grotte dell’Addaura di Monte Pellegrino dei resti di un elefante nano e altri graffiti di antichissima datazione. Come ho già precedentemente detto, l’area del mar mediterraneo un tempo era un’immensa pianura tra i tre continenti Asia, Europa ed Africa, dove la fauna poteva liberamente circolare.
Singolare è la scoperta dell’importanza archeologica di questa grotta, esistente da sempre. Durante l’ultima guerra, gli Americani la utilizzarono come deposito di bombe e di armi. Finita la guerra, nel 1954, si pensò di bonificarne l’ambiente; accidentalmente una bomba deflagrò all’interno dell’antro e mise in luce dei veri tesori, che sono stati fonte di studi del passato antropologico della Sicilia di inestimabile valore. In questa evenienza è veramente il caso di dire che non sempre le cose brutte sono sempre … brutte! Senza la guerra e quella deflagrazione non programmata, forse le grotte dell’Addaura non avrebbero mai rivelato la loro importanza archeologica.
A PISCARIA DI CATANIA
Sinceramente debbo confessare di non essere un frequentatore di ristoranti. Non è che abbia in antipatia questi tipi di locali, di cui il territorio catanese abbonda e debbo anzi dire che ve ne sono di notevole pregio culinario. Purtroppo, quando il desiderio di mangiar bene mi viene, preferisco ricorrere al “fai da te” in campagna a base di cibi semplici e non complicati. Intendo carne arrostita sulla brace o pesce alla griglia con bruschette di pane di casa e vino di quello generoso. Magari preceduto il tutto con una spaghettata con aglio, olio e peperoncino rosso. Io lo chiamo “mangiar semplice eletto”. Ovviamente questo tipo di cenetta comporta un rito molto importante e sicuramente non eliminabile: quello della visita alla pescheria, che a Catania sorge dietro la statua di “l’acqua a linzolu”. Ovviamente bisogna andare preparati in questo posto e, cioè, stabilire prima il tipo di menù cioè, se a base di carne o di pesce.
Se si stabilisce per la carne, non è il caso di andare dove i pescivendoli “vannianu” la loro merce, bisogna tirare dritto e raggiungere il macellaio di fiducia. La scelta è molto semplice: costate e “sasizza a caddozza”, se scegli di fare “arrusti e mangia”; oppure “castratu” spezzettato se pensi di farlo al forno con le patate. Mentre ti rechi dal macellaio, dai negozi laterali puoi comprare l’eventuale insalata di gradimento, quali pomodori di Pachino e cetrioli o ravanelli. Il vino, rigorosamente rosso è quello dell’Etna di “cumpari Saru”. Non resta che scegliere il posto del … sacrificio! O a casa di Saru a “Muntagna” o da me al mare.
Se si decide di voler mangiar pesce, il rito della compera è molto diverso e più complesso. Scesi quei pochi gradini per raggiungere la piazza dove i pescivendoli mostrano la loro merce, si entra immediatamente in una specie di bolgia infernale dove la gente fa ressa intorno a questo o quel venditore indaffarato a pesare la merce richiesta prelevandola o da una enorme vasca o da un banco leggermente inclinato, atto a far colare l’acqua spruzzata di tanto in tanto. Comperare il pesce alla pescheria non è facile! Devi saper scegliere, se vuoi mangiarne di fresco, magari a buon mercato. Non solo! Devi saper prima cosa intendi comprare. Vi trovi di tutto: “masculini da magghia”, “stummi”, “picari”, “sardi”, “sicci”, “trigghi di scogghiu”, “scazzubuli”, “opi”, “luvari” “custardeddi”, “augghi”, “sparacanaci”, “taccuni”, ”sarachi”, “purpi”, “calamari” e “pisci a fedda”, ossia “tunnu, piscispada e pauru”. In un altro settore della “piscaria” potete trovare anche tutte le varietà di frutti di mare, come “i cozzuli di Messina” e chiddi da plaia”, “i rizzi monaci”, “i cannulicchi”, “l’occhi di voi”, nonché “le ostriche ed “i vavaluci di mari”… Insomma lì, alla pescheria, avete ampia possibilità di scelte, anzi diciamo che avete l’imbarazzo della scelta. Per questo bisogna andare a comprare decisi di cosa scegliere in relazione alla cena da approntare. Non crediate che le “vanniate”, molto colorite dei venditori possano esservi d’aiuto, poiché sono solo indirizzate a vantare la propria merce. Diciamo pure che servono solamente a confondervi le idee, anche se piacevoli da ascoltare, perché tipicamente catanesi. Insomma andare alla pescheria, anche solo per guardare od ascoltare tutta la “caciara” che vi è, diventa come far da spettatore ad una rappresentazione folcloristica. Tant’è che è possibile vedere girare tra i banchi del pesce frotte di turisti a seguito della guida con la bandierina. Comunque, uno dei segreti per comprare a minor prezzo alla pescheria è quello di andarvi nella tarda mattinata, poiché i pescivendoli abbassano il prezzo per evitare di riportare in deposito la merce invenduta. All’apertura del mercato ovviamente i prezzi sono sempre più alti. Anche i pescivendoli hanno i loro trucchi per far apparire fresco il pesce che non lo è perché rimasto dai giorni precedenti. Dare consigli per individuarli è un’impresa molto difficile. Bisogna avere l’occhio clinico ed allenato!
CURIOSITA’ DI ALCUNI RISTORANTI
Chiaramente tutto questo è valido per le cenette “fai da te”, con parenti ed amici più untimi. Ma se si è in vena di fare “una schiticchiata” (come usa dirsi a Catania per indicare una cenetta piacevole tra amici) con più persone, bisogna, giocoforza, ricorrere ai ristoranti che a Catania e nel suo entroterra sono numerosi ed anche molto specifici, compresi quelli che hanno un repertorio culinario diverso dal nostro. Non vi è che l’imbarazzo della scelta! Puoi scegliere tra quelli specializzati in pizze, oppure in pesce o carne; negli ultimi tempi sono venuti alla ribalta i ristoranti cosiddetti “vegani”, che è un po’ complicato spiegare, i ristoranti cinesi, indiani e di altri paesi orientali. Purtroppo i ristoranti a Catania e dintorni, in questi ultimi tempi non hanno lunga vita! Essi chiudono facilmente i battenti per meri motivi … fiscali. A citarne qualcuno si corre il rischio di non trovarlo più.
