Il Monte Bonifato, posizionato nell’entroterra del Golfo di Castellammare, tra la vallata del Fiume Freddo (a ovest) e il Fiume Jato (a est), è un rilievo alto 825 metri, alle cui pendici si estende il territorio di Alcamo
Sulla vetta del Monte sono visibili i resti di un’ampia cisterna detta “Funtanazza”, un’antica opera architettonica che si ritiene abbia avuto la funzione di serbatoio idrico e deposito di viveri.
Vi è poi una porta, detta Porta della Regina, che lascia supporre l’esistenza di una cinta muraria e quindi di un’antica città, che secondo Licofrone, il poeta tragico ed erudito greco, si chiamava Longuro o Longarico.
Non vi sono fonti storiche certe che parlino di costruzioni sul Monte Bonifato prima del XIV secolo, solo nel 1332 si ha notizia che Federico III tentò di ripopolare il Bonifato, iniziando ad edificare sulla sua cima un castello. Mentre nel 1398 è già documentato, con la formula latina dell’epoca medievale, un castrum bonifati, costruito o ricostruito da Enrico Ventimiglia, feudatario a quel tempo del territorio di Alcamo, che venne poi distrutto per ordine di Re Martino.
Il castello, con tutta certezza, venne fabbricato nei primi decenni del XIV secolo con una malta bianca: “la trubba”, una pietra locale costituita da calcare e argilla. Dell’antico castello oggi restano in piedi i ruderi distribuiti attorno alla corte, a pianta triangolare, ai cui vertici sono posizionate tre torri per la difesa, più una mediana, sul lato nord.
A difesa del fortilizio, che presentava quattro torri originarie,
oggi rimane il mastio, un robusto torrione, a pianta rettangolare, dotato di feritoie a toppa, vi erano poi dei fossati da varcare legati alla presenza della stessa cisterna, che si trova al di sotto di un’antica chiesa, possibile sito originario di antichi culti pagani, come quello di Demetra, già attestato nel territorio di Alcamo.
Un atto notarile di tal notaio Balduccio del 1558, è il primo documento che attesta la presenza di una chiesa eretta da “antico tempo” dentro il castello di Bonifato.
Ma si ha notizia che già, anni prima, esisteva sul Monte un luogo di eremitaggio tenuto da preti secolari dediti ai ritmi severi di una vita ascetica. Pochi decenni dopo la chiesa, venne abbandonata e divenne rifugio di bestiame, e fu poi ricostruita dai frati Carmelitani e pochi anni dopo, nuovamente abbandonata.
Secondo una caratteristica cultural-popolare tipica del pensiero e dell’immaginario umano collettivo, riscontrabile a tutte le latitudini e preso tutte le culture, i luoghi elevati, posti in particolari alture, così come colline e montagne d’ogni sorta, sarebbero dimora di esseri leggendari, di forze sconosciute, di spiriti e divinità varie e si presterebbero meglio ad essere sede di storie e leggende popolari. In Sicilia poi, questa tradizione è da sempre stata particolarmente connaturata con la cultura popolare ed il suo folclore tipico, così sin dalle origini, già per i primi popoli che l’abitarono, i monti sono quasi sempre stati visti come dimora di misteriose creature, sede di leggende e di favolosi miti, di tesori nascosti, di “truvature”, di incantesimi e di manifestazioni soprannaturali.
Allora, proprio sulla cima del monte Bonifato, una leggenda popolare ha collocato una favolosa grotta, colma di monili e monete, oggetti d’oro sorvegliati dal cosiddetto ‘u turcu. Si racconta poi che ai piedi del Monte, in c/da Roccaliscia, vivevano tre cavalli d’oro che si mostravano agli occhi dei curiosi soltanto di notte.
Inoltre una leggenda popolare alcamese racconta di una fata chiamata Delia, la quale abitava nei pressi della “Funtanazza” e che custodiva una truvatura, cioè un favoloso tesoro, nel grembo di una grotta, in stretta relazione alla leggenda della grotta custodita dal “turcu”.
Delia era: “una bona fata, bedda comu lu suli, bianca comu lu latti di carnagione e cu ‘du masciddi comu du rosi avvilutati. Ora c’era un viddanu, cu ’n figghiu, picciutteddu bonu e graziusu di facci, chi abitava in un pagghiaru (una casa costruita con canne), ‘un tantu arrassu di la turri (la torre del castello).
I due giovani si incontrano, inizia un corteggiamento a suon di “friscalettu” (fischietto di canna), nasce l’amore.
I due giovani si sposano ed il giovane, sposo della fata bona, diventa un fatu bonu, bonu fatu.
Dunque, il giovane figlio del contadino, innamorato della buona fata Delia, sposatosi con le diventa un “bonu fatu”, dalla cui espressione sembrano sentirsi le radici del nome del Monte Bonifato, tanto che si può dire che è per questo preciso motivo, ispirato alla leggenda del giovano innamorato di Delia, divenuto un bonu fatu, che la “Muntagna” oggi si chiama proprio Bonifato. Numerosi sono poi i classici “cunti” che ad Alcamo sono legati a fantomatiche “truvature” in questo caso legati a tesori islamici, nascosti in vecchie case abbandonate o sullo stesso monte Bonifato.
A questo proposito, vi era l’antica usanza, per cui quando giungevano i cosiddetti tempi delle vacche magre ed i morsi della fame non davano tregua, o in vista di un pericolo imminente, si mettevano al sicuro i pochi averi, ori e monete, sotterrandoli o nascondendoli in un posto sicuro, con la speranza di tornare a recuperarli in tempi migliori o al ritorno da guerre o lunghe assenze.
Questa usanza tipica siciliana poi, nei secoli successivi, diede vita alla convinzione immaginifica di un custode dei propri averi, della “roba”, che prese forma e corpo nella fantasia popolare, dando così avvio alla tradizione delle “truvature”, leggende di tesori nascosti, spesso protetti da una figura leggendaria e favolistica, come per la fata del Bonifato, legata più alla fantasia del folclore popolare che alla ragione della mente che queste leggende partoriva.
(da www.eventitrapani.it - a cura di Michele Di Marco)