Il mito di Venere - Ad Erice, il culto di questa divinità femminile assunse, con il passare dei secoli e dei popoli, nomi diversi. Il culto fenicio della dea Astante, poi trasformato dai Romani in quello di Venere, aveva una natura per molti versi oscura che comprendeva l’allevamento delle colombe e la prostituzione sacra all’interno del tempio.
Migliaia di pellegrini ogni anno raggiungevano il santuario in occasione della partenza delle colombe sacre alla dea che si dirigevano verso l’Africa, a Kef, dove si trovava un santuario gemello per poi far ritorno ad Erice dopo nove giorni. Durante questo periodo ad Erice si svolgevano grandi feste.
Il mito di Venere era poi alimentato dalla prostituzione sacra delle Ierodule.
Da tutto il mediterraneo, commercianti e naviganti arrivavano qui per godere della compagnia delle belle sacerdotesse di Venere che, dietro cospicue offerte, assicuravano la protezione della dea.
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C’è una Sicilia segreta e misteriosa, fatta di tradizioni e di costumanze che si perdono nella notte dei tempi; una Sicilia mitica e leggendaria, i cui protagonisti balenano ora in un rito che ha sfidato i secoli, ora in un relitto che l’archeologia ha riportato alla luce, ora in una favola che uno scrittore antico ha raccolto.
È la Sicilia prospera e geniale di sempre, accesa dal sole e fecondata dal mare, luogo di incontro dei popoli più diversi, creatrice inesauribile d’arte e di civiltà. Attraverso questa terra, attraverso le testimonianze millenarie dei suoi splendori, si può compiere un viaggio affascinante, che solo in parte coincide con gli itinerari del comune turismo: perché il turismo guarda le bellezze estrinseche, mentre di rado conosce quelle celate nei cuori degli uomini o nelle viscere del suolo.
Ma s’intende che i luoghi più suggestivi sono anche quelli in cui più antico fu il concentrarsi della vita, più ricco e intenso il dispiegarsi delle tradizioni e delle leggende; sicché in ultima analisi il nostro viaggio non deluderà neppure il comune turista, ed anzi costituirà per lui la rivelazione di itinerari che invano cercherebbe nelle guide usuali.
Tanto per rimanere nel regno della fantasia, seguiamo il cammino dell’eroe Ercole che secondo una suggestiva leggenda, giunto allo stretto che separa la penisola italiana dalla Sicilia, lo attraversò a nuoto con la sua mandria di buoi, tenendosi stretto alle corna di uno di essi. Quindi, con la velocità che solo le leggende consentono, costeggiò l’isola lungo le sue rive settentrionali, puntando verso l’estremo occidente. Per ristorarlo da così immensa fatica, le Ninfe benevole fecero sgorgare dalla terra due fonti d’acqua calda, presso Imera e presso Segesta. Ma né l’uno né l’altro luogo vide sostare l’eroe, la cui meta era il picco montano di Erice, in vista delle isole Egadi.
Oggi, ad Erice, noi giungiamo piuttosto da Trapani, che giace ai suoi piedi stendendosi in forma di falce verso il mare. La montagna, alta quasi ottocento metri, le sta a ridosso, tanto più imponente quanto più è isolata nella pianura circonvicina. Torna alla mente la descrizione che ne diede un geografo arabo: «Presso l’istmo di Trapani si leva una montagna grande, assai distesa ed alta. I Cristiani occupano un picco unito alla montagna da un ponte e posseggono una città considerevole sulla montagna stessa. Si dice che le donne di questo paese siano le più belle dell’Isola. Che Dio le faccia diventare schiave dei Musulmani!».
Trapani, coi suoi grattacieli, è un segno vivente del moderno sviluppo della Sicilia. E forse ancor più per questo è suggestivo il contrasto con la campagna che la circonda, e che percorriamo in auto dirigendoci verso l’altura. Ampie lagune si diffondono tra i campi, cumuli di saline si levano qua e là; e le une e gli altri scintillano al sole estivo, diffondendo all’intorno una luce rarefatta che agevola il distacco dalla realtà e l’immersione nella leggenda. Poi è salita ripida, a tornanti, lungo la via che s’apre nella roccia rosea, tra cespugli gialli di ginestre. Ampie pinete chiazzano di scuro il monte, eleganti ville lo punteggiano di vividi colori.