Tuttavia insisto nella decisione di nominarne qualcuno tra quelli da me conosciuti. Per mangiare del pesce alla mia maniera, cioè, “semplice, eletto”, vado a “Santa Maria La Scala” sotto la timpa di “Acireale direttamente al cosiddetto “Grottino”. E’ questo un piccolo ristorantino per poche persone, al quale bisogna prenotare prima la cena proprio a causa del suo limitato spazio. Aggiungo che non è facile trovarvi posto! Qui puoi mangiare pesce alla griglia e spaghettate, naturalmente accompagnati con dell’ottimo vino bianco. A me piace questo posto non solo per il modo semplice di cucinare, la freschezza del pesce e la tranquillità, ma anche per la sua posizione. Si tratta di un locale nato a ridosso della timpa, i cui muri rocciosi, lasciati al naturale, fanno parte dello scenario interno, con pochi tavoli senza orpelli e fronzoli e le finestre che sporgono sulla strada che costeggia il mare. Insomma una specie di osteria marinara all’antica, dove ti senti a tuo agio godendoti il cibo, la tranquillità ed il profumo del mare. Prima di sederti al tavolo scegli il pesce, esposto all’ingresso, che viene pesato per stabilirne il prezzo, dando le istruzioni per la cottura. E’ un po’ come andare in pescheria con il vantaggio di poter scegliere con la certezza che la merce è veramente fresca senza la fatica della preparazione della cena. Se pensi invece di mangiare un’ottima zuppa di pesce di quelle con salsa e pesci d’ogni qualità del nostro mare, basta fermarsi ad Acitrezza in un ristorante non tanto appariscente quasi davanti al porticciolo, da cui forse partì per l’ultima volta la sfortunata paranza dei Malavoglia. Ecco a me piacciono questi posti semplici ed alla buona, perché son certo di trovarvi dell’ottima roba.
Un altro posto, dove mi piace andare è al “Bracieri” di Milo, dove viene cucinata la carne alla brace alla maniera casareccia sui carboni ardenti e, se la ordini prima, puoi anche mangiare “a stigghiulata”. Ma il ristorante che prediligo per la sua semplicità è la trattoria casareccia di “Franchetto” in territorio di Castel di Jiudica. Qui tutto viene cucinato come a casa tua a cominciare dalla pasta, che se è al ragù non ha eguali. Come secondo viene portata una grigliata mista di carne, da quella di agnello a quella di maiale ed a quella di manzo, nonché di selvaggina ed anche di “cotolette alla palermitana”. Forse cucinano anche del pesce, ma io qui non l’ho mai richiesto. E’ appunto un ristorante “campagnolo” specializzato nella carne e negli antipasti che sono rigorosamente casarecci, compresa la “ricotta fritta” ed altri prodotti di campagna. Pure il vino è nostrano ed offerto nelle “cannate”. Insomma un angolo di Sicilia veramente e stupendamente siciliano, anche nel paesaggio. Per raggiungerlo bisogna uscire dall’autostrada per Palermo ed immettersi nella vecchia strada. All’altezza di Sferro, prima di raggiungere la stazione, bisogna svoltare a sinistra, oltrepassare il passaggio a livello e procedere verso Castel di Jiudica, inerpicandosi per le colline che costituiscono i primi rilievi dei monti Erei. Ad un certo punto si incontra “Franchetto”, un piccolo agglomerato di case intorno ad una chiesa di campagna in puro stile “liberty”. Si tratta di uno di quei villaggi rurali voluti dal passato regime fascista, che ancora resiste all’incipiente incalzare della nostra era. Dove l’occhio posa, possono notarsi i dolci clivi delle colline coltivate a grano e cosparse di radi casolari o fattorie ancora in piena efficienza produttiva. Un vero paradiso georgico in cui tutto, ma veramente tutto sa ancora di antico ed incontaminato. Lungo la strada si incontrano anche degli ovili, dove è possibile fermarsi per comprare la ricotta e la tuma od il “formaggio primo sale”. Sembra proprio che qui il tempo si sia fermato e così ci si può immergere in un mare di serenità, lontano dai fragori della città. Spinto dalla mia costante curiosità storica, ho appreso che il nome di questo comune è nato dal fatto che proprio qui, vennero internati non ricordo da quale passato governo degli Ebrei. Insomma quel Judica sta per Giudaica. Purtroppo questi benedetti giudei, a causa della cattiva nomea di essere stati gli uccisori del Cristo, anche in Sicilia non hanno trovato vita facile e sono stati sempre “ghettizzati” in posti remoti che però hanno saputo curare e rendere oltre modo vivibili, piacevoli e redditizi.
Le “pizzerie” sono molto diffuse in tutto il territorio e più o meno si equivalgono tutte. Ma una la voglio proprio citare poiché costituisce (o forse costituiva?) una curiosità. Si tratta della pizzeria ad Acireale “CU C’E’ C’E’ di “BRIGANTONI” ovvero dell’omonimo Antonio Briganti. Chi è costui? Un cantautore siciliano ed anche italiano, un comico, se volete, che ha avuto un modesto successo in un determinato periodo. Ha messo in atto questa pizzeria, che ha come caratteristica i muri tappezzati dalle imprese teatrali e televisive del prode Antonio, nonché di motti e di scritte dialettali in verità volgari, che alcuni ritengono originali. “De gustibus non sputacchiandum est!” , dice qualcuno storpiando il latino! Un’ orchestrina allieta i clienti con i motivi e le canzoni del Briganti e la serata passa. Insomma il nostro eroe ha trovato il modo di farsi pubblicità sfruttando la sua personalità. Tutto sommato è un’iniziativa da lodare! Pubblicità “Fai da te” ed a costo zero!
Sulla falsariga di questa pizzeria, cioè che sfrutta parole dialettali piuttosto spinte e volgarucce, e non soltanto parole ma anche immagini, ho conosciuto un altro locale, ma non a Catania. Non so se siete mai stati a Castelmola, quel paesetto che andando da Catania verso Messina sull’autostrada è possibile vedere appollaiato su di un cocuzzolo al di sopra di Taormina. Invito tutti a visitarlo al di là di questa curiosità di cui vado a parlare. Giunti a Taormina, dove siete arrivati in macchina uscendo dall’autostrada dovete proseguire verso Castelmola seguendo le indicazioni stradali. Alla fine arriverete in una piazza che è un vero balcone sulla vallata, curatissimo nelle facciate degli edifici e nel pavimento. In questa piazzetta, dove vi è pure una chiesa, vi è l’ingresso, che sembra molto modesto, del Bar TURRISI con annesso ristorante. L’interno del bar e del ristorante leggermente sopraelevato sono elegantemente addobbati e sfavillanti di luci. La prima cosa che vi colpisce salendo la breve scala è la presenza di due putti con le ali completamente nudi, ma ecco che procedendo vi accorgete che le rampe della scala, i pomelli e quant’altro sporge hanno la forma dell’organo sessuale maschile in erezione. Non vi dico quello che mostra il tavolo e le stesse sedie! Al di sopra, sui muri vi sono delle pitture apertamente lascive di uomini e donne in posizioni non certo angeliche, anche se la pittura ricalca lo stile classico. Ma la sorpresa non finisce qui! Appena seduti su quelle strane poltrone, arriva una gentile cameriera con delle tette a cocomero, che porgendovi alcuni libri di menù e tenendosi pronta a prendere appunti, vi dice candidamente: “Ditemi che cazzo volete.” Aprendo il libro dei menù resterete ancora più sbalorditi! I piatti sono indicati, con termini prettamente riferiti agli organi sessuali ed ai loro rapporti espressamente intimi che nemmeno il Kamasutra è in grado di esprimere così apertamente. Sicché l’avventore è costretto a chiedere senza reticenze delle cose … molto piccanti che là sono scritte. Ovviamente, seguono, i rossori di qualche cliente femmina, i commenti ilari, le risate e le occhiate eloquenti … Insomma tutto diventa, come dire, sempre più spontaneo col procedere della cena anche perché il vino comincia a fare il suo effetto. Alla fine, per chiedere il conto all’avvenente cameriera, avete anche licenza di dirle, alludendo, quanto “minchia” chiede per il servizio completo. Un po’ pesantuccia la cosa, specialmente se vi sono bambini, ma vi assicuro che il locale è molto frequentato. Almeno lo era quella volta che ci andai.
Ma di un altro locale che costituisce almeno per me una vera curiosità voglio parlarvi. Chi conosce VILLA TAVERNA di via Cristoforo Colombo a Trecastagni, alzi la mano! Si tratta veramente di un locale spettacolare, di quelli che mai avevo visto prima a Catania e dintorni. Ho avuto modo di essere ospite di questo ristorante in occasione della festa di quando sono andato in pensione. Non vi nascondo che l’ho visitato anche altre volte, tanto mi è piaciuto l’ambiente. Esso è nato, come mi raccontò lo stesso proprietario, da una sua passione per le cose antiche e da una sua idea geniale. La persona in questione, che purtroppo ormai non è tra i vivi, era un piccolo imprenditore, di quelli che si arrabattavano nel dopoguerra, a ricostruire Catania e dintorni. Giornalmente egli aveva il problema di portare in discarica il materiale di risulta delle vecchie case da demolire per ricostruirle secondo vedute più moderne. Tra le sue attività edilizie, aveva in progetto la costruzione di una grande villa a Trecastagni, in cui prevedeva di lasciare libero lo spazio del pianterreno per ricavarne dei garages. Ad un certo punto della costruzione, pensò intanto di accumulare in quello spazio tutto il materiale che poteva e proveniente dalle demolizioni. Incominciò a raccogliere di tutto, dai mattoni particolari, alle vecchie mattonelle dei pavimenti, alle ceramiche, agli stipiti delle porte in pietra lava, alle cancellate, ai sedili in pietra, alle vecchie “ciaramite”, alle insegne ed a quanto riteneva utile. Man mano che la villa veniva su, bella e maestosa, contemporaneamente, al posto dei progettati posti macchina, pensò di “ricostruire” parte degli angoli della città da lui stesso demoliti. A lavoro ultimato, si trovò ad avere la villa completata con nel sottostante pianterreno le ricostruzioni caratteristiche di alcuni punti di Catania, con targhe di strade, cancellate e sedili in pietra. A questo punto, pensò bene di cambiare attività. Trovato un arredamento in tono con l’ambiente ricreato e fornito il locale all’esterno di fornelli e cucina, non trovò di meglio che chiamare il posto VILLA TAVERNA. Infatti all’interno risultava ricostruita come una vecchia “putia” (osteria), del quartiere di San Cristoforo o del vecchio San Berillo. Gli bastò semplicemente mettere al lavoro nella cucina alcune popolane del suo ex rione, vestirle con i “mantali” (grembiuli delle massaie) e tirare fuori vecchie ricette siciliane. Insomma alla fine era riuscito ad ottenere un ristorante tipico siciliano non solo nell’aspetto esteriore ma anche nell’anima. Debbo anche dire che non costava molto! Adesso veramente non so! Oltre alla “pasta con le sarde”, la vecchia “minestra, “i mussi e i carcagnoli bolliti e conditi”, “a trippa”, “u piscistoccu a ghiotta”, “u baccalaru frittu” “l’arrusti e mancia” e tanti altri piatti forti, potevi trovare in abbondanza i dolci tipici, quali “i cannoli, “l’alivuzzi ed i minni di Sant’Aita”, “a minnulata”, “u turruni di mennuli spicchiati e di gigiulena”. Ma quello che era troppo forte era alla fine l’offerta del “rosolio” nei bicchierini di una volta da parte del proprietario! Il “rosolio”, per chi non lo sapesse, è un liquore tipico fatto in casa ed in maniera artigianale dalle nostre donne secondo una prassi tramandata da madre in figlia. Da allora non ho più avuto il piacere di gustarlo. Oggi usano darti alla fine della cena “l’amaro” o il caffè!
A BASILISSA
“Mi… e chi è na Basilissa?!” Avete mai sentito questo termine a Catania? Io si. Nel vecchio cortile dove abitavo da ragazzo, sentivo spesso ripetere questa frase a “Donna Mara a Cattagirunisa” tutte le volte che vedeva un bel pezzo di ragazza. Molto tempo più tardi ad un mio ex dipendente, riferendosi ad una sua collega più giovane di cui diceva peste e corna sentii dire: “chissa è ‘na basilissa! Mi stassi attentu a chiddu ca fa!” Un’altra volta sentii ripetere ad una donna vecchissima: “megghiu viva, ca Basilissa.”
Per ben tre volte nella mia vita sentivo questo termine, riferito ad una donna, senza capirne l’effettivo significato. Ovviamente Donna Mara intendeva dire che si era in presenza di una bella donna. Il secondo certamente riferiva il termine ad una donna infida. La terza ovviamente si riferiva a qualcosa che aveva a che fare con la vita e con la morte. Ma da dove veniva questa parola? Chi era questa Basilissa e come mai veniva citata con prerogative e caratteristiche diverse? Da ricerche glottologiche eseguite nel mio piccolo, ho scoperto che il riferimento a “Basilissa” in Sicilia non avviene punto in alcun altro luogo tranne che a Catania. Solo a Catania è noto questo paragone di una donna a “Basilissa” o per lo meno lo era, poiché da parecchio non l’ho più sentito ripetere.