Appena s’entra in Erice, la vita sembra sostare. Lungo le vie selciate a singolari riquadri, nei quali l’acciottolato si dispone come in elegante mosaico, tra i muri di pietre a secco che segnano le pareti ininterrotte delle case, non c’è anima viva, non si vede né s’ode persona alcuna. Occorre sostare a lungo per comprendere il segreto di questa città del silenzio: la sua vita si espande nei cortiletti, separati dalle strade a mezzo di muri senza aperture. Ma quale differenza tra l’esterno e l’interno! Là il grigio chiaro e monotono delle pietre, solo interrotto da rade chiazze di muschio; qui il rosso e il giallo e il verde dei fiori lussureggianti, che si diffondono tra gli alberi più ricchi e vari.
Ora possiamo tornare alla leggenda. L’epica lotta che Ercole condusse contro il re del luogo (il primo ponendo in palio i buoi, il secondo il regno) si concluse naturalmente con la vittoria dell’eroe, il quale affidò la città agli abitanti in attesa che venisse a governarla qualcuno della sua stirpe. Chiara trasposizione, nel mito, del preannunzio del dominio greco… Ma a noi interessa piuttosto quel re valoroso e sfortunato, che la leggenda chiama proprio Erice e del quale fa dunque il progenitore del luogo. Di più: Erice viene detto figlio di Afrodite, la dea dell’amore. E così la leggenda spiega, a suo modo, il fatto che questa dea appunto fu la vera sovrana della città, oggetto di un culto che mutò nomi ma non mutò sostanza, sfidando e vincendo il passare dei secoli.
Afrodite dei Greci, Tanit dei Cartaginesi, Venere dei Romani: la rugiada, si narra, cancellava al mattino le tracce dei sacrifici che alla sera si compivano, all’aperto, nel suo luogo sacro; ed ogni anno un volo di colombe recava sull’antistante costa africana il segno di un rito sovranamente mediterraneo, tornando poi indietro a significarne la reciprocità. Infine, più di un autore afferma che si praticava la prostituzione sacra: anch’essa segno inconfondibile del culto che in antico si rese alla dea dell’amore.
Ora interviene la leggenda più importante dell’antica Roma, quella del viaggio di Enea e della fondazione della città eterna.
In Sicilia, canta Virgilio, venne a mancare il vecchio padre dell’eroe, Anchise; e fu sepolto proprio sul monte di Erice, dove si svolsero cerimonie grandiose in suo onore. V’è forse un caso fortuito in questo collegamento? O non è vero piuttosto che Enea, figlio di Venere, doveva pur sostare nel celebre santuario della dea tanto più in quanto gli abitanti del luogo si ritenevano anch’essi di provenienza troiana? Così accade che Enea fondi sul monte, per la divina madre, «una sede vicina alle stelle»; e che il culto si diffonda in Roma, dove a Venere Ericina vengono dedicati un tempio sul Campidoglio e poi un altro presso la Porta Collina.
Cosa resta, oggi, di Erice antica? Sulle pendici nord-occidentali del monte, tratti imponenti di mura, dalle quali sporgono grandi torrioni, risalgono certamente a prima dell’età cristiana: ne fanno fede alcune lettere puniche incise sulle pietre. Quanto al celebre santuario della dea, poi rifatto in epoca romana, poi trasformato in chiesa, restano oggi sulla vetta del monte, nell’area del Castello che domina l’abitato, le fondazioni di un edificio punico ed un pozzo, finora detto di Venere, nel quale i turisti si recano a gettare le monetine come nella fontana di Trevi: sarà per augurarsi il ritorno o per propiziarsi l’amore? Alcuni anelli d’oro e d’argento, sempre con la immagine di Venere, sono quanto rimane della leggendaria ricchezza del luogo sacro. Gli scavi compiuti in passato, e che dovranno essere dopo lunga pausa ripresi, indicano la presenza ad Erice di un notevole insediamento punico, confermando i dati già offerti dalle lettere incise sui blocchi di pietra delle fortificazioni; suggeriscono che nella fase antica di tale insediamento fosse attivo l’influsso dei più remoti e fecondi centri della civiltà mediterranea; mostrano che l’occupazione si protrasse per alcuni secoli, confermando le notizie storiche sul permanere dei Cartaginesi ad Erice fino alla conquista romana. Così, l’archeologia illumina i racconti degli antichi scrittori, rivelando la complessità delle credenze e dei riti di queste terre.
Nel che i lettori, se credono, potranno ravvisare un motivo in più per venire da queste parti. Ma, anche se non si interessano di cose antiche, vengano lo stesso a vedere le feste dell’«Estate ericina», le processioni allegoriche, i concorsi di bellezza (sempre Venere, dunque!). E se poi neppure questo li interessasse, provino almeno la cucina locale, le ricette elaborate per secoli nel segreto dei monasteri, ed in particolare quel cuscus di origine africana che ricorderà loro (anche questa è una via per la diffusione della scienza) i secolari rapporti con le civiltà dell’opposta sponda mediterranea.
(di Sabatino Moscati)
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