Molto più tardi ho appreso che questo appellativo era riferito a Persefone, o Kore in una antica città greca dell’Arcadia, chiamata Cipselo, che aveva intrattenuto dei rapporti con l’antica Katana di Trinacria. Chissà che una colonia di Greci di Cipselo non si sia trasferita a Catania esportandovi nome e rito della Dea in questione? Ho letto pure che solamente a Cipselo ed a Katana, le donne avevano l’usanza di eleggere ogni anno in onore di Persefone una “Basilissa”, ovvero una campionessa di bellezza in onore della dea. Una specie di odierna “miss” con finalità religiose
Alla luce di questa notizia ho capito i riferimenti ascoltati nelle tre diverse occasioni. Nel primo caso donna Mara intendeva riferirsi semplicemente ad una bella donna, come quella che viene eletta in onore della Dea. Nel secondo caso il riferimento era ad una donna nella cui fiducia non bisogna aver fede; va ricordato che Proserpina, nell’antichità era considerata poco affidabile perché aveva due modi opposti di vivere: una da morta ed una da viva. Nel terzo caso il significato era il paragone tra la vita e la morte rappresentata dalla dea che infine era regina dei morti; evidentemente è meglio essere vecchia e viva, che trapassata e regina dei morti.
Non è escluso che il termine “Basilissa”, venisse attribuito anche alle cosiddette “mavare”, ossia a donne che avevano la pretesa di esercitare la magia indovinando il futuro. Il ricorso da parte delle donnette del popolo di ricorrere alla “mavara” per sapere la fine di una storia od anche per ottenere un filtro d’amore o per indirizzare degli avvenimenti futuri secondo le proprie intenzioni è, purtroppo, nella nostra tradizione popolare. Anche in questo caso il riferimento è a Proserpina, regina dell’oltretomba in grado, quindi, di conoscere gli eventi futuri. Chi, meglio di lei, regina dell’oltretomba, è capace di indovinare il futuro?
Ai nostri tempi tale tendenza è stata sostituita in parte dagli oroscopi, che, in sostanza, emettono dei verdetti futuri su basi proclamate scientifiche in relazione alla posizione degli astri. Tuttavia il ricorso alla “mavara” ( ed anche al mavaro!) è ancora in auge nel popolino.
Chiaramente (almeno per me!) sia nel caso degli oroscopi che in quello dei vaticini siamo in presenza di vere mistificazioni messe in atto per speculare sulla debolezza umana volta alla ricerca di superare le difficoltà della vita. Purtroppo durante il periodo della Inquisizione si pensò che si trattava di elementi demoniaci che andavano soppressi con il rogo!
LA SANTA INQUISIZIONE E LO STERI DI PALERMO
Una delle jatture della Sicilia e non solo della Sicilia, ma del mondo intero, è stata la ”Santa Inquisizione”, un regalo propinatoci dagli spagnoli in combutta con Santa Madre Chiesa, che per l’occasione è stata la peggiore delle matrigne dell’umanità. Ne parlo non per vituperare la nostra chiesa, che in altre occasioni ha saputo essere madre amorosa e che ritengo abbia un fondamento veramente divino per essere sopravvissuta ad un tale errore; ma per evidenziare a cosa possa condurre a volte l’aberrazione umana ed il fanatismo religioso.
Forse non tutti hanno chiaro di cosa si trattasse effettivamente. Cercherò di spiegarlo in breve. Un Papa, che certamente brucia all’inferno, nonostante la mitra in testa ed il triregno in mano, prese la trista decisione di debellare il demonio che era solito impossessarsi delle anime delle persone, inducendole a compiere azioni contro la morale e la religione. In verità a spingerlo a ciò era la determinazione a voler difendere il suo potere temporale con l’aiuto della dominazione spagnola. A cadere nelle grinfie della Santa Inquisizione erano tutti coloro i quali dissentivano dal volere della Chiesa e della religione cattolica o che, comunque denunciati, manifestavano rapporti di sudditanza e comunione con il demonio. Subire oggi una inquisizione processuale del genere farebbe semplicemente cadere dalle nuvole, ma allora non era così! Un’accusa così articolata o la scomunica papale, che adesso sembra non sortire alcun effetto, ad esempio, nei confronti dei cosiddetti mafiosi, allora aveva la sua importanza e poteva rendere la vita difficile, fino al punto di dover subire i rigori della legge. Le cose si svolgevano in questo modo. Un tribunale del clero, il cosiddetto Santo Uffizio, giudicava il reo di eresia e di commercio con questo nemico di Dio, sottoponendolo anche a tortura nelle more dell’istruttoria accusatoria; riconosciutolo reo di colpe, che venivano anche dichiarate sotto la tortura come realmente commesse, lo condannava irrimediabilmente alla morte e, per salvarne l’anima prescriveva che il corpo venisse portato al rogo da vivo per subire la totale purificazione col fuoco ed impedire al demonio di ritornarvi. Poiché la chiesa non poteva contravvenire al comandamento di non uccidere, il Santo Uffizio affidava il condannato al “braccio secolare”, che sarebbe lo Stato, per l’esecuzione della sentenza. Siamo in presenza non solo di fanatismo e di aberrazione mentale, ma anche di ipocrisia eclatante.
L’ istituto dell’inquisizione nacque in Spagna nel 1478 ad opera della monarchia, che stabilì la totale immunità da errori dei Tribunali, istituiti per espresso mandato e nomina dei componenti dalla Curia Romana. I suddetti tribunali dovevano rispondere del loro operato solamente all’autorità del Re.
Essa venne istituita anche in Sicilia, dominio spagnolo, nel 1487 e cessò di esistere soltanto nel 1780 con l’incalzare dell’Illuminismo e per volontà del Vicere Caracciolo, che ne stabilì l’abolizione con la conseguente distruzione di tutti gli atti pendenti ed anche già conclusi; cosa quest’ultima che venne eseguita nel 1783 sulla pubblica piazza di Palermo e le cronache tramandano essere avvenuta per rogo, durato per ben tre giorni.
Il tribunale del Santo Uffizio, fu di fatto istituito per la Sicilia in Palermo, presso il palazzo, cosiddetto dello “Steri”, che era anche il carcere degli arrestati per questo reato in attesa di giudizio. Viene riportato dalle cronache che le sentenze ivi emesse in tutto il periodo ammontano a quasi sei mila, delle quali, purtroppo, non è possibile conoscerne i contenuti, essendone stati gli atti distrutti, come ho detto, per disposizione del Vicere. Faccio notare come fu simbolico il rogo degli atti, simile allo stesso tipo di condanna subita dagli inquisiti, ma anche intenzionalmente finalizzato a far dimenticare e cancellare del tutto quel tristo periodo. Tuttavia, copie di tutti gli atti dovrebbero essere conservati nell’archivio di stato di Madrid, poiché esisteva l’obbligo da parte del Tribunale di Palermo di inviarle al governo centrale spagnolo. Delle vicende dei condannati allo “Steri” non rimasero che i graffiti e le iscrizioni sui muri delle celle, da una paziente scrittrice raccolte e catalogate in un grosso volume. Da esso è possibile rilevare la varietà di cittadini arrestati, appartenenti a tutti i ceti, dalla nobiltà alla plebaglia, dai colti agli analfabeti, ed anche personaggi dello stesso clero. Generalmente il “reo” veniva individuato per mezzo di lettere anonime cui veniva dato credito (vox populi, vox Dei.) Addirittura su un muro è stata trovata una ricostruzione della Sicilia di un certo Nigro, cartografo, con la indicazione delle città più importanti, tra le quali, stranamente era indicata Caltabellotta, nota a quei tempi come centro esoterico per eccellenza. Monaci eretici, streghe, maghi, negromanti, indovini, indemoniati, ciarlatani, modesti truffatori e magari millantatori di poteri soprannaturali e ritenuti capaci di rievocare le anime dei morti, venivano indiscriminatamente denunciati, arrestati, torturati e condannati. Dallo “Steri” non si usciva mai assolti e le condanne variavano dalle “verghe” al “rogo” da vivi.
Pur di arrivare in ogni caso alle condanne, si giunse al paradosso di ammettere l’esistenza, in quanto personificazioni di demoni, degli antichi Dei pagani, dei quali per un secolo intero era stato detto e dimostrato anche con il martirio che non esistevano perché falsi e bugiardi. Pertanto nel dispositivo di alcune condanne poteva leggersi che il reo aveva avuto rapporti anche carnali con la dea pagana Persefone, regina dei morti e dell’inferno, o che una strega si era carnalmente congiunta con il dio vaticinatore Apollo. Insomma le condanne avvenivano con delle motivazioni aberranti e contraddittorie con i veri e santi principi del cristianesimo e riesumando assurde connivenze con figure di vecchi idoli, già definiti inesistenti.
Per capire esattamente cosa fosse lo “Steri” a Palermo, voglio riportare alcuni versi che sono stati trovati scritti sulla parete di una cella da un condannato, che si dilettava di poesia dialettale e che sicuramente conosceva la Divina Commedia di Dante, del quale in sostanza ne riporta un celebre verso in dialetto siciliano:
Nisciti di spiranza vui ch’entrati
cha non si sapi si agghiorna o si scura
sulu si senti ca si chianci e pati
pirchì non si sa mai si veni l’hura
di la desiderata libertati.
(Lasciate ogni speranza o Voi ch’entrate,
qui non si sa se fa giorno o annotta
solo si sente piangere e patire
perché non si sa se verrà l’ora
della desiderata libertà.)
BRONTE ALLA RIBALTA
“All’interno d’un ampio antro manipolavano il ferro i Ciclopi Bronte, Stérope, e nudo le membra, Piràcmon” Canta Virgilio descrivendo l’interno del vulcano Etna come un officina da fabbro. Bronte rappresenta il rimbombo dei colpi di maglio sul ferro rovente, Stérope il lampo che guizza ad ogni colpo assestato e Piràcmon l’incudine fredda su cui poggia il ferro arroventato che riceve i colpi. Secondo la mitologia greca, questi ciclopi, compreso anche Polifemo, accecato da Ulisse, erano dei giganti enormi con un solo occhio, figli del Dio Poseidone, dai Romani chiamato Nettuno. Quel nome Bronte, nominato da Virgilio, rispetto agli altri due, fu destinato ad avere una maggiore memoria storica, rispetto agli altri due rimasti semplici simboli mitici senza alcun addentellato alla realtà. Bronte fu chiamato un territorio all’interno della Sicilia, nei pressi dell’Etna, dove la tradizione vuole che il mostro era solito andare sovente. Ciò, probabilmente significa che in quel posto si sentivano sovente e ben distinti i rimbombi dell’Etna durante le attività eruttive. In questo territorio sicuramente nacque un primo borgo di abitazioni sicule, essendo stati trovati dei reperti risalenti a loro, anche se Tucidide sosteneva che i primi abitatori della Sicilia furono, appunto, i mitici Ciclopi ed i Lestrigoni. In ogni caso nulla di eccezionale emergeva da questo territorio, anche quando, dopo, i Greci lo battezzarono Bronte. I secoli passarono silenziosi, fino a quando, un bel giorno, un fatto storico italiano non lo espose in vetrina, affidando il suo nome alla storia.
Sull’onda della rivoluzione francese del 1789, scoppiarono dei moti di ribellione anche in Italia e per quello che ci riguarda anche nel Regno delle due Sicilie. Napoli insorse contro i Borboni ed a ben ragione, la Regina Maria Carolina, figlia di Maria Teresa d’Austria e sorella di Maria Antonietta, che a Parigi era stata ghigliottinata, fortemente impaurita, convinse il marito a lasciare Napoli ed a riparare a Palermo, dove, in verità, vennero bene accolti. In effetti i Siciliani speravano che il Re, ritenendo la Sicilia più affidabile, trasferisse definitivamente la capitale da Napoli a Palermo. Purtroppo le loro speranze andarono frustate, poiché l’ammiraglio inglese Horatio Nelson, che aveva la flotta alla fonda nel porto di Napoli, per espressa disposizione della corona inglese, intervenne con energia e pacificata Napoli vi riportò i reali borboni, i quali non sapevano come disobbligarsi non solo con la corona inglese ma anche con Nelson e consorte. La moglie di Nelson, lady Hamilton ricevette due intere carrozze piene di vestiti ed una prebenda di sei mila scudi. Horatio Nelson , oltre ai favori che le male lingue dicono abbia ricevuto dalla regina Carolina, ricevette in dono il castello di Maniacecon tutto il territorio attorno che si chiamò Ducea di Bronte, con diritto all’ereditarietà e senza alcun obbligo di tributo alla corona borbonica. Bronte ed il suo territorio diventò sostanzialmente un enclave inglese, dove era di stanza una guarnigione di soldati, che pensarono anche ad incrementarne la popolazione, oltre che proteggere gli interessi dei Nelson. Ovviamente l’avvenimento fece scalpore in Italia e specialmente nella Sicilia, dove si recepì la negatività di avere in casa non solo i Napoletani, ma anche gli Inglesi per quel tanto che avrebbero sempre garantito alla monarchia borbonica una maggiore sicurezza. Insomma i siciliani non gradirono la faccenda e misero su tutta una storia fantastica che ribadiva l’esistenza della maledizione di Dio su Maniace e sulla Ducea di Bronte, alimentata anche dal fatto che il povero Nelson, pur vincitore sulla flotta francese a Trafalgar, ci perse la vita senza aver avuto la possibilità di godersi quel dono. Ecco, quindi, che Bronte, assume un’importanza storica non indifferente ed inoltre diventa il simbolo del coinvolgimento di fatti mitologici antichi con fantasie esoteriche del tempo in un groviglio veramente singolare ed internazionale!
Dovreste sapere (e se non lo sapete lo apprenderete ora!) che un certo re d’Inghilterra Enrico VIII, pensò di divorziare dalla moglie imparentata con il re di Spagna, per sposare Anna Bolena. Poiché il Papa non concesse il divorzio per non inimicarsi il monarca spagnolo, l’ottimo re d’Inghilterra non ci pensò più di tanto: dichiarò lo scisma dalla chiesa cattolica autoproclamandosi capo della religione cristiana inglese; in poche parole mise fuori legge il papa nella sua Inghilterra. Naturalmente, per questo motivo, venne scomunicato e dichiarato in combutta con il diavolo, cioè con il nemico numero uno del cristianesimo. Non solo era scomunicato Enrico VIII, ma tutti i sudditi che eseguivano la sua volontà, compresi i figli ed i successori. Ecco quindi che i siciliani pensarono di avere in casa il diavolo in persona. Nacque così la leggenda che la Regina Elisabetta I d’Inghilterra, la vergine, come lei stessa si definiva, figlia di Enrico VIII, quando morì, venne prelevata dal diavolo in persona per essere gettata nelle fiamme infernali del ‘Etna con tutti gli arredi reali, comprese le scarpe. Nel tragitto da Londra al cratere dell’Etna, una scarpetta si sfilò dal suo piede e cadde nei pressi di Bronte. Venne trovata luccicante tempo dopo da un pastorello, ma con sua grande sorpresa si bruciò le mani nel toccarla. Fu gioco forza far intervenire un esorcista e la scarpetta per sfuggire da lui volò via ed andò a rifugiarsi nel castello di Maniace, dove rimase nascosta per quasi due secoli, finché nel 1799, dopo l’avvenuta donazione della Ducea di Bronte, l’ammiraglio Nelson, ballando con una dama durante una festa mondana a Palermo, ricevette da quest’ultima un cofanetto con dentro la famosa scarpetta, con il monito di custodirla e di non farla vedere a nessuno, perché ne andava della sua vita. Naturalmente la dama donatrice altri non era che lo spettro della defunta regina Elisabetta. Il buon Horatio ad un certo punto mostrò il dono alla sua amante, o moglie che fosse, Emma Hamilton, la quale la trafugò senza tanti complimenti. Sapete cosa avvenne? Dopo pochi giorni l’ammiraglio perse la vita a Trafalgar! Dopo questo fatto la scarpetta fuggì per andarsi a nascondere nuovamente nel castello di Maniace, in attesa del prossimo sortilegio. Da allora vennero addossati ad essa tutti i guai dei successori di Nelson alla guida della Ducea, la quale venne anche tacciata di essere frequentata dai diavoli.
Voglio evidenziare che la vicenda di una scarpa sfuggita alle fiamme dell’Etna, non era nuova. Un altro famoso calzare, quello in bronzo di Empedocle, pare si sia salvato dalla furia del vulcano. La tradizione vuole che questo grande filosofo, sia sceso dentro il cratere dell’Etna per scoprire il mistero del fuoco lavico, senza far più ritorno; solamente un suo calzare venne espulso dal cratere, senza che si sappia dove sia finito.
Che Bronte sia sede o meno di presenze diaboliche non è dimostrabile. In ogni caso un altro fatto increscioso fece salire alla ribalta il nome di questo paesetto, che viene ricordato come l’eccidio di Bronte. Quest’ultimo avvenne durante l’invasione dei Garibaldini ad opera di Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi. Si disse che i cittadini di Bronte fatti fucilare dalle camicie rosse fossero degli oppositori borbonici e dei briganti, ma su tutta la vicenda aleggia il sospetto che essa fu la contropartita pagata da Garibaldi al Governo inglese per avergli favorito lo sbarco a Marsala, impedendo alle truppe borboniche di usare le loro artiglierie piazzate nel porto. Sostanzialmente il sospetto è che Garibaldi pagò l’aiuto avuto dagli inglesi con la promessa, che poi realizzò Nino Bixio, di far fuori a Bronte quei quattro manigoldi che avevano osato precedentemente ribellarsi al Duca inglese. Fiumi d’inchiostro sono stati versati su questo argomento, senza che alcuno abbia mai potuto accertare la verità. La cosa certa è che la spedizione dei mille ha dato adito a molte perplessità, nate dalla solerte opera diplomatica e preparatoria del Cavour, che mettono molto in ombra l’operato dell’eroe Giuseppe Garibaldi.
LA MADONNA DELL’ADONAI DI BRUCOLI
Una vecchia leggenda racconta che tra il 1500 ed il 1600, un pastorello che si aggirava con un gruppo di mucche al pascolo nel territorio di Brucoli, frazione di Augusta in Sicilia, si accorse che ne mancava una all’appello.
Il nome del posto sta appunto ad indicare, come in effetti era, che quel territorio veniva adibito al pascolo di animali di piccola e grossa taglia; molto vicino al mare, fin dai tempi più antichi, oltre che alla pastorizia, si prestava anche ad approdo di imbarcazioni, essendo dotata, tra l’altro, di un lungo fiordo, la foce navigabile del fiume Porcarìa, tanto da far pensare che Brucoli sia stato uno dei primi luoghi dove i colonizzatori greci approdarono. Oggi è una ridente frazione di Augusta sede di attrazione turistica estiva. Ottime pizzerie, ottimo pesce, ottima sede per vacanze serene e spensierate. Storicamente, nacque come centro abitato intorno al 1400, ma già da prima il porto canale formato dal fiordo, consentiva l’uso della località come approdo marinaro, anche per motivi militari, come Tucidide racconta. Fu sotto gli Aragonesi che il porto-canale assunse una importanza maggiore con la costruzione del castello e l’uso come punto caricatore di merce via mare. In data molto recente nel territorio è sorto il villaggio del Valtur, che ha valorizzato la zona dal punto di vista turistico. Proprio in questo villaggio ha iniziato la sua carriera il noto showman siciliano Fiorello.
Ma torniamo al nostro pastorello, che disperato, incominciò a cercare la mucca smarrita, fintanto che, alla fine, la senti muggire senza scorgerla. La povera bestia era andata a finire dentro una grotta il cui ingresso era nascosto da una fitta vegetazione. Per entrarvi egli fu costretto a calarvisi con una corda attraverso un anfratto di forma circolare. Appena messo piede sul terreno ed aver scorto la mucca, alla luce che filtrava attraverso la vegetazione dell’ingresso, scorse sul muro la figura di una madonna nera, dipinta sopra una nuvola con il bambino in braccio, con nella mano destra una croce ed in quella sinistra uno scettro. Tirata fuori la mucca, parlò del ritrovamento di quell’immagine.
Si trattava niente po’ po’ di meno che della famosa Madonna dell’Adonai, di cui si sapeva dover esistere da qualche parte in località Gisira di Brucoli. Era nella tradizione che intorno al IV secolo dopo Cristo, lì a Brucoli, esistesse un luogo segreto dove i primi cristiani si riunivano per pregare al riparo delle persecuzioni, fondato da un cristiano di nome Publio di Trotylon (forse primo nome greco di un territorio parte dell’antica Lentiini), ma non si sapeva dove esattamente, essendo stato abbandonato dopo che l’imperatore Costantino si era convertito al Cristianesimo. Finalmente , grazie a quella mucca smarrita ed al pastorello il posto venne individuato proprio in quel gruppo di Grotte, chiamate del Greco, poiché furono utilizzate al loro arrivo dai primi coloni ellenici. La grotta dove venne trovata l’immagine della madonna aveva una forma circolare, come di una cappella, con sopra un buco da cui filtrava la luce e dal quale il pastorello era sceso. Quel Publio di cui ho detto prima, si ritirò in questo eremo per pascere, pastore di anime, le pecorelle del Signore. Fu questo il posto, quindi, dove Sant’Agatone visse e svolse la sua opera di diffusore della Fede e dove si rifugiavano i cristiani leontinesi perseguitati dagli imperatori pagani Decio e Valeriano. Veniva ricordato con il termine “Oratorio dell’Adonai”, che letteralmente significa Oratorio del mio Dio, essendo Adonai un termine biblico con questo significato. Notare che nel mondo greco vi era il dio Ade, quello del famoso ratto, che con Adonai, hanno la stessa radice.
Evidenzio che l’immagine ritraeva una madonna nera in volto. Va precisato che nella prima tradizione del cristianesimo, la madonna era rappresentata sempre nera ed ancora oggi esistono dei culti, in cui la madre di Dio viene così rappresentata. Quali i motivi? E’ difficile poterli stabilire. Forse si voleva indicare con questo colore della pelle la provenienza orientale della madonna o forse, come sostengono alcuni, per abituare il popolo a vedere nelle vecchie icone di Iside, Proserpina ed altre dee orientali, l’immagine della madonna; sostanzialmente, per far gradualmente dimenticare i vecchi idoli sostituiti dai nuovi simboli. Sinceramente non lo so per quale motivo la madonna venisse ai primordi rappresentata nera! So per certo che i santi esorcisti venivano rappresentati neri per la loro frequentazione delle fiamme dell’inferno dove riaccompagnavano i demoni, ma per quanto concerne la Madonna non so proprio.
Dopo che venne scoperta la grotta con la Madonna, che fu detta dell’Adonai, ( “Mater Adonai”), un drappello di soldati spagnoli decise d’abbandonare la vita militare e di dedicarsi a quella contemplativa, proprio in quel luogo, costruendo una chiesetta ed un convento che ancora esistono e costituiscono un’attrattiva turistica ed un richiamo alla fede.
Molta leggenda aleggia sull’origine dell’oratorio dell’Adonai e della sua Madonna e si è fatto pure un gran parlare della sua “miracolosa” esistenza. Si sconosce il vero autore del dipinto della Madonna, forse opera di Santo Agatone o di qualcuno che lo seguì nella sua missione di eremita. Non è certo se la primitiva immagine abbia subìto delle variazioni, come qualcuno sostiene. Di certo c’è soltanto che la grotta risale addirittura al neolitico e che precedentemente al periodo cristiano, cioè, antecedentemente al 250 D.C., le cosiddette grotte del Greco, siano state fin da subito utilizzate come luoghi sacri anche dal mondo pagano ed inoltre come sepolture. L’altra certezza è che dopo l’editto di Costantino con il quale si ufficializzava il cristianesimo, le grotte vennero totalmente ignorate per circa un millennio.
Per chi non lo sapesse, inoltre, il territorio di Brucoli, che si affaccia sul mare, è soggeto a violenti terremoti, poiché da queste parti passa la faglia di contatto tra l’Eurasia e l’Africa. Nel 1693 un tremendo terremoto distrusse Augusta e dintorni, radendo al suolo molti edifici. Ebbene, la chiesetta dell’Adonai, la grotta ed il convento non subirono alcun danno. Il fenomeno si è ripetuto anche con i successivi terremoti del 1848 e del 1990. Di quest’ultimo sono stato anche testimonio dei danni provocati; ricordo che la stazione ferroviaria di Brucoli, di solida muratura, si sbriciolò come se colpita da una bomba e non provocò vittime per puro miracolo, mentre nessun danno ne riportò il vicinissimo complesso religioso dell’Adonai. Il fatto ha radicato nei fedeli la credenza che il santuario della Madonna di Adonai di Brucoli goda della protezione divina della Madonna. Per questo motivo, dopo il 1990 si è pensato bene di dare una mano alla Provvidenza divina mettendolo in sicurezza ed apportandovi anche delle variazioni, non tanto felici in verità. Oggi è meta di pellegrinaggi e di preghiera. Nel giorno della ricorrenza del patrono San Nicola, la processione raggiunge anche la chiesetta della Madonna dell’Adonai.
IL VOLGARE ILLUSTRE
E’ stato certamente assodato che il volgare toscano ha preso il sopravvento su tutti i dialetti nello sviluppo della lingua nazionale italiana. Ma non bisogna sottovalutare che esso attinse a piene mani dal volgare della scuola siciliana di Federico II, prima a volgere in volgare la poetica provenzale, come sostenuto anche dal Petrarca. I primi a seguire le orme della scuola siciliana furono i cosiddetti poeti siculo-toscani con a capo Guittone d’Arezzo e Bonagiunta da Lucca che ne accolsero il linguaggio considerandolo un’espressione lirica insostituibile. I poeti fiorentini del “dolce stil novo” che seguirono, a cominciare da Chiaro Davanzati e Brunetto Latini, definito da Dante il suo maestro, attinsero a piene mani dal linguaggio della scuola siciliana. Infatti le loro opere sono cosparse di sicilianismi correntemente esposti, come delle mattonelle di diverso colore in un pavimento uniforme. Fra tutti questi basta citare quello che più di tutti emerse per la sua ciclopica opera della “Divina Commedia”: Dante Alighieri. Egli, che non fu solamente un poeta, ma un profondo studioso del linguaggio, nel suo trattato in latino “De vulgari eloquentia” sostiene questa verità riconoscendo alla scuola siciliana il primato nell’espressione del “volgare illustre” siciliano, da distinguere da quello dei “terrigenae mediocres”, ossia, quello parlato dal popolo.
Curiosamente, in questo periodo, mentre si esaltano i valori del “volgare illustre”, usato nella poesia, sulla falsariga dei trovieri provenzali, per quanto concerne i trattati scientifici, veniva usato esclusivamente il latino. L’esempio tipico è, appunto, il “De vulgari eloquentia” di Dante.
Il sommo poeta non si limita a sostenere la sua teoria sull’importanza del volgare siciliano, ma ne tiene anche conto, poiché nella sua opera poetica incede molto facilmente in sicilianismi evidenti come una prassi usuale della sua poetica. Cito alcuni esempi particolari che mi hanno colpito. In Purg. XVIII, 56 dice “dalle prime notizie omo non sape”. Usa qui ed in altri posti la forma siciliana del verbo sapiri. ( Cu’ sapi si …? ). In altre occasioni usa la forma latina sicilianizzata, tipica del messinese, della terza persona singolare del verbo essere (este al posto di è.) Undi esti? dicono i Messinesi per chiedere dove si trova un determinato oggetto. In Inf. XXIV, 127 riferendosi al noto ladro sacrilego Vanni Fucci scrive “Dilli che non mucci” (digli che non nasconda). Quel “mucci” altro non è se non il congiuntivo del verbo siciliano ammucciare (che io ammucci, che tu ammucci, che egli ammuccia…). Elenco alcuni modi di dire siciliani: “Ammuccia, ammuccia ca tuttu pari” (Nascondi pure che tutto infine compare). “Ammucciari u suli cc’u crivu” nascondere il sole con lo staccio). “Irisi a mucciari” (andarsi a nascondere). “Và ‘mmucciti!” (vai a nasconderti!) e tanti altri che hanno come base questo verbo. In Purg. II, 104-105 dice “sempre quivi si ricoglie, quale verso Acheronte non si cala …“, nel senso di riunisce. “T’arricugghisti finalmenti!” (Ti sei riunito a noi finalmente diciamo in siciliano). In Purg. III, 102 dice “coi dossi ”della man facendo insegna” Nel senso di far segno con le mani. “Ti fici ‘nsigna c’a manu” (ti ho fatto segno con la mano)…. Potrei continuare a citare altri esempi ma preferisco fermarmi per paura di tediare chi legge
Dunque senza ombra di dubbio, la nostra lingua nazionale italiana prese le mosse dal nostro “volgare illustre” di federiciana memoria. Ma non è soltanto questa circostanza italiana prettamente letteraria a prendere le mosse dalla Sicilia. E’ tutta l’esistenza dello Stato italiano e della sua cultura che scaturiscono dal contesto storico-geografico di cui fa parte l’intera isola. Non a caso ho evidenziato tutte le curiosità storiche e letterarie della nostra Trinacria. Esse mostrano il costante contatto con il mondo classico che fu la fortuna dell’impero romano e che costituisce il fondamento del viver civile del mondo intero. Qualcuno ha definito le varie fasi di civiltà storiche caratterizzandole con gli appellativi di Prima Roma (quella italiana) Seconda Roma (quella Bizantina) Terza Roma (quella russa) ipotizzandone una quarta che sarebbe quella americana. Poiché la prima Roma è fortemente connessa alla cultura classica greca della Sicilia, è lecito ammettere per il principio della proprietà transitiva, che la civiltà nel mondo è figlia primigenia della nostra terra. I fatti non smentiscono questa verità, poiché ovunque voi andiate nel mondo difficilmente non trovate dei siciliani. Scusate. Ho detto mondo? Forse avrei dovuto dire Universo! Mi era momentaneamente sfuggito che siamo stati anche nel cosmo con un astronauta catanese!
CONCLUSIONE
Da tutte queste vicende storiche e linguistiche emerge ancora che il nostro patrimonio culturale è il più ricco e più vario del mondo, poiché siamo il crogiuolo di tutte le maggiori civiltà del pianeta. Noi Siciliani rappresentiamo la fusione perfetta di uomini di tutte le razze, la sintesi dei modi di pensare delle diverse umanità dall’oriente all’occidente e dal Nord al Sud. Noi siciliani abbiamo saputo essere Sicani, Siculi, Fenici, Greci, Turchi, Latini, Bizantini, Vandali, Goti, Ostrogoti, Arabi, Normanni, Francesi, Spagnoli, Tedeschi ed Italiani … E’ vero che adesso apparteniamo allo stato ed alla nazione italiana, ma la nostra vocazione è quella internazionale e cosmopolita. Noi siamo i cittadini del mondo per eccellenza. La nostra terra è un ponte senza fine tra passato e presente, che mai potrà essere interrotto ed è sempre stata un punto di riferimento di gente nuova in arrivo alla ricerca di quel paradiso terrestre, che pensano sia. La nostra isola è la zattera al centro del mediterraneo sulla quale tutti i popoli hanno cercato di salire con le armi nei tempi passati ed ancora oggi con le peripezie del mare attraversato con fatiscenti battelli.
Potrei ancora all’infinito elencare fatti storici, curiosità linguistiche, vicende umane, aneddoti, semplici riferimenti riguardanti la nostra Sicilia, poiché ogni nostro angolo di terra, ogni nostro specchio d’acqua, ogni corso d’acqua, ogni fiore ed ogni pietra gronda di mito, di storia e di mistero. Anche le persone del passato distante nei secoli e quelle del presente più recente hanno il fascino che emana la nostra terra da Empedocle ad Ettore Majorana, da Caronda a Don Sturzo, dai modesti giullari post-provenzali ai comici dei nostri tempi, dagli antichi cantori delle corti al nostro Vincenzo Bellini ed ai nostri cantautori moderni, compresi i nostri grandi scrittori come Verga, Pirandello, Rapisardi, Sciascia ed altri, modesti grafomani, come me. Continuare a parlarne da parte mia diventerebbe un’ impresa superiore alle mie forze e forse anche agli anni che mi restano da vivere.
Preferisco a questo punto delegare ad altri codesto compito con la speranza che sia migliore di me nell’esprimere tutto l’amore che nutro per la mia terra e nel rievocarne tutte le infinite curiosità alle quali si presta.
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